Giustizia a Porto Alegre

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Si sta svolgendo in questi giorni a Porto Alegre il terzo World Social Forum, ed, in concomitanza, il secondo Forum Mondiale dei Giudici, esattamente come lo scorso anno.
Il Forum Mondiale dei giudici (organizzato per iniziativa dell’associazione brasiliana “Giudici per la Democrazia”) è non casualmente connesso e contemporaneo al World Social Forum: le associazioni brasiliane dei giudici che lo hanno promosso hanno infatti inteso così mettere in contatto i magistrati democratici di tutto il mondo che hanno in comune la battaglia per l’inclusione sociale, sul presupposto che un mondo migliore richieda una giustizia pi consapevole del suo ruolo di garanzia dei diritti umani, che per un altro mondo, pi giusto e democratico, sia necessario un potere giudiziario democratico. Il titolo dell’incontro di quest’anno è “Il potere giudiziario e l’universalizzazione dei diritti”.
Lo scorso anno, analogamente, si discuteva della connessione fra il tema dei diritti (culturalmente contestualizzati e/o del genere umano in quanto tale) e quello della democratizzazione del mondo giudiziario, del nesso fra il livello di democrazia di un paese ed il livello di autonomia ed indipendenza dei suoi giudici. I promotori del Forum hanno anche l’ambizioso progetto che esso diventi un luogo di dibattito permanente e di denuncia sia delle violazioni dei diritti umani che degli attentati all’indipendenza della magistratura in ogni paese.
Era evidente l’interesse per questi temi di Magistratura democratica, e così, delegata da Md, ho partecipato ai lavori, che si svolgevano solo fra le 15 e le 18 per consentire la presenza anche ai lavori del WSF. Dei 385 giudici partecipanti, i non brasiliani erano solo 25, e fra questi tre gli europei: oltre a me, Perfecto Ibanes e Christoph Strecker in rappresentanza di Medel.
Dopo una fastosa e molto formale cerimonia di inaugurazione (alla presenza delle massime autorità locali), il Presidente della Commissione per i Diritti Umani dell’ONU Bhagwati, già Presidente della Suprema Corte in India, ha parlato dell’accesso alla giustizia degli indigenti, fra l’altro proponendo una sorta di legittimazione delle organizzazioni non governative a stare in giudizio in rappresentanza dei milioni di persone che, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, non possono far valere i loro diritti. I lavori si sono poi svolti in commissioni, in cui sono intervenute (tanto per citare le pi famose) persone come Mary Robinson, Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, o il pm spagnolo Baltasar Garzon. Nella sessione plenaria del terzo giorno molte sono state le testimonianze dei giudici stranieri, di noi europei e dei latinoamericani: veniva evidenziata sia la precaria situazione dei giudici in alcuni paesi del mondo, che i limiti dell’intervento giudiziario. Hanno strappato lunghi e commossi applausi i forti interventi di una giudice argentina e di un’avvocata boliviana. E’ stato raccontato il caso del giudice tunisino Yahyaoui, estromesso dalla magistratura e, come oggi sappiamo, perseguitato.
Perfecto Ibanez, nella sua bella e dotta relazione sui temi dell’autonomia e indipendenza della magistratura, si è continuamente riportato alle elaborazioni di Md Cristoph Strecker ha posto l’accento sul fatto che il nostro impegno professionale è basato su valori condivisi e sulla consapevolezza che l’indipendenza non è un valore di per s, ma deve garantire la possibilità di affermare i valori costituzionali e i diritti umani, e affrontare i conflitti che derivano da questo impegno.
Del “caso italiano” hanno parlato in molti, a cominciare proprio dalla Robinson e da Garzon: perch è certamente vero che la situazione dei giudici in molti paesi (in particolare del c.d. terzo mondo) è infinitamente peggiore di quella italiana, ma è altrettanto vero che la messa in discussione delle prerogative costituzionali di autonomia ed indipendenza, del ruolo di controllo della legalità della magistratura in Italia, considerata fino ad ora un modello, fa scandalo a livello internazionale.
Il convegno si è concluso con l’approvazione della proposta di far circolare via Internet un documento (“Decalogo del giudice”), che in parte riprende risoluzioni già esistenti (a livello di Nazioni Unite e/o di Medel) e la fissazione del secondo Forum per il 2003, sempre quale evento del WSF, Forum che si svolge appunto in questi giorni. Tutto il materiale è disponibile nel sito www.ajuris.org.br. (laddove “br”, a scanso di equivoci, sta per “Brasile”).
Da tutto quanto ho fin qui descritto è evidente che non abbiamo assistito alla nascita della “internazionale giacobina” dei giudici di tutto il mondo, se non altro per mancanza di rappresentatività. Ma è altrettanto vero che il fatto è stato seguito e riportato dalla stampa internazionale (meno da quella italiana) ed ha avuto un forte significato simbolico. Sapremo i prossimi giorni, dai colleghi di Medel che ci sono andati, cosa è successo quest’anno.
Il senso e il motivo della nostra presenza era indubbio, perch lì si discuteva di autonomia ed indipendenza della magistratura e questa è la principale battaglia che in Italia stiamo portando avanti, come avevo illustrato nel mio intervento lì svolto.
