Principio democratico e principio di legalità

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I. La questione dell’ordinamento giudiziario.

In precedenti congressi organizzati dall’Associazione Nazionale Magistrati o da sue componenti, o dalle istituzioni culturali pi attente ai problemi giudiziari, si è lungamente discusso delle soluzioni cui fosse opportuno ricorrere per dare pi completa applicazione ai principi stabiliti dalla Costituzione del 1947 circa il ruolo del potere giudiziario, a cominciare dalla fondamentale regola che stabilisce l’indipendenza della Magistratura e di ogni singolo magistrato.
L’attuazione di tale regola aveva costituito il nucleo principale delle rivendicazioni di un importante movimento culturale, che si era venuto sviluppando in Italia già nel periodo che precedette l’avvento del fascismo e che, dopo il crollo di questo, aveva ispirato una serie di decisioni di principio adottate da parte delle forze politiche che avevano proceduto alla ricostruzione delle istituzioni del paese. Presupposta dalla legge sulle guarentigie della Magistratura del 1946 e pi ampiamente sviluppata nella Costituzione del 1947, questa impostazione aveva tuttavia incontrato non lievi difficoltà, quando si era trattato di passare alla sua attuazione mediante riforme della legislazione ordinaria.

Contro le riforme che sarebbe stato necessario adottare per realizzare i nuovi principi si erano schierati infatti buona parte dei magistrati che controllavano le posizioni di potere che il vecchio ordinamento collocava nella Corte di cassazione e nel Ministero della Giustizia, ai quali non era risultato difficile procurarsi l’appoggio delle principali forze politiche si erano venute affermando all’indomani della Liberazione.
Lo schieramento centrista che in quel periodo assunse il governo del paese optò infatti per una forma di immobilismo che in pratica consentiva il recupero delle prassi osservate nel periodo anteriore alla Costituzione, mentre l’opposizione di sinistra, prigioniera di tradizioni culturali che propugnavano soluzioni palingenetiche, dedicava ben scarsa attenzione ai problemi della giustizia, nella quale era abituata a vedere uno strumento impiegabile soltanto in funzione repressiva delle rivendicazioni dei lavoratori. Scarso spazio avevano d’altronde in questa fase, i piccoli gruppi politici di orientamento liberaldemocratico o socialdemocratico, dai quali ci si sarebbe potuti attendere progetti pi equilibrati. N un forte impegno in questo senso poteva sperarsi dalla cultura accademica, che da tempo aveva addirittura consentito che la materia dell’ordinamento giudiziario restasse esclusa dai piani di studio delle facoltà giuridiche, con conseguente forte riduzione dell’attenzione prestata della scienza giuridica ai relativi problemi.
Nonostante ciò, la protesta contro il perdurare di una situazione di grave violazione dei principi costituzionali venne egualmente a manifestarsi, a cominciare dalle iniziative di alcuni giovani magistrati che, in occasione del congresso di Napoli dell’ANM, svoltosi nel 1957, conquistarono la maggioranza all’interno di tale associazione e da quelle di alcuni esponenti della cultura giuridica cui si deve il convegno di Firenze del 1961 che pose in primo piano la fondamentale alternativa: “Magistrati o funzionari?”.
Seppur molto lentamente e senza poter disporre di un piano organico complessivo, il movimento per l’indipendenza della Magistratura riprese così a svolgere la sua funzione di orientamento della classe politica e una serie di modifiche del vecchio ordinamento furono adottate, mediante leggi approvate dal Parlamento e sentenze della Corte costituzionale, oppure per effetto di “interpretazioni adeguatici” poste a base di decisioni giudiziarie o di delibere del Consiglio superiore della Magistratura.
Per effetto di queste graduali modifiche, intervenute nel corso di circa un quarto di secolo, negli anni ’70 e ’80 si era pervenuti a realizzare un ordinamento giudiziario “vivente” che, pur non adempiendo all’indicazione contenuta nella VII disposizione transitoria della Costituzione (la quale esigeva l’adozione di una nuova legge di questo nome, destinata a sostituire quella che tuttora porta il nome di ministro fascista Grandi, che fosse pienamente conforme ai nuovi principi), vedeva tuttavia raggiunti molti traguardi parziali che si avvicinavano a tale risultato.
Sintomi del successo riportato dal movimento per l’indipendenza della Magistratura furono il rientro nell’Associazione dei dissidenti che nel 1959 avevano dato vita all’Unione dei Magistrati Italiani (avvenuto nel 1979), la crescente attenzione per i problemi dell’ordinamento giudiziario manifestata dalla classe politica (con effetti talora positivi, talora negativi) ed il consenso progressivamente conseguito dalle sue posizioni nell’ambito della cultura accademica.
