Durata ed esiti dei processi, soluzioni, adeguatezza e coerenza con il sistema processuale e con l'art. 111 della Costituzione

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Principio accusatorio, impugnazioni, ragionevole durata del processo:
una riforma necessaria
Sasso Marconi, 12-13 dicembre 2003

Durata ed esiti dei processi, soluzioni prospettate, valutazioni sulla loro adeguatezza e sulla loro coerenza con il sistema processuale penale e l'art. 111 della Costituzione

di Claudio Nunziata

 
sommario

PARTE I
1. Premessa
2. Valutazioni generali sulle risultanze statistiche
  a) La durata

  b) Gli esiti del giudizio di appello
2. Le soluzioni proposte
3. L'attuazione del principio costituzionale della ragionevole durata

PARTE II
La necessita' di restituire coerenza al sistema

(la relazione seguente è priva di note e allegati, quella completa è però scaricabile in formato PDF da questo link )
PARTE I

.
 
1. Premessa

Nessuno si chiede più se esista o meno un malessere nella amministrazione della giustizia penale. Questo malessere esiste, si è aggravato e sembra destinato ad aggravarsi ulteriormente. Lo sentiamo tutti, magistrati, avvocati, cancellieri, incombente sul nostro lavoro quotidiano.
Una volta il malessere era identificabile nella incapacità del processo ad evitare errori giudiziari. Oggi con l'introduzione dei principi del "giusto processo", questo rischio è ridotto al minimo. Il malessere ha altra natura e non è più neanche identificabile in manifestazioni sintomatiche di abnormità o di lungaggini eccessive che si verificavano solo in relazione ad alcuni processi.
Ora il problema è strutturale: le regole del contraddittorio dibattimentale dinanzi ad un Tribunale collegiale, quelle che assicurano ad un processo per un reato grave o delicato, una decisione ponderata e meditata sono di tale complessità, ma anche di tale ricaduta effettiva sulla decisione, da comportare tempi di trattazione molto lunghi e da rendere incoerente la possibilità che una decisione elaborata con tanto travaglio possa essere ribaltata, per motivi esclusivamente di merito, da un collegio di appello che non abbia preso cognizione diretta della prova.
Non è soltanto un problema di coerenza del sistema accusatorio - e della norma costituzionale in cui esso è cristallizzato - per il quale la giustezza della decisione deve essere affidata tutta alla percezione diretta della prova da parte del giudice, ma anche un problema di trasformazione di fatto dell'appello sul merito in istituto che si inserisce nella struttura del processo impedendo a quella decisione di realizzare il suo effetto ed al principio della ragionevole durata di diventare operativo.
Con una ricaduta non solo sulla amministrazione della giustizia penale, ma anche sulla realtà esterna ai palazzi di giustizia, perché una decisione definitiva rinviata troppo oltre nel tempo impedisce all'imputato innocente di riprendere tempestivamente il suo posto nella vita di relazione, rinvia l'esecuzione delle condanna che finirà per essere eseguita nei confronti di persone che sono nel frattempo radicalmente cambiate, o, se non lo sono, lascia aperto una situazione di incertezza sulla loro vita che ne incoraggia la permanenza nel percorso criminale intrapreso. Troppi imputati tra la commissione di un reato e la esecuzione della relativa condanna, commettono delitti sempre più gravi e la condanna nei loro confronti interverrà o quando avranno già maturato autonomamente percorsi diversi per la propria vita o avranno già radicato una professionalità criminale che non sarà più agevole estirpare. E persone condannate a pene accessorie correlate a pene gravi, continueranno ancora per lungo tempo ad esercitare diritti loro non più spettanti, compresi quelli di elettorato attivo con possibilità teorica di incidenza impropria della lentezza della giustizia penale anche sugli esiti delle competizioni elettorali.
Ma è anche l'immagine stessa dello stato di diritto che ne viene compromessa in modo spesso irrimediabile, con effetti negativi a cascata sui comportamenti collettivi e con un danno sociale da assenza di risposta giudiziaria di proporzioni enormi.
La risposta giudiziaria in tempi non più adeguati alle aspettative, con il conseguente avvilimento dei diritti che ne deriva, costituisce uno dei fattori che contribuiscono a impoverire la democrazia . La crisi della giustizia non si presenta, dunque, più solo come un problema degli operatori del diritto ma un problema che investe l'intera comunità in tutte le sue componenti.
Sono certamente rispettabili e legittime diagnosi diverse, ma resta comunque il fatto che il ceto degli imputati e dei loro protettori, molto vasto nel nostro paese, non ha interesse a mutare questo stato di cose e non ne favorirà la soluzione. Ed anche quei politici, che pur sono in grado di rendersi conto delle incoerenze dell'attuale disciplina del processo penale, non sembra siano assillati dalla responsabilità di proporre modifiche adeguate. Conseguenza anche di una cultura giuridica che ha rivolto sempre scarsa attenzione agli aspetti funzionali del processo.
Ma bisognerà comunque trovare il modo di intervenire sui meccanismi di trattamento dei grandi flussi di processi penali, altrimenti la giustizia penale diventerà completamente inefficace, il ché comporterà anche l'ulteriore abbassamento del livello di legalità e, conseguentemente, anche dei meccanismi di agibilità dello stato di diritto.
Certamente non spetta ai magistrati cambiare le leggi, ma ad essi compete di segnalare quali sono le incoerenze attuali del sistema che determinano l'inefficacia del processo penale e segnalare tutte le possibile opzioni in grado di porvi rimedio. Nessuno si illude che oggi vi siano le condizioni politiche per una riforma di tale genere, ma è importante che intanto si cominci a ragionare senza pregiudizi ideologici su possibili soluzioni.
Noi magistrati, che veniamo additati come i responsabili della situazione, dobbiamo smascherare questa mistificazione. Dobbiamo dire chiaro e tondo che l'inefficienza del processo penale è, anche e soprattutto, la conseguenza di scelte normative incoerenti.