Ma non era e non è marginale neppure la connessione fra il World Social Forum ed il Forum dei giudici. Perch l’autonomia e l’indipendenza sono la precondizione per la garanzia dei diritti, e la battaglia del c.d. movimento dei movimenti, quello che ora è riunito a Porto Alegre, è sostanzialmente, con varie sfaccettature, una battaglia per i diritti, è una affermazione di diritti, è la messa in rete di soggetti ed organizzazioni, piccole e grandi, locali ed internazionali, che agiscono i diritti: all’identità, all’autodeterminazione, alla cittadinanza, e poi ancora all’acqua, alla terra, al cibo, alla libera espressione dei propri pensieri e del proprio corpo. Il diritto a vivere.
Non cesserò mai di stupirmi, ed in qualche modo di emozionarmi, nel vedere (come è avvenuto a Porto Alegre, ed in misura minore a Firenze) un campesino boliviano che discute con una femminista greca, uno studente tedesco con un economista americano, un agricoltore francese con una naturalista indiana, un sindaco brasiliano con un professore italiano.
Ma non cesserò mai di stupirmi anche del fatto che siano sempre pochi i giuristi, ed in particolare i giudici di Md, presenti ad una qualsiasi serata organizzata dalla rete dei movimenti in tema di diritti. Eppure, come è stato scritto (da Juanito Patrone), chi vi partecipa (ed in particolare chi ha partecipato al Forum Sociale Europeo di Firenze) lo fa “per interpretare le ragioni fondative stesse di Md; uscire dagli steccati di una giurisdizione autoreferenziale, accettare il dialogo (ma anche il contraddittorio, a volte difficile e stringente) con chi ripudia la guerra, con chi vuole parlare di diritti sociali da estendere e non da cancellare, con chi non accetta un’Europa-fortezza, con chi insomma valorizza e rinnova la migliore tradizione del costituzionalismo che questo continente ha saputo esprimere negli ultimi due secoli.” Accettare il dialogo, aggiungo io, non solo con giovani di belle speranze (quali i c.d. no global vengono presentati dai mass media), ma con studiosi, ricercatori, scienziati, e gente comune, giovani e vecchi, con chi teorizza e pratica politiche di opposizione al neoliberismo in tutte le sue implicazioni ed alla guerra.
Il fatto è che siamo costretti da qualche tempo ad assumere quali temi centrali quelli dell’autonomia e dell’indipendenza, per farlo abbiano stretto anche proficue alleanze, e proprio sulle parole d’ordine dell’autonomia e dell’indipendenza si è mossa parte della società civile. Per inciso va però qui detto che non è vero che i girotondi sono costituiti prevalentemente da magistrati di Md, come è scritto in una lettera aperta dei “disobbedienti” pubblicata sul Manifesto di qualche settimana fa.
Certo il dialogo è pi facile con alcuni movimenti che non con altri.
Ma, come ricordava anche Palombarini su “Il Manifesto” del 2 gennaio, la storica scelta di campo operata da Md è per “l’affermazione e l’estensione dei diritti, in una prospettiva di cambiamento e di tendenziale realizzazione dell’uguaglianza”. Da qui dobbiamo ripartire a ragionare, dialogando con tutti coloro che hanno, fondamentalmente, i nostri stessi valori, traducendo in azione e comportamento del 2003 quel compito che ci siamo assunti nel 1977, e che resta nostro, di “garantire le legittime dinamiche sociali”.
La richiesta di diritti e di democrazia è chiaramente leggibile in tutte le affermazioni e le politiche agite dai movimenti che si sono messi in rete. Ed esiste appunto pi di una rete: quella di coloro che si occupano pi specificamente di giustizia, chiamiamoli “girotondini” per semplificare, e che vedono al loro interno anche posizioni esclusivamente “legalitarie” se non addirittura giustizialiste, a volte francamente inaccettabili; quella di coloro che si occupano pi in generale dei diritti, e che sono costituiti in un’infinità di associazioni, gruppi, di ispirazione la pi varia. Certo esprimono a volte anche anch’essi posizioni inaccettabili, ma non si tratta, in ogni caso, di partiti monolitici da prendere o lasciare, in toto. Sono appunto “reti”, diversificate al loro interno e diverse fra loro, il che non impedisce momenti di grande e proficua unità.
La costruzione della rete, questa è la grande novità politica, a sinistra, degli anni 2000. Non l’unione di soggetti uguali o presunti tali (“proletari di tutto il mondo unitevi”) ma il collegamento di realtà che riconoscono le proprie diversità (mutuando, in realtà, le pratiche femministe agite fin dagli anni ‘70), e il riconoscimento della diversità che diventa valore; tanto per fare l’esempio pi macroscopico, si passa dall’affermazione della legalità come valore fondante alla rivendicazione del diritto a “disobbedire alle leggi ingiuste e fare contemporaneamente società”.
Autonomia ed indipendenza non sono parole d’ordine sufficienti per noi di M: dobbiamo dire che un’altra giustizia è possibile, e dimostrarlo. Dobbiamo esserci quando e dove quest’altra giustizia viene chiesta.