L’incompletezza di questo processo evolutivo, per contro, derivava principalmente dal fatto che, per assicurare questo successo, i sostenitori delle proposte riformatrici avevano dovuto spesso accettare soluzioni compromissorie, sia nei confronti delle rivendicazioni di quelle componenti della Magistratura che erano interessate prevalentemente alle rivendicazioni di ordine sindacal-corporativo, sia nei confronti delle forze politiche che avrebbero dovute sostenerle in Parlamento, e questo aveva spesso comportato l’impossibilità di imporre soluzioni pi organiche e tali da procurare maggiore efficienza ed un pi alto livello qualitativo delle prestazioni degli organi giudiziari.
Pur senza pervenire alla realizzazione di un nuovo ordinamento giudiziario che potesse ritenersi pienamente conforme alle aspirazioni del movimento per l’indipendenza della Magistratura, questa serie di vicende fece sì che, nella seconda metà del XX secolo, nel panorama comparatistico, la situazione italiana si presentasse per taluni aspetti all’avanguardia tanto da proporsi come una importante alternativa rispetto al modello offerto dagli ordinamenti dei paesi di common law. Al “modello italiano” di ordinamento giudiziario cominciarono così a guardare con interesse, non solo i paesi che avevano conseguito o recuperato di recente un assetto costituzionale ispirato ai principi della democrazia liberale, ma anche i giuristi formatisi nell’ambito di ordinamenti di pi antiche tradizioni, a cominciare dai francesi.
Nel corso di questi ultimi anni, tuttavia, mentre in molti paesi d’Europa e del mondo si è avuta un’imponente crescita del ruolo della giurisdizione e l’indipendenza dei vari tipi di corti è generalmente accettata come un valore indiscusso, si è assistito in Italia alla riapertura di discussioni che sembravano da tempo chiuse e si è giunti persino a chiedere una riforma della Costituzione volta a limitare l’indipendenza della Magistratura, da taluni giudicata eccessiva e pericolosa.
Alcune proposte orientate in questa direzione avevano trovato infatti una maggioranza favorevole nell’ambito della Commissione bicamerale per la riforma della seconda parte della Costituzione che lavorò nel 1997, il cui insuccesso finale non fu dovuto certamente al fatto di avere accolto soluzioni di questo tipo (che furono ritenute anzi insufficienti rispetto agli obiettivi di una parte della Commissione), e la XIV legislatura è stata immediatamente caratterizzata da proposte di riforma tendenti a stravolgere le riforme faticosamente raggiunte nel corso della seconda metà del XX secolo.
Sembra pertanto opportuno tornare ancora una volta sui presupposti teorici della vicenda italiana, anche alla luce della sua evoluzione storica e di quanto è avvenuto in altri paesi, tenendo conto degli importanti contributi derivanti dai progressi realizzati in questo campo dagli studi di storia del diritto e da quelli di diritto comparato.

II: Il giudice e la legge

La nozione di attività giurisdizionale, che si è venuta precisando nel corso dei secoli, e particolarmente nella fase di evoluzione di quel tipo di organizzazione politica della società che si suol chiamare “Stato moderno”, è sempre stata pi o meno rigorosamente definita con riferimento ad un’attività di applicazione del diritto, per cui la nozione di giudice e quella di funzione giurisdizionale risultano fortemente influenzate dalle caratteristiche del sistema delle fonti che trova applicazione nell’ordinamento giuridico di riferimento.
La “soggezione del giudice alla legge”, del resto, era definita con assoluta chiarezza già nella celebre opera di Montesquieu, ma la descrizione del ruolo del giudice che ne deriva dipende essenzialmente dalla determinazione dei due principali elementi della definizione stessa. Si tratta cioè di stabilire come debba esse conformato il soggetto che chiamiamo “giudice” e che cosa dobbiamo intendere per “legge” (espressione questa che, in tale contesto, va intesa molto pi nel senso di “diritto oggettivo” che non nel senso di “atto normativo”). La storia degli ultimi due secoli ci presenta una serie di sviluppi attraverso i quali queste due nozioni si sono venute differenziando a seconda che si abbia riferimento a paesi diversi ovvero ad epoche diverse.
Schematicamente, si può osservare come la figura del giudice dell’ancien rgime, delegato del monarca assoluto, se per un verso non poteva aspirare ad una condizione di vera e propria indipendenza (essendo la funzione giurisdizionale propria del sovrano, al pari di tutte le altre funzioni statali), poteva però avvalersi dal fatto che il diritto che egli doveva applicare risultava prevalentemente da fonti che il monarca non era in grado di controllare completamente.
Il nucleo principale del “diritto oggettivo” vigente a quel tempo risultava infatti da fonti di origine colta, come quelle derivanti dall’elaborazione delle tesi enunciate dai giuristi romani e poi reinterpretate dai doctores delle università a partire dal XII secolo, o come il “diritto naturale” concepito come un diritto comunque dotato di una base razionale, tanto ove – laicamente - lo si consideri fondato sulla ragione umana, quanto ove lo si riferisca alla rivelazione divina, e con tale diritto giurisprudenziale (oltre che con le consuetudini prodotte dalla coscienza popolare) i provvedimenti normativi del sovrano dovevano fare i conti in certa misura almeno. Conseguentemente limitato era lo spazio per un’attività legislativa configurata come attuativa di un’indirizzo politico, così come la intendiamo oggi.