2. Valutazioni generali sulle risultanze statistiche

Esiste un problema di incidenza eccessiva sulla durata complessiva del processo penale della fase di appello, di cui troppo spesso non si è portati a prendere atto per una sorta di assuefazione a fare riferimento solo al tempo impiegato nella fase, senza riguardo al tempo precedentemente trascorso dalla data di iscrizione della notizia del reato ed al tempo delle fasi che seguiranno. Considerati isolatamente i tempi della fase di appello possono essere in taluni casi anche di per sé giustificabili, ma non lo sono se si sommano i tempi delle varie fasi (indagini, udienza preliminare, dibattimento di primo grado, dibattimento di secondo grado, cassazione). E con il nuovo codice ce n'è una in più di fase rispetto al vecchio regime processuale: quella dell'udienza preliminare, che non possiamo equiparare alla attività del giudice istruttore di vecchio rito, perché questi, quando era presente nel processo, assorbiva il tempo destinato alle indagini, che ora compete tutto al P.M.
 

  1. La durata


Non esiste un rilevamento a livello nazionale sulla durata reale dei processi, esiste però un pregevole lavoro della Direzione Generale di Statistica del Ministero della Giustizia che ha calcolato la durata delle fasi in base ad una formula che tiene conto di alcune variabili fondamentali che sono oggetto di monitoraggio costante: pendenza iniziale, pendenza finale, procedimenti sopravvenuti ed esauriti.
Le risultanze di questo studio si avvicinano notevolmente alla realtà, come riscontrato con riferimento alla situazione bolognese, ma sono soprattutto in grado di descrivere con notevole approssimazione la relazione di durata che esiste tra tutti i distretti, nel senso che essendo i dati di tutti i distretti rilevati secondo lo stesso criterio, le differenze di durata presunta corrispondono ad una effettiva differenza di efficienza funzionale. Il dato è rilevato per circondario, ma viene qui esposto per distretto per motivi di sintesi (v. Parte III).
Dalla interpretazione di tali dati risulta che la media della durata complessiva dei processi a livello nazionale (sino a decisione di cassazione) è differente tra processi trattati dal tribunale monocratico e processi trattati dal tribunale collegiale e che va progressivamente aumentando ed in misura vistosamente maggiore per questi ultimi:
pp. di competenza del tribunale monocratico gg. 2439 nel 2000 gg. 2787 nel 2001
pp. di competenza del tribunale collegiale gg. 2664 nel 2000 gg. 3157 nel 2001
Vale a dire che tra il 2000 ed il 2001 è passata dai 6 anni-8 mesi a 7 anni-8 mesi per i monocratici, e da 7 anni-3 mesi a 8 anni-8 mesi per i collegiali con un incremento maggiore per questi. Ovviamente poiché si tratta di una media in molti distretti i tempi sono ampiamente più brevi o più lunghi, oscillando tra i 5 anni di Trento agli 11 anni di Taranto
Si osserva come tra il 2000 ed il 2001 i tempi complessivi siano aumentati di circa un sesto per i processi trattati dal tribunale monocratico, di un quarto per quelli trattati dal tribunale collegiale. La proiezione di queste cifre è allarmante.
L'incidenza sui tempi complessivi della durata della fase di appello (v.All.- fig. da 1 a 4) è diminuita in termini percentuali tra il 2000 ed il 2001 dal 31% al 27% (monocratico) e dal 27% al 22% (collegiale) sul totale di durata delle fasi di merito. I valori assoluti (540 gg. nel 2001), rimasti pressoché stabili, variano dai 230 gg. di Bolzano ai 1286 di Caltanisetta. E' aumentata invece la durata delle fasi di indagine e di primo grado.
