L’inerzia e le sorti degli equilibri costituzionali

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Nella relazione Castelli e in alcuni interventi si è parlato delle troppe cautele e diffidenze che rendono difficili i rapporti tra magistratura e avvocatura: non credo, tuttavia, che si possa dire che si tratta di un dialogo tra sordi. Occorre però uscire dai rispettivi recinti. Siamo infatti tutti coinvolti, magistrati e avvocati, dal quadro generale che è tracciato dalla relazione.
Per quanto mi riguarda condivido le linee generali della relazione e il "forte allarme" che in essa è espresso, non soltanto per l’inerzia di questo Governo dinanzi ad una crisi della giustizia ormai non pi sostenibile in una società civile, che rende vana la tutela soprattutto per i cittadini senza potere, ma soprattutto per le sorti degli equilibri costituzionali in questo paese, poichè i rapporti tra classe politica e giustizia non erano mai giunti a un tale livello di guardia nemmeno negli anni ’50, perchè allora nella classe di governo almeno erano presenti figure che per la loro storia personale costituivano comunque una garanzia per i principi della democrazia repubblicana: oggi non è pi così.
Gli avvocati, almeno quelli che sono consapevoli della responsabilità sociale che la professione comporta, e non la umiliano in un ruolo servente, sanno bene che non può esistere una avvocatura libera e indipendente senza una magistratura indipendente ed autonoma.
Questo è il problema centrale oggi: perchè la crisi attuale della giustizia è anche un riflesso sul terreno della organizzazione e della funzionalità del sistema di una strategia diretta a neutralizzare quel valore fondamentale.
La giurisdizione è sorta ed è oggi negli ordinamenti democratici un limite costituzionale all’esercizio del potere politico, un contrappeso agli altri poteri dello Stato: i principi della eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge e di indipendenza del giudice nella interpretazione e applicazione della legge sono le condizioni che rendono effettiva questa idea di legalità, questa etica dello stato di diritto.
L’inefficienza e la subalternità della giurisdizione vanificano quel limite costituzionale e neutralizzano il controllo sul potere esecutivo; è utile a ciò lesinare mezzi alla giustizia, delegittimare i giudici contrapponendo al consenso diffuso dei cittadini il consenso del popolo identificato nella maggioranza di Governo, reintrodurre le gerarchie, limitare l’indipendenza con il pretesto di prevenire deviazioni politiche nell’esercizio della funzione giudiziaria.
In sostanza concepire la funzione giurisdizionale come attività servente rispetto al potere legislativo, significa proprio privarla della condizione di "potere" autonomo di contrappeso agli altri poteri e ridurre la magistratura ad un apparato di funzionari tecnici, con il compito di applicare la legge in subordinazione rispetto agli indirizzi impartiti dal potere politico della maggioranza (anzi in "stretta subordinazione" ha detto il Ministro: la sola subordinazione gli sembrava evidentemente che riservasse ai giudici uno spazio ancora troppo ampio!).
Ma questo significa negare l’indipendenza della magistratura nel suo aspetto pi delicato e sensibile che è quello dell’autonomia del singolo giudice nell’esercizio dell’attività giurisdizionale.
La soggezione del giudice soltanto alla legge, scritta nella Carta Costituzionale, significa esattamente il contrario: garantire l’intangibilità della legge stessa attraverso la intangibilità nel momento finale della sua applicazione. Applicazione che non può tuttavia essere disgiunta dalla interpretazione della regola giuridica a partire dai valori culturali e morali della Costituzione e con riferimento ai principi dell’ordinamento giuridico affinchè in ogni caso il giudice pervenga alla soluzione pi ragionevole e pi giusta.
Soltanto a questa condizione l’avvocato può esercitare utilmente la sua funzione di impulso all’evoluzione giurisprudenziale e quindi alla creazione del diritto vivente.
Qui il problema manifesta la sua dimensione culturale, di una cultura che non può non essere comune a magistrati e avvocati.
Oggi non esiste ancora una formazione comune, come fase che precede il tirocinio, necessariamente distinto nel nostro ordinamento, e come formazione continua.
L’esperimento delle scuole universitarie di specializzazione non è riuscito; sono state concepite negli ambienti dell’istruzione pubblica, ignari delle esigenze delle professioni legali, e affidate alle università, dove il rinnovamento di una didattica poco utile alle professioni non è ancora in vista ed è ora ostacolato da una riforma della facoltà giuridica che non sappiamo se considerare provvisoria o definitiva, ma che sappiamo che di certo non sarà qualificante.
In queste scuole lo spazio riservato alle professioni è quello della cosiddetta "pratica", considerata come una sorta di contaminazione della scienza giuridica che è necessaria soltanto per coloro che esercitano nelle aule di giustizia. Ma la pratica è tirocinio, e non esaurisce affatto i contenuti di una cultura professionale.
L’alleanza tra avvocatura e magistratura di cui si è parlato può e deve svilupparsi proprio sul terreno di una cultura comune, terreno ricco di fonti energie intellettuali e morali, che sono in gran parte inespresse perchè condizionate da tradizionali steccati, da logiche corporative, da troppi discorsi e poca concretezza. Ma senza formazione culturale non vi sono progetti per il nostro futuro.
Occorre quindi un progetto che superi le limitate esperienze di occasionali scambi culturali e che definisca i contenuti della formazione.
Il modello, oggi, poichè non può essere affidato ad una riforma della legge che si muove in tutt’altra direzione, una direzione che divide pi che unire, non può che essere quello di iniziative comuni: mi riferisco a CNF e CSM, istituzioni in seno alle quali operano organismi che curano la formazione, e alle associazioni da sempre terreno fertile di innovazione: qualche tentativo si è fatto, ma ancora senza risultati concreti, tante sono le difficoltà da entrambe le parti.
E’ anche di grande importanza individuare i contenuti di questa cultura comune e qui si impone una scelta tra una didattica tradizionale basata sulle materie ed una formazione fondata sul metodo e sui principi fondamentali.
Le materie, ad esempio, sono l’oggetto della didattica delle scuole universitarie.
Il Centro di formazione del CNF ha invece decisamente scelto la via del metodo interdisciplinare, per una cultura giuridica ispirata ai valori fondamentali della giurisdizione e della professione forense, attenta alla socialità del diritto, e quindi ai problemi dell’interpretazione come garanzia di correttezza del ragionamento giudiziario, dell’argomentazione come strumento per pervenire alla soluzione concretamente pi ragionevole e pi giusta in quel determinato contesto; cioè alla ragionevolezza del risultato che è al tempo stesso, garanzia rispetto alla discrezionalità del giudice, vincolo di concretezza per l’avvocato, e difesa contro l’applicazione automatica e pigra della ufficialità codificata.
Su questo terreno l’incontro non è solo possibile, ma necessario e urgente: esso non solo rafforza le difese dei diritti e della legalità contro la involuzione del sistema, ma è in grado di definire condotte pi adeguate per dare concreta risposta alla domanda di giustizia dei cittadini, perchè anche noi tutti, avvocati e giudici, in questa emergenza abbiamo la nostra parte di responsabilità; e anche questo deve essere un motivo di riflessione comune.

24 01 2003
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