A questo proposito molte parole sono già state dette, ad esempio anche nel documento della sezione romana, come nelle tesi congressuali, in alcune lettere della nostra notissima mailing list (di Renato Greco, di Luigi De Magistris), in alcuni articoli pubblicati dal Manifesto (di Palombarini, di Peppino Di Lello). Mi ci riconosco, e non ripeto.
Vorrei parlare invece molto brevemente quindi di metodo. In questo campo possiamo mutuare qualcosa dalle realtà politiche in movimento, dalla loro esperienza: la messa in rete delle piccole esperienze. Mettersi in rete per noi può significare molte cose, sotto almeno due profili: quello giurisprudenziale innanzitutto. Non sarà senza significato se un’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale dell’art. 14 della Legge Bossi/Fini in materia di immigrazione va praticamente a ruba, e così, per altro verso, se non discutiamo pi di entità di pena edittali e del loro abbattimento con l’applicazione delle attenuanti generiche, oppure, che so, di contestazione del reato di furto aggravato o di rapina al ladro che fugge dal supermercato spintonando il sorvegliante.
Lo scambio di informazioni ora può avvenire in tempi reali, sulla mailing list. Sentenze ed ordinanze sono provvedimenti pubblici, sulla nostra lista leggibile e letta da chiunque potremmo vedere pi giurisprudenza. Leggerla, confrontarla, criticarla. Una “Quale giustizia” prima maniera on line, che vedo con piacere esser già stata programmata sul sito di Md.
Ma, soprattutto, potremmo far circolare tanta esperienza, far conoscere tutte quelle iniziative che fioriscono qua e là nei tribunali nel segno dell’efficienza e delle garanzie.
Potremmo in tutti gli uffici addetti all’esecuzione civile sconfiggere con la trasparenza e la pubblicità delle procedure le c.d. Compagnie della morte (così almeno veniva chiamata a Milano) che dominano le aste, potremmo favorire le politiche di riduzione del danno e le uscite dai percorsi della tossicodipendenza anche con l’istituzione in ogni tribunale di un Servizio pubblico per le tossicodipendenze (esperienza milanese plurilodata e pluricitata nei convegni per addetti ai lavori che non mi risulta sia stata esportata in alcuna altra sede). Potremmo scrivere una aggiornata “guida per gli arrestati” (come abbiamo fatto in Pretura a Milano un secolo fa, prendendoci anche un premio istituzionale) e farla circolare, tradotta in molte lingue, in tutte le aule dei giudizi per direttissima: perch far conoscere agli stranieri i loro diritti (che magari frettolosi difensori d’ufficio non spiegano) è un primo passo per superare disuguaglianze e disparità. E così ancora: potremmo favorire il riciclo (previo distacco del falso logo) della merce contraffatta che viene stupidamente distrutta, contribuendo così anche alla diminuzione della massa dei rifiuti.
Sono solo i primi esempi che mi vengono in mente, un portato dell’esperienza milanese, di Pretura prima e Tribunale poi. Esempi che coniugano garantismo a efficienza e a costo zero (visto che le risorse ci sono negate da chi avrebbe il compito istituzionale di far funzionare il servizio giustizia).
Potremmo poi ricordarci sempre del garantismo sostanziale e non lasciarci impigliare nei lacci di quello formalistico. Potremmo, per dirla con Viglietta, recuperare il senso del limite della giurisdizione penale (Omissis, La storia non è finita).
Certo dovremo condannare a sei mesi di carcere sia il bancarottiere che il ladro di merendine: laddove io mi scandalizzo sia per il trattamento riservato al bancarottiere sia a quello riservato al ladro. Però forse potremmo dare la priorità ai processi di maggior rilievo sociale (e non dovrebbero essere quelli per piccoli reati contro il patrimonio, di cui in questi giorni è stata persino proposta la depenalizzazione), visto che il problema è ormai solo quello della prescrizione, e riorganizzare i nostri uffici, visto che a noi compete tale compito, come quello della fissazione dei calendari.
Appunto anche in tema di organizzazione potremmo scambiare esperienze e mettere in rete esperimenti…perch chi se non una magistratura autonoma ed indipendente ha trascinato negli anni ’90 certi processi per lunghissimo tempo, di rinvio in rinvio fino alla prescrizione. Anche l’autocritica è necessaria, difendere l’autonomia e l’indipendenza non può e non deve significare difendere la corporazione.
Ma con ciò finisco, perch sennò aprirei il mio cahier des doleances: il tempo delle lamentele invece è finito. Non esiste un’età dell’oro da rimpiangere. Esiste una nuova giustizia da costruire, esistono iniziative da realizzare, e realizzabili, malgrado tutto.
Magistratura democratica è costituita da anime diverse, non necessariamente dobbiamo pensarla su tutto nello stesso modo: ancora pi diverse sono le anime dell’Associazione. Usiamo, la corrente e l’Associazione, come una rete, senza dimenticarci mai per quale giustizia dobbiamo difendere la nostra autonomia ed indipendenza.

24 01 2003
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