Se l'analisi viene rapportata ai numeri di processi pendenti (v.All. - fig.6), si verifica che i distretti in cui la durata della fase di appello è inferiore all'anno sono solo 10 su 29 ed hanno complessivamente avuto nel 2001 una pendenza pari a 24.352 processi di appello, mentre i distretti in cui l' incidenza della durata dell'appello è superiore all'anno sono 19 con una pendenza di 86.086 processi, con un valore medio di durata della fase di appello per questi ultimi di 2 anni e 3 mesi (822 giorni) .
In termini di valori assoluti si presentano picchi anche più elevati sino a quello di 3 anni dei distretti di Caltanisetta e di Venezia.
I distretti con durata della fase di appello inferiore all'anno rappresentano il 22,45 % della pendenza totale di tutti i distretti.
Il 77,55 % dei processi in fase di appello pendenti negli altri 19 distretti impegnano invece (con i sei mesi per il trasferimento di fase) mediamente quasi tre anni degli 8 anni e 8 mesi della durata complessiva del processo (cassazione compresa).
L'analisi evidenzia una situazione particolarmente pesante per quelle sedi di distretto che hanno una presenza di magistrati tra i 200 ed i 500, una situazione leggermente migliore e più omogenea per i 4 distretti con più di 500 magistrati (Milano, Napoli, Roma e Torino), una situazione grosso modo accettabile per la maggior parte dei distretti con meno di 120 magistrati con una punta di eccellenza per i distretti di Trento e Bolzano. Ovviamente vi è un notevole numero di piccoli tribunali con tempi di durata altrettanto contenuti che assumono scarsa rilevanza sulla media nazionale.
Certo, vi sono realtà giudiziarie ove il dato complessivo di durata del processo è migliore, ma - fatta eccezione per Trento e Bolzano che fanno storia a sé - comunque il dato prevalente di durata complessiva (compresi i tempi di trasferimento e quelli di cassazione) è pur sempre tra i 7 anni e 7 anni e mezzo, anche per un distretto come quello di Torino noto per la tradizionale efficienza.
I dati di durata ricavati con questo criterio sono certamente solo presuntivi, ma il confronto, parametrato con i dati reali rilevati presso la sede di Bologna, ha evidenziato che essi sono molto prossimi alla realtà posto che alla durata presunta dei tribunali monocratici del distretto di 1263 gg. fa riscontro un dato reale di 1260 gg. ed alla durata presunta dei tribunali collegiali del distretto di 1418 gg. fa riscontro il dato reale di 1578 gg. (v.All. - fig.7).
L'analisi dei dati di durata rilevati nel distretto di Bologna ha consentito anche di evidenziare che i tempi dei processi definiti dal GUP con rito abbreviato sono stati nel 2002 per la sede di Bologna (v.All. - fig.9) appena inferiori a quelli del tribunale monocratico e della metà per tutti i tribunali del distretto (v. All. - fig. 8).
Comunque presso il Tribunale di Bologna la durata reale della fase () dinanzi al Tribunale monocratico tende progressivamente a decrescere essendo passata (v. Allegato - fig. 10) dai 382 gg. del I trim. 2002 ai 330 gg. del II trim. 2003, mentre per i tribunale collegiale è aumentata della metà passando da 693 gg. a 783 gg. (per il solo giudizio ordinario) . I tempi di definizione dei processi pendenti presso la Corte di Appello di Bologna (esclusi i processi a carico di detenuti) si sono quasi raddoppiati tra il 2000 ed il 2002 passando dai due anni e mezzo del 2000 ai quattro anni e due mesi del 2002 (v. Allegato-fig. 11) .
 
