Rapporti tra magistratura e politica

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Siamo alle battute conclusive del Congresso e mi sembra, perciò, inutile ripetere cose dette già e meglio nei numerosi interventi che mi hanno preceduto.
Forse è pi opportuno utilizzare questi pochi minuti per compiere una riflessione sulle molte suggestioni offerte dai lavori congressuali, in particolare sul tema dei rapporti tra magistratura e politica e in merito al nostro ruolo, alla nostra partecipazione (di MD e di tutta la magistratura associata) al dibattito politico in corso sulle riforme in materia di giustizia.

Ritengo che il tema delle riforme in materia di giustizia ed ordinamento giudiziario sia affetto da un macroscopico equivoco, svelato il quale sarà forse pi facile orientarsi nel dibattito, scegliere gli argomenti da proporre e gli interlocutori con i quali confrontarsi.
L’equivoco che rilevo consta nel fatto che, quando si parla di riforme dell’ordinamento giudiziario e della giustizia sostanziale e processuale, i diversi interlocutori ritengano di parlare della “stessa cosa”.

Non è così.

Quando i magistrati parlano di riforme si riferiscono a quelle modifiche necessarie a rendere la giurisdizione efficace e funzionale; a rendere effettiva la giustizia resa. Si tratta di modifiche funzionali del sistema che si inseriscano nella cornice dei valori e dei principi costituzionali ed ordinamentali vigenti.
Valori e principi che i magistrati condividono e che hanno contribuito a consolidare.
Valori e principi che i magistrati ritengono attuali e non ancora pienamente attuati; tanto da voler individuare le cause dell’inefficienza e della non effettività della giurisdizione proprio nella loro incompleta e ritardata attuazione. Tanto da pensare e proporre riforme che si collocano nel solco di quei valori e ne rendano effettiva e competa attuazione.

Altra parte degli interlocutori, e tra questi il governo e la maggioranza parlamentare che lo sostiene, quando parla di riforme della giustizia si riferisce, in verità, a modifiche non funzionali ma strutturali. Manifesta l’intenzione di voler modificare il sistema dei valori costituzionali ed ordinamentali vigenti, o meglio di sostituirlo con uno proprio. E, nel proporre principi e valori nuovi e diversi, questa parte sostiene che l’affermazione di questo “nuovo ordine” sia condizione necessaria e sufficiente a restituire alla giustizia dignità e prestigio, a renderla finalmente funzionale.

L’equivoco è tutto qui. Nell’evidente salto logico per il quale principi, valori e garanzie oggi vigenti sono indicati quali cause di inefficienza e sovvertirli fosse di per s solo sufficiente a risolvere il problema.
Come se, avendo costatato che il principio per cui LA LEGGE E’ UGUALE PER TUTTI non è pienamente effettivo nell’esercizio quotidiano della giurisdizione, si ritenesse di abrogare il principio anzich di meglio garantirne l’applicazione.

Certamente una parte (non saperi dire quanto ampia) dell’opinione pubblica è caduta nell’equivoco appena descritto. Non posso credere però che anche l’opposizione politica e parlamentare sia stata irretita da quel modo grossolano di argomentare che ho appena descritto e non si sia avveduta che il dibattito in corso sulla giustizia sottende uno stravolgimento complessivo dei valori e dei principi sinora condivisi.
E’ certo però che partecipare al dibattito nei termini in cui è impostato dalla maggioranza e dal governo vuol dire aver accettato una nuova definizione dei valori e dei principi di riferimento.

Nella tavola rotonda introduttiva del Congresso gli interventi di Giuliano Amato e di Stefano Rodotà hanno sottolineato ancora una volta che i principi fondanti dell’ordinamento giudiziario, come gli altri pilastri portanti dell’ordine istituzionale vigente, non sono suscettibili di modifica da parte della sola forza politica e parlamentare della maggioranza ed hanno rivendicato tali scelte ad un pi diffuso e generale consenso delle forze politiche e della società civile.

In quest’ottica la scelta delle forze politiche di opposizione circa l’opportunità di “partecipare” al progetto di riforma della giustizia proposto dalla maggioranza e dal governo non è priva di significative conseguenze.
E’ certo, infatti, che “sedersi al tavolo della trattativa” con il governo sulle riforme della giustizia, anche soltanto al fine di strapparne un esito meno deteriore di quello prospettabile in principio, assume contemporaneamente un significato di compartecipazione e di pi ampia legittimazione democratica di quell’esito; impegna reciprocamente tutti gli interlocutori al rispetto del nuovo sistema di valori affermato ed a confermarne la vigenza qualora, modificati a rapporti di forza politica, si verificasse un’alternanza alla guida delle istituzioni.

All’apposto sottrarsi al confronto ed alla “trattativa” significa indebolire ab origine la legittimazione democratica delle riforme, sottolineare che gli esiti che ne dovessero conseguire non sono condivisi e che, pertanto, sono esposti a nuova determinazione qualora nuove e diverse maggioranze politiche e parlamentari si affermassero.

Analoghe considerazioni valgono per la magistratura associata, nella misura in cui questa non intenda semplicemente subire modifiche da altri concepite e pretenda, invece, di esprimere una propria valutazione sulle riforme, motivata dalla profonda conoscenza del sistema giudiziario, dall’autonoma individuazione dei suoi punti critici e delle modifiche necessarie per migliorarlo.

Per esercitare efficacemente un ruolo critico e nel contempo propositivo ritengo che la magistratura non debba lasciarsi coinvolgere in un confronto impostato secondo termini non condivisibili solo al fine di “contrattare” un esito meno infausto e dannoso. In particolare ritengo che non debba accettare alcun confronto orientato a rimettere in discussione principi ritenuti fondamentali anche a costo di apparire conservatrice, se conservare vuol dire ribadire la centralità dei principi costituzionali ed ordinamentali su cui si fonda la giurisdizione.
Al contempo ritengo che la magistratura debba rilanciare l’iniziativa in merito alle riforme ritenute indispensabili a restituire efficienza e funzionalità alla giustizia ponendosi quale punto di aggregazione di consensi su un progetto di riforme per quanto ampio e radicale ma tale da non incrinare i principi condivisi.

Nei termini esposti il problema da porsi non è pi quello di individuare interlocutori credibili tra quanti propongono modelli di riforma della giustizia, quanto quello di proporre un progetto intorno al quale aggregare consensi.
E’ possibile che l’invito a confrontarsi con la magistratura su di un proprio progetto di riforma della giustizia non venga raccolto dalla maggioranza di governo o dall’opposizione, almeno in alcune sue componenti. Potrà essere però raccolto da quanti sapremo avvicinare ed entusiasmare.

Su questa strada mi sembra che Magistratura Democratica si sia già avviata e lo testimonia l’apertura di questo Congresso Nazionale a nuove articolazioni della società civile e del mondo giudiziario di cui le sessioni che si terranno nel pomeriggio sono solo una esemplificazione.

24 01 2003
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