Da questo assetto del sistema delle fonti derivavano, sia la critica dei provvedimenti del sovrano che fu esercitata dalle corti francesi soprattutto nel XVIII secolo, sia la prassi della “trasmissione degli atti” alle università (per averne un “parere giuridico”, generalmente considerato vincolante) che fu seguita dalla corti tedesche a partire dal Seicento, le quali dimostrano come il diritto oggettivo vigente non fosse considerato come frutto di una volontà politica, bensì come un fatto culturale, frutto della ragione umana (talora appoggiata sulla rivelazione della volontà divina).
Da questa linea evolutiva venne parzialmente divergendo la soluzione inglese, poi proseguita e sviluppata negli Stati uniti d’America, nell’ambito della quale la configurazione di un vero e proprio potere legislativo da parte di un’assemblea rappresentativa si manifestò precocemente. Essa ebbe come contrappesi l’affermazione, altrettanto precoce, dell’idea del giudice come soggetto incondizionatamente indipendente, poi sviluppata nella concezione americana del potere giudiziario secondo l’interpretazione pi fedele dello schema di Montesquieu, e la formazione di una common law, risultante dai “precedenti” giudiziari, inclusa nel sistema delle fonti accanto alla statute law, risultante dalle deliberazioni del Parlamento.
Mentre la soluzione anglosassone ebbe un’evoluzione graduale, priva di bruschi scossoni, per cui questo assetto può ritenersi grosso modo ancora attuale, la storia dell’Europa continentale ci mostra una serie di rivolgimenti che sconvolsero il sistema affermatosi nella fase iniziale di costituzione dello Stato moderno.
I principali di questi sconvolgimenti risultarono dalle profonde modificazioni del sistema delle fonti del diritto che furono realizzate sulla base delle dottrine illuministiche, e che trovarono la loro principale manifestazione nel Codice civile adottato da Napoleone nel 1804, il quale identificò nella “legge”, intesa qui nel senso di “atto normativo”, l’unica vera fonte del diritto, consentendo che altre forme di produzione giuridica potessero coesistere con essa soltanto in quanto fossero da essa richiamate e nei limiti in cui lo fossero.
Parallela a questa modificazione del sistema delle fonti del diritto fu la riduzione del ruolo del giudice a quello di una semplice “autorità giudiziaria”, differenziata dalle autorità amministrative per talune particolarità del suo status, ma fondamentalmente subordinata nei confronti del potere esecutivo. Questo si era si era venuto sviluppando ben al di là di come la aveva descritto Montesquieu e aveva assunto un ruolo egemone, sia nei confronti del potere legislativo, sia nei confronti del potere giudiziario.
Questa evoluzione ha portato gli organi costituzionali politici, titolari della funzione legislativa, ad esercitare un potere molto pi libero da condizionamenti di quanto fosse quello esercitato dai monarchi al tempo dell’ancien rgime, poich l’investitura di cui si ammantarono i nuovi ordinamenti costituzionali, sia che essa derivasse dalla rappresentanza fondata sull’elezione dei rappresentanti che sedevano nelle assemblee parlamentari, sia che essa derivasse dal carisma del capo, faceva sì che la legge venisse a coincidere con la volontà del nuovo sovrano – pi o meno giustificatamente identificato col “popolo” – senza pi dipendere, almeno teoricamente, dai condizionamenti che limitavano la produzione normativa imputabile ai monarchi per diritto divino.
Da qui una nuova nozione di “legge” – spesso identificata con il “codice”, ma poi progressivamente estesa fino a comprendere ogni possibile tipo di manifestazione della volontà dello Stato che fosse rivestita dalla forma corrispondente – la quale spazzò via, o ridusse ai minimi termini, ogni altro tipo di diritto, fosse esso fondato sulla consuetudine o sulla giurisprudenza giudiziaria o dottrinale. Lo spazio consentito alla cultura giuridica fu ricondotto così a quello proprio di un consulente del principe, nettamente subordinato alla volontà dei detentori del potere politico.
Il fatto che, nella redazione del codice civile, si ricorresse a giuristi colti, i quali certamente si ispiravano alla tradizione romanistica, all’impostazione giusnaturalistica e alle consuetudini tramandate nel corso dei secoli, non significava infatti che il contributo che derivava da queste influenze di carattere culturale godesse di un’autorità tale da consentire ad esse di resistere alla volontà dell’imperatore o, pi tardi, a quella di una maggioranza parlamentare.
Questo assetto, che si è venuto progressivamente realizzando, soprattutto nei paesi di civil law, nel corso del XIX e del XX secolo, ha subito però una svolta a mano a mano che si è venuta affermando una concezione del sistema delle fonti del diritto parzialmente diversa la quale ha tratto origine dalla configurazione del sistema stesso come una gerarchia di fonti, avente al suo vertice, non già la legge, ma la costituzione.