b) Gli esiti del giudizio di appello

Dall'esame della banca dati di Re-Ge del Tribunale di Bologna è stato possibile rilevare che la percentuale di sentenze di I grado appellate (escluse quelle del GUP), a prescindere dal tipo di esito, è stata del 33,5% nel 2003 (I sem.) e che è diminuita (del 4%) rispetto a quella del 37,3% del 2002 (v.Allegato - fig.20) . Non si dispone di dati analoghi a livello nazionale, ma si può rilevare - ed è un dato significativo - che tra i definiti di primo grado ed i sopravvenuti in appello nel 2001 il rapporto è del 19% di questi ultimi sui primi, circostanza significativa del fatto che una altissima percentuale di processi di primo grado non è soggetta ad impugnazione e/o che vi è un elevato numero di assoluzioni in primo grado (v. Allegato-fig.14) . Dunque il primo grado funziona egregiamente da filtro.
E' stato possibile invece trarre dalla banca dati della Corte di Appello gli esiti analitici delle sentenze di secondo grado (Allegato-fig.15,16,17). L'analisi ha investito tutte le pendenze con un primo rilevamento che ha investito 11.000 posizioni soggettive oggetto di sentenza emessa tra il 1.1.2001 ed il 30.6.2002, ed altri due rilevamenti che hanno riguardato le posizioni definite nei due semestri successivi sino a al 30.6.2003.
Essi evidenziano che solo il 7-8% dei processi è oggetto di riforma in punto di affermazione della responsabilità, mentre la maggior parte dei processi è oggetto di riforma solo per la parte che riguarda la determinazione della pena (), generalmente nella misura di un quarto, con un dato percentuale che è andato diminuendo con il tempo passando dal 41%, al 31% e infine al 27% in coincidenza con l'aumento dei casi di prescrizione passati dall'11%, al 21% ed infine al 24% ().
Le restanti modalità di definizione sono "conferme" (31%) della sentenza di primo grado ed il resto declaratoria di nullità, inammissibilità o incompetenza.
L'analisi sugli esiti, compiuta anche con riferimento alla tipologia di reato, ha consentito di evidenziare la costante elevata incidenza di riforme in tema di responsabilità per i reati colposi (21,33%, 20,69%, 15%) e contro la P.A. (9,34%, 19,51%, 14,71%) e per i reati fiscali l'elevata incidenza di riforme limitatamente al periodo 2001/I sem.2002 (22,25%).
A tal proposito occorre evidenziare che:


  • il permanente alto tasso di riforme totali in materia di reati colposi è diminuito nel 2003 al 15% solo per effetto del notevole incremento delle relative prescrizioni nella misura del 45%,

  • la progressiva riduzione dei casi di riforma dei reati fiscali è stata determinata dal passaggio dell'ondata di applicazione della depenalizzazione conseguente alla legge di riforma della normativa penale fiscale del 2000,

  • l'aumento delle prescrizioni dall'11,83% del 2001 al 24,10% del 2003,

  • la riduzione dei casi di riforma sul totale del reati dall'11,67 del 2001 all'8,43% del 2003 è da ricondurre al venir meno della forte incidenza delle depenalizzazioni in materia fiscale del 2001.

Con riferimento alla provenienza (Allegato-fig.18) é interessante osservare che le sentenze del GUP sono quelle soggette alla più bassa percentuale di riforma nel merito (4%) ed alla più elevata in termini di entità della pena (54,3%), mentre il minor numero di modifiche riguarda le sentenze provenienti dal giudice monocratico (rispettivamente 6,9% in punto di responsabilità e 21,6% per la pena) .
A questo punto occorre integrare il dato statistico con l'esperienza che consente di affermare che nella quasi totalità dei casi le riforme nel merito si riferiscono a motivi di impugnazione che avrebbero potuto trovare soluzione con il ricorso per cassazione o con la revisione, con possibilità di riesame del merito in sede di rinvio o di giudizio rescissorio.
Le riforme sul merito delle sentenze di primo grado riguardano in prevalenza ben individuate situazioni nelle quali sia intervenuta nelle more una modifica normativa (come per i reati fiscali) o non si siano formati chiari indirizzi giurisprudenziali, come in materia di valutazione della prova, di nesso di causalità e reati c/o la P.A.. E, difatti, la percentuale del 20-21 % nei casi di responsabilità colposa è riferibile ad una materia contrassegnata da tormentate pronunzie contrastanti del giudice di legittimità. Ma in tali casi è possibile assicurare maggiori garanzie trasferendo i reati colposi (diversi da quelli relativi alla circolazione stradale), ed altri eventuali reati ad accertamento complesso, come ad esempio, i reati di diffamazione a mezzo stampa e calunnia, alla competenza del giudice collegiale.
La constatazione della abituale riproposizione della impugnazione dinanzi alla Corte di cassazione (), dopo la proposizione dell'appello, dimostra che per evitare gli errori giudiziari possono svolgere un adeguato ruolo correttivo i mezzi di impugnazione che fanno riferimento ai vizi di legittimità, alle prove nuove ed alle prove non valutate.