A dire il vero, un’impostazione di questo tipo era già stata adottata negli Stati uniti, dove peraltro gli eventuali conflitti tra norme di legge ordinaria e norme costituzionali erano stati impostati, fin dalla celebre sentenza Marbury, pi come un modo di risoluzione di specifiche antinomie che come una sorta di funzionalizzazione della legge ordinaria all’attuazione dei principi costituzionali. Inoltre, l’impostazione originaria della dottrina americana del controllo di costituzionalità delle leggi era chiaramente ispirata alla concezione giusnaturalistica, mentre la concezione europea, soprattutto nella sua originaria versione kelseniana, si sforzava di restare nell’ambito di un’impostazione rigorosamente giuspositivistica.
Queste differenze, insieme con altre motivazioni pi specificamente connesse alle vicende storiche proprie dei due diversi ambiti territoriali, hanno fatto sì che in Europa l’impostazione americana sia stata a lunga respinta e che il successo della impostazione kelseniana sia stato dovuto, almeno inizialmente, a ragioni contingenti legate alla storia di singoli paesi europei.
Ciò non toglie che le conseguenze della svolta derivante dalla assunzione della costituzione a “fonte delle fonti”, cioè a norma regolatrice della produzione giuridica, abbia rappresentato una svolta altrettanto fondamentale di quella derivante dall’assegnazione alla legge di un ruolo di questo genere che era stata compiuta a partire dell’era napoleonica.
Questa svolta ha riproposto, da un lato, il problema del rapporto fra le fonti “politiche” e le fonti “culturali” e della giustificazione del ruolo che alle une e alle altre è attribuito nei sistemi giuridici contemporanei (riducendo di molto le distanze esistenti fra ordinamenti di civil law ed ordinamenti di common law), ma, dall’altro lato, ha messo in una luce nuova il problema della legittimazione degli organi cui spetta l’esercizio delle diverse funzioni.
In particolare, è venuto in primo piano il problema della determinazione del ruolo del giudice, sia esso una “corte costituzionale” o un giudice ordinario, amministrativo o altrimenti specializzato, cui spetti far rispettare la gerarchia delle fonti e per questa via esercitare un controllo anche sui poteri degli organi costituzionali politici.
Per quanto infatti la decisione del giudice abbia normalmente per obiettivo la risoluzione di un caso, mediante una pronuncia destinata a costituire “giudicato”, e non la determinazione di una regola generale e astratta, è indubbio che i “precedenti” che risultano dalle rationes decidendi della pronuncia concorrano, in un modo o in un altro, a conformare l’ordinamento giuridico, anche quando – come nell’area della civil law - ad essi non è ufficialmente riconosciuta la forza vincolante che è propria delle fonti del diritto.
I precedenti, infatti, non si identificano nella pronuncia che è suscettibile di assumere la forza propria della “cosa giudicata” e risultano invece, appunto, dalla ratio decidendi della pronuncia stessa, ossia dalla motivazione in punto di diritto che sostiene, non solo col richiamo alle fonti, ma anche con la forza della sua razionalità, la statuizione idonea a costituire il giudicato (e, se del caso, l’interpretazione dei testi normativi che la sostiene).
Da qui deriva la fondamentale differenza che comunque sussiste fra un atto legislativo ed un atto giurisdizionale e che consiste nel fatto che il primo ha per suo scopo principale quello di imporre ai propri destinatari l’osservanza di una certa regola (normalmente soltanto pro futuro), mentre il secondo ha come suo obiettivo principale quello di risolvere, sulla base di norme anteriormente vigenti, una controversia fra due o pi “parti”, oppure di condannare (o meno) alle pene previste dalla legge un soggetto che sia stato accusato della commissione di un fatto previsto dal diritto vigente come reato.
La produzione normativa, pertanto, costituisce un effetto diretto e previsto dell’atto normativo nel primo caso, mentre non costituisce un effetto diretto e previsto dell’atto giurisdizionale, tranne che nei casi in cui per mezzo di essi si eserciti un controllo di legittimità di atti legislativi e sia previsto che la pronuncia che ne dichiari l’illegittimità determini anche la cessazione dell’efficacia di questi ultimi con modalità simili a quelle proprie di un atto di abrogazione.
Questa conclusione si può anche esprimere, con riferimento alla classificazione degli atti giuridici prevalentemente accolta dalla dottrina tedesca, italiana e ibero-americana, dicendo che la legge (nel senso di atto normativo) è un atto giuridico ed un atto negoziale, mentre il precedente è un semplice fatto giuridico, i cui effetti derivano interamente dalla norma che li prevede e non dalla volontà di chi tiene il comportamento che lo realizza.
Sotto altro profilo, la stessa conclusione consente di affermare, con la dottrina nord-americana, che il riconoscimento del precedente (ed anche del precedente dotato di forza meramente persuasiva, come quello americano) come fonte del diritto non è incompatibile con la separazione fra potere legislativo e potere giudiziario, poich la determinazione della ratio decidendi di un caso non costituisce attività legislativa, fondata sulla volontà politica, ma costituisce attività interpretativa, fondata sulla forza della ragione.
I dibattiti che si sono sviluppati in Italia e altrove, in questi ultimi anni, hanno riproposto all’attenzione degli studiosi e dei pratici temi come quello dei rischi che potrebbero derivante da un eventuale gouvernement des juges (quale quello che, secondo alcuni, sarebbe realizzano degli Stati uniti), o come quelli derivanti da eventuali tentativi di applicare in modo rigoroso il principio della separazione dei poteri, che può risultare incompatibile con una situazione in cui la sola forma di investitura “legittima” dei pubblici poteri sia vista nell’elezione popolare.
Ma, nel contempo, la concentrazione di tutta la responsabilità del funzionamento della macchina statale (e, in regime di globalizzazione, possibilmente anche di quella delle organizzazioni sopranazionali o transnazionali) sulle spalle dell’elettore apre indubbiamente qualche problema anche in relazione all’idoneità delle tecniche giuridiche mediante le quali la rappresentanza politica si realizza nell’epoca contemporanea, nella quale il rapporto fra popolo e governanti si è sviluppato spesso in forme discutibili (come nei casi di bonapartismo o nei regimi di tipo sovietico), pur in presenza di un diffuso consenso.
A questi temi, invero inesauribili, vorrei ora dedicare quale rilievo conclusivo partendo da uno soltanto dei possibili punti di osservazione, cioè da quello dei rapporti fra politica e cultura, visto con particolare riguardo ai problemi della produzione normativa e dell’attuazione giurisdizionale del diritto che da essa deriva.

III. Il giudice e la democrazia

Nessuno contesta che la democrazia, così come si è venuta delineando nel corso dell’età contemporanea, costituisca la migliore (o meno peggiore) forma possibile di organizzazione politica della società. Ciò costituisce il punto di arrivo di una lunga e difficile esperienza, che si è sviluppata nel corso dei secoli.
Sulla base di questa esperienza, credo si possa affermare con sufficiente certezza che la svolta fondamentale, che ha portato alla determinazione delle regole principali in cui essa si concretizza, sia consistita nel riconoscimento dell’eguaglianza giuridica delle persone dotate di adeguata capacità e nella configurazione della rappresentanza politica come rappresentanza senza vincolo di mandato: queste furono, come è ben noto, le principali conquiste della Rivoluzione francese. La configurazione dell’elezione come il conferimento di un potere di rappresentanza senza vincolo di mandato, in particolare, segnò il fondamentale passaggio da una concezione dei rapporti politici basata sul principio di unanimità, ossia sull’accordo delle parti, ad una concezione di tali rapporti fondata sul principio di maggioranza.
A partire da quel momento i problemi che si posero riguardarono soprattutto la delimitazione della capacità elettorale, che solo verso la metà del XX secolo fu universalmente riconosciuta alle donne e ad altre categorie di persone prima discriminate, e la configurabilità dell’eguaglianza non soltanto come eguaglianza di diritto, ma anche, almeno tendenzialmente, come eguaglianza di fatto, al fine di affiancare alla democrazia liberale anche la democrazia sociale.
Per quanto riguarda l’esercizio delle funzioni di tipo legislativo, l’attuazione del principio democratico si risolve sostanzialmente nell’applicazione della nozione di rappresentanza, che ha consentito di configurare i titolari del potere legislativo come rappresentanti del popolo, subentrato al monarca come titolare della sovranità.
In realtà in molti paesi questo assetto fu raggiunto gradualmente, dopo una fase in cui la sovranità fu ripartita fra il corpo elettorale ed il monarca, combinandosi la “Grazia di Dio” con la “Volontà della Nazione” quali fattori di legittimazione del potere che quest’ultimo continuava ad esercitare (come, ad esempio, avvenne in Italia nel primo periodo che seguì l’unificazione nazionale), ma la legittimazione democratica risultante dall’elezione popolare venne progressivamente affermandosi come criterio prevalente, se non unico, nonostante che le tecniche elettorali risultassero per molti aspetti imperfette (e soprattutto per molti versi manipolabili mediante la disciplina legislativa da cui erano regolate a discrezione di chi fosse riuscito una prima volta ad impadronirsi del corrispondente potere). Soprattutto dopo che – nel corso del XX secolo - fu realizzato pressoch ovunque il “suffragio universale”, dopo cioè che tutti i cittadini, uomini e donne, con poche eccezioni quasi esclusivamente ridotte a quella dei minori ed a quella degli stranieri, divennero titolari della capacità elettorale, il potere esercitato dagli organi rappresentativi, in un quadro culturale dominato dal giuspositivismo, assunse un carattere di assolutezza superiore a quello che era stato proprio dei monarchi dell’ancien rgime (come la scuola fiorentina di storia del diritto ci ha spesso ricordato in questi ultimi anni).