 
2. Le soluzioni proposte

I vari interventi che si sono sviluppati sul tema della ragionevole durata del processo dopo la introduzione del principio nell'art. 111 Cost. hanno certamente contribuito ad un monitoraggio di tutte le possibili condizioni che influiscono sulla durata del processo, ma le valutazioni che li accompagnano sono tutte rivolte a identificare la loro compatibilità tecnica con il sistema, nessuno è rivolto ad una prognosi dei vantaggi effettivi conseguibili, cioè di ricaduta ipotizzabile in termini di durata.
La mia valutazione è che la maggior parte dei rimedi suggeriti - a parte quelli che fanno riferimento agli aspetti organizzativi ed alla disciplina della prescrizione - sono scarsamente incidenti sul complesso delle pendenze penali, hanno una ricaduta non adeguata nell'accorciamento dei tempi e sono prospettabili in relazione ad un numero non rilevante di processi: quelli che per qualche motivo o resistenza particolare subiscono un andamento differenziato.
Ed anche sommando gli effetti positivi di tutte le modifiche tecniche proposte, i tempi di durata complessiva ne sarebbero influenzati in misura non significativa o, comunque, non adeguata alle aspettative, perché il problema che qui si pone non è quello di risolvere e ricondurre nell'alveo della normalità alcuni processi che trovano resistenze insuperabili ad essere trattati: questo è un problema diverso, anche se deve essere comunque affrontato.
Il problema di cui qui ci occupiamo riguarda invece la fisiologia del processo penale, la normalità dei processi e la normalità della loro durata media. I dati statistici esposti provano che la sua entità è rilevante e che le prospettive sono di un progressivo aggravamento della situazione. Ci dicono che essa è molto al di là di una normalità accettabile e, quindi, occorre intervenire con rimedi in grado di fornire una risposta significativa, incidente in modo radicale sui tempi del processo penale. Anche perché oggi la giustizia viene vissuta non più e non solo come momento di supremazia dello Stato, quanto piuttosto come diritto della collettività, come servizio che lo Stato deve rendere ai cittadini e che per essere tale deve essere reso in tempi ragionevoli.
Solo incidendo sulla struttura delle fasi di giudizio è possibile ridurre in misura significativa i tempi della giustizia penale, come - nella fase della esecuzione della pena - solo la eliminazione dell'udienza del Tribunale di Sorveglianza potrà consentire di ridurre ancora la forbice tra commissione del reato e esecuzione della condanna. E, difatti, al termine di un processo che dura quasi dieci anni, ne passano almeno altri tre per dare esecuzione alle sentenze definitive di condanna ().
L'impressione che ne traggo è che la dottrina sinora si sia limitata a girare intorno al problema. Le resistenze ad un intervento di razionalizzazione sono segnate da ideologismi culturali e da tautologie (), come la asserzione che (): "si tratta di un problema che non può non essere storicizzato".la reiterazione dei giudizi di responsabilità degli imputati si profila irrinunciabile".riflette l'articolazione culturale e politica della società italiana "al doppio grado di merito corrisponde il meccanismo della doppia lettura da parte dei due rami del Parlamento".il sistema dei gravami viene vissuto come strumento di garanzia".andrebbe anche considerata la esigenza di collegialità rispetto alle iniziative individuali controvertibili" ().
Ma anche chi si pone su queste posizioni è disposto a riconoscere che esiste un problema di durata ragionevole del processo penale e che esso deve essere assolutamente affrontato; individua esattamente il problema nei tempi morti delle fasi di passaggio da un grado all'altro, ma ritiene che essi siano eliminabili migliorando i meccanismi organizzativi. I grandi numeri ci dicono che gli imbuti che si creano tra una fase e l'altra sono, invece, spesso insuperabili.
E' stato, difatti, da altri ricordato che "il nuovo modello costituzionale di processo, combinando le garanzie proprie dei sistemi di tipo accusatorio con quelle previste per compensare i difetti processuali di tipo inquisitorio, alla fine determina un cumulo di previsioni garantistiche che certamente appare inconciliabile con una prospettiva realistica di efficienza processuale essendo risaputo che i tempi del processo si allungano più questo è garantito". ()
Il principio costituzionale della ragionevole durata non può essere considerato solo "un auspicio", perché è "la norma cardine alla quale le altre sono subordinate; è la norma che impone una rivisitazione del nostro sistema processuale al fine di verificare se ed in quale misura i singoli istituti siano compatibili con esso" ( ).
Era inevitabile che la scelta di mantenere i caratteri ed il peso di due diversi modelli processuali, quello accusatorio e quello inquisitorio (), avrebbero determinato un appesantimento dell'intero processo che di fatto comporta per la maggior parte degli imputati l'impossibilità a sostenerne i costi eccessivi. Ma neanche i maggiori costi economici hanno svolto una funzione disincentivante delle impugnazioni, dal momento che la criminalità gode di ampie risorse economiche e lo Stato si è assunto - ed è ineccepibilmente giusto - gli oneri economici per gli imputati non abbienti. E rispetto alla prospettiva dei vantaggi, anche economici, rappresentati dai riti alternativi prevale sempre quella naturale spinta alla dilatazione dei tempi determinata dalla prospettiva della prescrizione che nessun difensore diligente si assume la responsabilità di trascurare.
La mancanza di una analisi sulla ricaduta in termini di grandi numeri delle modifiche proposte e l'approccio, spesso astratto o esclusivamente tecnico giuridico, non hanno consentito a molti giuristi di individuare soluzioni adeguate.
Ma analizziamo una per una le obiezioni e suggerimenti proposti per rendere effettiva il principio della durata ragionevole del processo:


  • C'è chi ritiene che l'eccessiva lentezza dei processi sia dovuta a colpevole inosservanza dei termini processuali da parte dei magistrati ed a negligenza dei dirigenti nel farli osservare e suggerisce una maggiore severità disciplinare. Altri ritengono che per consentire di aggirare almeno in parte queste difficoltà occorrerebbe agevolare lo sviluppo della formazione professionale favorendo la specializzazione dei magistrati. Tali valutazioni non possono riferirsi all'intera categoria, ma possono riguardare solo qualche realtà sfuggita ai controlli, che sono reali, effettivi e continui. I dati statistici indicano una incapacità diffusa e strutturale della macchina giudiziaria a produrre risultati in tempi ragionevoli.



        • C'è chi punta il dito sulla incapacità dei dirigenti a gestire il lavoro giudiziario e suggerisce di affiancare ai capi degli uffici giudiziari un tecnico delle organizzazioni complesse, esperto della macchina giudiziaria. Ma è lo stesso sistema normativo che non consente una gestione funzionale e comunque, come recenti esperienze hanno evidenziato, esistono pochissimi tecnici delle organizzazione complesse in grado di comprendere i meccanismi del sistema giudiziario. L'unica strada praticabile per ottenere dei benefici su questo piano è quella di subordinare l'attribuzione delle funzioni direttive alla frequentazione di corsi di formazione da parte dei magistrati che si candidano a tali incarichi. Il differenziale di buoni risultati realizzabile attraverso una buona gestione, certamente significativo, è percepibile dai dati di alcune realtà come quelle di Trento e Torino, nelle quali, però, comunque un processo è destinato a durare mediamente 7 anni e mezzo nel distretto di Torino e 5 anni nel distretto di Trento (), che è comunque troppo per realtà che dovrebbero costituire il campione di riferimento.


  • C'è chi "candidamente" ha affermato che per attuare il principio costituzionale della ragionevole durata del processo occorre attuare la separazione delle carriere dei magistrati requirenti rispetto a quelli giudicanti. Nessuno, però, è riuscito a fornire una spiegazione oggettivamente logica di questa relazione, che si prospetta come frutto di una scelta ideologica, politica e culturale assolutamente indipendente dalla ragionevole durata. Certamente una oculata gestione delle notizie di reato da parte del P.M. è in grado di influire positivamente sui flussi del lavoro giudiziario nelle varie fasi successive a quella delle indagine sia in termini di razionalizzazione dei flussi sia di valutazione più accorta dei casi in cui valga la pena di portare il procedimento a giudizio. Ma chi sostiene che ciò non avvenga già, non si rende conto che l'attività del P.M. è già stata ricondotta per forza di cose in questa condizione e che sono già innumerevoli i casi in cui il P.M. rinunzia alle indagini per effetto di una valutazione prognostica sul piano probatorio o della irrilevanza. E' chiaro che le valutazioni del P.M. sono necessariamente influenzate anche da un inevitabile margine di soggettività e che sarà impossibile fissare dei criteri aprioristici per impedire che una certa aliquota di procedimenti venga portata a giudizio in previsione di una eventuale assoluzione dell'imputato. Certamente solo la cultura della giurisdizione potrà fare da argine ad un eccesso di tendenza alla criminalizzazione da parte del P.M., ma le iniziative in materia di separazione delle funzioni non vanno in questa direzione. Il problema non sono le disomogeneità marginali, che sono fisiologiche, bensì i numeri massicci di processi per reati comuni che non si riescono a smaltire e che al giorno d'oggi o sono destinati ad una prescrizione irrimediabile (generalmente quelli di rito monocratico), o sono destinati ad essere trattati con ritardi inaccettabili (generalmente quelli più gravi di rito collegiale) .