Nei casi in cui ciò avvenne nel rispetto formale e sostanziale dei canoni della legalità e della democrazia, ne derivano situazioni nelle quali il costituzionalismo sviluppatosi a partire dalle conquiste dell’illuminismo raggiunse i suoi risultati migliori; ma vi furono purtroppo anche casi assai frequenti nei quali la legittimazione democratica fu surrogata dal fattore carismatico o da altri fattori poco compatibili con il principio di legalità, anche se ne risultarono talora, ciò nondimeno, situazioni di diffuso consenso popolare nei confronti dei governanti.
In casi di questo genere, il richiamo alla “legittimazione democratica” assunse un significato distorto ed in quanto principale, se non unico, fattore di legittimazione dell’esercizio dei pubblici poteri esso comportò talora un ridimensionamento, se non addirittura una radicale negazione, del principio della separazione dei poteri, che pure aveva ottenuto un esplicito riconoscimento nell’art.16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo adottata in Francia nel 1789. In qualche caso si ammise la possibilità che la rappresentanza popolare venisse realizzata attraverso l’opera di pi organi elettivi (come, ad esempio, un’assemblea parlamentare ed un capo dello stato, oppure due assemblee elette con modalità diverse), ma in altri casi la legittimità democratica fu riservata alla sola assemblea, o ad assemblee identiche, oppure al leader della maggioranza dei componenti di esse, configurandosi, mediante il ricorso a tecniche diverse, un rapporto di subordinazione di tutti gli altri organi dello Stato nei confronti del soggetto che avesse ricevuto l’investitura popolare.
Nel corso delle esperienze compiute da quando questi principi hanno cominciato ad affermarsi si è potuto constatare, tuttavia, come l’adozione delle regole giuridiche della democrazia liberale e sociale, fondata sull’elezione popolare delle cariche pi importanti nell’ambito dell’organizzazione dei pubblici poteri, non sia di per s sufficiente ad assicurare i risultati desiderati, potendo le procedure elettorali venir manipolate per favorire personaggi che intendono avvalersi dei poteri acquisiti per mezzo di esse per finalità incompatibili con i principi della democrazia.
Gli esempi di questo genere, sono numerosissimi e le caratteristiche che essi presentano sono assai diverse, ma tutti concorrono a mettere in luce come il ricorso alle tecniche giuridiche della democrazia, di per s sola, non garantisca il conseguimento degli obiettivi in vista dei quali questa forma di governo viene preferita ad ogni altra, cioè il rispetto dell’eguaglianza e di un complesso di diritti fondamentali.
Perch le tecniche giuridiche della democrazia funzionino, in realtà, occorre che nell’ambito di una certa società si realizzi un equilibrio, di carattere innanzi tutto culturale, per effetto del quale tutti i componenti di essa condividano quel complesso di valori a tutela del quale l’ordinamento giuridico della società stessa è organizzato, appunto, in forme democratiche, ma poich il raggiungimento di tale equilibrio è possibile, per lo pi, soltanto a seguito di un lungo periodo di pratica della democrazia, non è raro il caso in cui l’adozione delle tecniche giuridiche proprie di essa finisca per favorire gli avversari della democrazia, i quali possono così avvalersi di essa per distruggerla.
Ciò è quanto è avvenuto in parecchi paesi europei nel corso della prima metà del XX secolo, quando le istituzioni democratiche erano giunte ad affermarsi nei principali stati del continente. Dopo il lungo apprendistato compiuto nel corso del secolo precedente, quando esse avevano dovuto confrontarsi con le forme proprie dell’ancien rgime, ripristinate durante la Restaurazione, il nuovo secolo aveva assistito ad un nuovo tipo di confronto, nel quale i sostenitori della democrazia si trovarono a confrontarsi con nuove forme di autoritarismo, sedicente democratico, sviluppatosi in forme diverse, le quali avevano tuttavia in comune la rivendicazione del consenso popolare, talora estorto in vari modi, ma talora conseguito proprio mediante l’impiego delle tecniche elettorali.
La facilità con la quale movimenti politici fautori di feroci forme di autoritarismo poterono impadronirsi del potere in alcuni dei pi importanti stati europei destò giustificate preoccupazioni negli studiosi e nei politici, i quali si posero il problema di realizzare un sistema di garanzie degli istituti propri della democrazia.
Lo strumento che apparve pi utilmente impiegabile a questo scopo fu l’attribuzione del carattere di rigidità alla costituzione e la previsione di un controllo di costituzionalità delle leggi ed a questa indicazione (che si ispirava alla soluzione adottata negli Stati uniti fin dall’inizio del XIX secolo) si attennero quasi tutti i legislatori costituenti che operarono nel secondo dopoguerra. Questa soluzione ebbe come effetto un evidente rafforzamento del ruolo del potere giudiziario, anche quando il compito di controllare la costituzionalità delle leggi e di altre funzioni di analoga importanza costituzionale fu affidato ad un soggetto non incluso nel potere giudiziario, come per lo pi è il caso delle “corti costituzionali”.
Soprattutto nei paesi in cui l’iniziativa del controllo di costituzionalità fu organizzata secondo i principi del controllo “incidentale”, parzialmente analogo a quello realizzato negli Stati uniti (dal quale differisce per il carattere “accentrato” della decisione pur essendo anche qui “diffusa” l’iniziativa), questa innovazione ebbe come effetto una forte valorizzazione del ruolo del giudice, e non solo di quello del giudice costituzionale, perch il potere di denunciare l’incostituzionalità della legge, sospendendone l’applicazione, veniva a cambiare significato al tradizionale principio secondo cui il giudice è soggetto alla legge.
In virt del nuovo assetto che il sistema delle fonti del diritto veniva ad assumere, infatti, la soggezione del giudice alla legge non era infatti pi una soggezione assoluta, ma una soggezione condizionata alla verifica della sua costituzionalità, e ciò apriva inoltre la via all’interpretazione “adeguatrice” della legge alla costituzione ed all’applicazione “diretta” della costituzione, realizzandosi così uno sviluppo ed un completamento di quella nozione di “Stato di diritto”, in base alla quale, fin dal secolo XIX, si era venuto realizzando il controllo giurisdizionale della legittimità dell’attività amministrativa.
Un ulteriore potenziamento del ruolo del giudice si venne realizzando, altresì, via via che i titolari delle comuni funzioni giudiziarie cominciarono ad assimilare queste tecniche e ad esercitarle normalmente, una volta che fu chiarito che il sistema delle fonti del diritto europeo comportava la prevalenza delle fonti comunitarie sulle fonti nazionali e la legittimazione di qualunque giudice nazionale a disapplicare il diritto di produzione nazionale che risultasse contrastante con norme comunitarie.
Questa evoluzione pone due problemi di rilevante importanza. Il primo di essi concerne la compatibilità, con il principio democratico, di un sistema di controlli che possono portare alla disapplicazione e/o all’annullamento di atti dei pubblici poteri costituiti secondo le tecniche proprie della rappresentanza politica, da parte di soggetti la cui composizione non si fonda su tali tecniche, ma tiene principalmente conto della formazione culturale delle persone chiamate a farne parte. Il secondo di essi comporta invece, una volta ammessa la possibilità che il controllo di conformità alla Costituzione o al diritto europeo comporti la possibilità che un provvedimento giurisdizionale abbia tali effetti, in qual misura gli organi costituzionali politici abbiano la possibilità di cancellare tali effetti mediante un proprio provvedimento.
In ordine al primo problema credo che si debba osservare che, se prendiamo in considerazione l’evoluzione storica delle forme di produzione giuridica nel corso dei secoli, nelle diverse aree del pianeta, ci troviamo quasi sempre di fronte a situazioni nelle quali fonti di tipo politico, consistenti in manifestazioni della volontà di soggetti titolari di pubblici poteri, quali la costituzione, la legge, il regolamento e simili, operano in varia combinazione con fonti di tipo culturale, risultanti da regole elaborate con varie tecniche da giuristi, sia nella veste di giudici, in forma di precedenti, sia nelle veste di studiosi, in forma di opere di dottrina o simili.
Fino all’età dell’illuminismo, le fonti di tipo culturale ebbero certamente la prevalenza, soprattutto nelle aree e nei periodi in cui lo sviluppo delle civiltà segnò i suoi maggiori successi. Con la codificazione napoleonica, che utilizzò tradizioni di diverso tipo in vista della costruzione di un regime caratterizzato da un forte autoritarismo, si cercò invece di unificare nella volontà del sovrano l’attività di produzione normativa, tentando persino di vietare l’attività interpretativa dei testi così prodotti, e ciò determinò quella contrapposizione fra civil law e common law che tuttora costituisce la principale differenziazione dei sistemi di fonti applicati nel mondo. L’affermazione del principio dello Stato di diritto, specialmente nella sua versione pi recente, inclusiva del controllo di costituzionalità delle leggi, ha però largamente riequilibrato questo stato di cose.
Partendo da questi dati – che ricaviamo dalle ricerche che sono state svolte soprattutto in questi ultimi tempi nel campo della storia del diritto e del diritto comparato – dobbiamo ritenere che, anche in base alla moderna concezione della democrazia liberale e sociale, le applicazioni del principio democratico, le quali comportano l’elezione da parte di tutti i cittadini capaci dei titolari delle principali cariche pubbliche, vadano combinate con le applicazioni del principio di legalità, le quali richiedono l’esercizio di controlli delle attività dei pubblici poteri da parte di soggetti qualificati soprattutto dalla loro formazione professionale di giuristi, oltre che dalla loro autorevolezza, indipendenza ed imparzialità.