  • è possibile agire utilmente - anche se non di molto e sempreché si tratti di un ufficio ben gestito - sui tempi medi di trasferimento del procedimento dalla fase di indagini a quella di giudizio, dal primo e secondo grado ed in Cassazione. Se sui primi e sugli ultimi si può intervenire con modifiche organizzative dei servizi di cancelleria ed aggiornando il sistema delle notifiche, è possibile fare poco sui tempi di attesa, sugli imbuti che vengono a crearsi tra le varie fasi di giudizio e sui tempi di rinvio tra una udienza ed un'altra. Peraltro sempre più spesso la difficoltà ad aumentare il numero di udienze dipende dalla impossibilità delle cancellerie di predisporre e smaltire il corrispondente lavoro piuttosto che dalla indisponibilità dei magistrati. Certamente occorre lavorare anche in questo senso, ma non è sufficiente ().

  • Altra illusione è quella di aumentare il numero di reati da depenalizzare. La depenalizzazione del 1999, ha dato scarsi risultati in termini di riduzione dei tempi della giustizia. La diminuzione del carico di lavoro in appello è stata intorno a 5-10 % e, peraltro anche apparente, in quanto si è trattato di reati che altrimenti sarebbero stati destinati alla prescrizione. L'ulteriore depenalizzazione preannunziata inciderà in misura irrisoria, dal momento che tutte le ipotesi possibili di depenalizzazione che potranno essere prese in considerazione, anche se potranno interessare un numero notevole di reati, riguarderanno pochissimi casi processuali (), trattandosi di ipotesi di reato che generalmente trovano scarsa applicazione, alle quali non corrisponde un numero proporzionale di processi. La massa dei processi è composta per ben oltre il 90% da ricettazioni, furti, spaccio di stupefacenti, rapine e da altri reati che non potranno mai rientrare nella depenalizzazione.

  • Altri ritengono che è possibile ridurre il carico di lavoro anche attraverso efficaci strumenti di deprocessualizzazione deviando verso i centri di mediazione tutti quei procedimenti (i "classici" reati procedibili a querela) che possono essere definiti anche transattivamente. Ciò è già stato in parte realizzato con il Giudice di Pace, evitando che la crisi del processo penale esplodesse in misura peggiore di quanto oggi non sia. Certamente si può fare ancora qualcosa in questa direzione (), ma i dati statistici che ci allarmano riguardano ben altre fattispecie.

  • I criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti possono svolgere una effettiva funzione deflativa, ma la assenza di chiare disposizioni in merito alla attualità dell'art. 227 della legge 51/1998 crea sconcerto e non ne agevola l'utilizzazione. Certamente introdurre meccanismi di gestione strategica in un sistema che ne è sempre stato privo, può contribuire a realizzare una ottimizzazione delle risorse disponibili.



        • La razionalizzazione delle circoscrizioni giudiziarie certamente potrebbe portare qualche sollievo alla struttura giudiziaria (). E' nella natura delle cose, ma essa influisce su realtà e su quantità minimali di pendenze al confronto dei grandi numeri dei processi penali pendenti nelle grandi sedi. Costituisce uno dei tanti meccanismi di ottimizzazione delle risorse che è necessario attuare, ma destinati ad incidere scarsamente, in quanto già attualmente il personale degli uffici con poche pendenze viene comandato negli uffici più oberati. Il problema è diverso e più ampio: si tratta di realizzare un sistema di ottimizzazione di tutte le risorse, che passi attraverso una diversa organizzazione delle attività di supporto ai magistrati (cancellerie e servizi amministrativi) che, peraltro, tenga conto delle innovazioni informatiche che costituiscono un patrimonio di cui non sono state ancora sfruttate tutte le potenzialità. Su questo piano poco risulta essere stato fatto e molto tempo occorrerà ancora per cambiare mentalità e prassi.

        • Molti, individuando l'allungamento dei tempi nella sproporzione esistente tra le forze della magistratura ed il numero dei procedimenti, ritengono che le politiche di potenziamento del sistema giudiziario debbano essere dirette prevalentemente ad aumentare il numero dei magistrati (). Pochi sono disposti a riconoscere che occorre intervenire sulla domanda, piuttosto che sull'offerta di giustizia. Attualmente, difatti, il sistema normativo è strutturato in modo da favorire coloro che, potendo trarre beneficio dai tempi lunghi del processo () puntando alla prescrizione del reato, sono portati a moltiplicare le richieste rivolte ad impegnare il giudice, ricorrendo anche a defatiganti eccezioni formali (). Di conseguenza è svuotato l'effetto incentivante delle riduzioni di pena per i riti alternativi, senza che ciò sia controbilanciato da un minimo di attività promozionale rivolta ad informare l'utenza di giustizia sui minori costi ed i meno pesanti effetti , ad esempio, della pena patteggiata.