La legittimazione degli organi giurisdizionali, pertanto, non può dipendere dal fatto che la loro composizione utilizzi o meno i metodi propri della rappresentanza politica, poich l’esercizio dei loro compiti non comporta una funzione rappresentativa, bensì una funzione essenzialmente culturale. E’ chiaro, infatti, che la cultura giuridica, ancorch presenti taluni caratteri che consentono di considerarla come una cultura specialistica, fa parte, complessivamente considerata, della cultura umanistica, la quale ha certamente una parte non trascurabile anche nelle formazione del giurista. E la cultura, in tutte le sue forme, non procede attraverso elezioni, ma attraverso discussioni nella quale non contano i numeri, ma il raziocinio.
Solo ove si intenda in questo senso il rapporto fra popolo e diritto si può condividere la nota impostazione della scuola storica secondo la quale il diritto, ed in particolare la consuetudine, sarebbe espressione del Volksgeist, cioè dello “spirito del popolo”. In realtà, questo rapporto esiste, ma è filtrato, non soltanto attraverso le tecniche della politica, ma attraverso ogni manifestazione della cultura che l’uomo è capace di esprimere, a cominciare da quelle di ordine artistico, letterario, ecc. Nessuno può negare, credo, che per la formazione di un giurista europeo, ad esempio, sia importante la conoscenza delle maggiori opere della cultura nazionale, della cultura europea o della cultura mondiale. La cultura giuridica, infatti, deve essere vissuta collegandola con tutte le manifestazioni della cultura tout court.
Pi delicata è la soluzione da dare al secondo problema, soprattutto quando si prospetti l’eventualità che gli organi costituzionali politici non intendano accettare decisioni per effetto delle quali la cultura giuridica venga in qualche modo a configgere con la volontà politica. Con riferimento alle decisioni dei giudici ordinari, sembra indubbio che il legislatore possa disattendere una affermazione in punto di diritto che sia stata assunta a ratio decidendi di un caso, il quale non implichi questioni di costituzionalità o di conformità al diritto comunitario, potendosi semmai discutere in quali circostanze una legge interpretativa, o addirittura una legge-provvedimento, possano modificare il giudicato intervenendo retroattivamente sugli effetti di esso.
Con riferimento alle decisioni del giudice costituzionale, la pronuncia d’incostituzionalità è da ritenere insuperabile per il legislatore ordinario, ma il problema si pone con riferimento all’eventualità che l’intervento assuma la forma della revisione costituzionale. Ove si accetti la tesi, prevalente in Italia e in Germania (ma respinta dalla maggioranza della dottrina e dalla giurisprudenza francesi e difficilmente proponibile in Gran Bretagna), secondo la quale esisterebbero principi costituzionali non modificabili neppure in via di revisione, dovremmo dedurne che l’intervento del legislatore costituzionale è ammissibile soltanto ove non intacchi principi “supremi” e che intangibile risulterebbe la riaffermazione (e l’interpretazione) che il giudice costituzionale avesse offerto di uno di tali principi, sia con un’affermazione destinata ad assumere veste di precedente, sia con una statuizione coperta dal giudicato.
Ove si consideri complessivamente questo insieme di problemi, credo si debba soprattutto rifarsi al pari rango che, nell’epoca contemporanea, deve essere riconosciuto al principio democratico ed al principio di legalità (inteso ora comprensivamente del principio di legalità costituzionale, ed anzi prima di tutto come tale). Questa parità di rango comporta, da un lato, che in nessun caso il principio democratico (e quindi, ad esempio, la circostanza che una persona abbia conseguito consensi in sede elettorale) può essere di per s considerata come una giustificazione di eventuali violazioni della legalità, in qualunque sua forma, e, dall’altro lato, che la riaffermazione della legalità non ha bisogno di conferme di tipo elettorale. Per contro, è essenziale difendere e rafforzare il ruolo delle tradizioni culturali nelle quali la civiltà moderna trova la sua consistenza e il suo fondamento.
Queste riflessioni di carattere teorico, ispirate dai recenti sviluppi delle ricerche svolte dagli storici del diritto e dai giuscomparatisti, potrebbero trovare molteplici applicazioni alla realtà contemporanea ed in particolare alla realtà italiana, sia per sfatare luoghi comuni frequentemente impiegati dalla propaganda politica e nelle narrazioni giornalistiche dei casi, sia per riaffermare i valori fondamentali cui la società italiana si ispira e che hanno trovato espressione particolarmente felice nella Costituzione del 1947 e in alcuni documenti internazionali in tema di protezione dei diritti. Alla difesa di questi valori deve ispirarsi credo, oggi pi che mai, l’opera dei giuristi, siano essi teorici che cercano di trovare razionalità nell’esperienza quotidiana, siano essi pratici che cercano di piegare l’esperienza stessa ai principi, grandi e piccoli, che gli studiosi hanno ricavato da essa.

22 01 2003
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