  • Attualmente per ottimizzare le risorse si potrebbero liberare energie giudiziarie pari ad un quinto di quelle disponibili, solo se si dirottassero verso processi destinati ad una conclusione di merito le energie impiegate nei processi che si prescrivono, che ammontano quasi al 25% dei processi esauriti in secondo grado che richiedono - con le attuali disposizioni - comunque una molteplicità di adempimenti. Il dubbio è che questa percentuale sia destinata ad aumentare vertiginosamente e che una massa cospicua di processi destinati alla prescrizione continuerà a paralizzare per i prossimi anni buona parte dei giudici penali.

  • La prescrizione in corso di procedimento deve diventare evento del tutto eccezionale. A tal fine occorre intervenire per evitare l'uso dilatorio e strumentale delle garanzie di difesa (la c.d. difesa dal processo, anziché difesa nel processo), prevedere la sospensione della prescrizione durante le impugnazioni, ripensare all'incidenza delle attenuanti generiche sul computo dei suoi termini ovvero limitare la prescrizione del reato sino alla chiamata in giudizio ed prevedere autonomi e diversi termini di prescrizione per fase del processo.

  • Tutti gli altri strumenti tecnici suggeriti dalla dottrina non hanno una ricaduta in termini generali tale da incidere significativamente sui grandi numeri, anche se possono ridurre gli ostacoli che si frappongono alla razionalizzazione della gestione del lavoro giudiziario. Certamente il sistema delle incompatibilità deve essere riesaminato, circoscrivendone l'incidenza al nucleo essenziale; il sistema delle nullità e della inammissibilità delle prove deve essere rivisto; occorre abolire avvisi e comunicazioni ripetitive, sovrabbondanti e superflue; riformare in radice il sistema delle notificazioni, che oggi non assicura conoscenza effettiva ed è frequente causa di nullità per ragioni del tutto formali; devono essere eliminate le varie cause di sospensione del processo per effetto di ricusazione e patteggiamento allargato e tutte le altre disposizioni processuali che non consentono di programmare ed organizzare per tempo l'impiego dei magistrati; devono essere razionalizzate le procedure di cooperazione giudiziaria internazionale.

  • Si prospettano come meccanismi di semplificazione anche la concentrazione delle motivazioni, l'aumento dei casi di preclusioni in appello con l'attribuzione di una maggiore rilevanza alla formazione progressiva del giudicato, un giudizio di appello semplificato in caso di richiesta di riduzione della pena (). E' stata proposta come rimedio per favorire la durata ragionevole del processo anche la compressione del potere di impugnazione della pubblica accusa, senza evidenziare che, comunque, esso inciderebbe in misura irrisoria sul lavoro giudiziario perché sono rarissime le impugnazioni da parte della pubblica accusa. Tutti interventi che possono assumere significato e rilevanza se inseriti in un contesto riformatore complessivo, ma che senza un contesto strutturale decisamente diverso e coerente con la nuova impostazione data dall'art. 111 Costituzione, appaiono decisamente velleitari.

Quando sarà attuato il processo telematico sarà possibile registrare una sensibile velocizzazione dei tempi dei processi, migliorare l'efficienza degli uffici giudiziari e, consentire a tutti gli operatori del settore - magistrati, avvocati, cancellieri, ufficiali giudiziari - di investire il proprio tempo ed il proprio impegno solo ed esclusivamente nelle attività intellettuali di analisi, dibattito e confronto focalizzate sui punti essenziali delle questioni in discussione. Ma, quando questo risultato sarà realizzato, anche un processo che dovesse durare solo 4 o 5 anni sarà avvertito come di una lunghezza insopportabile per una società educata ad ottenere la soluzione dei propri problemi in tempo reale.

 

3. L'attuazione del principio costituzionale della ragionevole durata

Il rimedio in grado di incidere in modo significativo sui tempi della giustizia penale resta la riforma del sistema stesso dei mezzi di impugnazione. Si tratta di una riforma che potrebbe essere attuata a costo zero e senza traumi organizzativi, casomai accompagnata da una ridistibuzione del carico dei ricorsi di legittimità, trasferendone in parte la competenza sulle Corti di Appello delle sedi di distretto contigue a quello di appartenenza del giudice di primo grado (la Corte di Cassazione potrebbe conservare il suo ruolo per i reati di competenza delle Corti di Assise e, volendo, anche per quelli di competenza dei Tribunali Collegiali).
Le Corti di Appello, insieme al ruolo di controllo dei vizi di legittimità sulle decisioni dei tribunali delle corti contigue, potrebbero assicurare la funzione di riesame del merito dei processi del proprio distretto nei soli casi di rinvio disposto dalla Cassazione o dalla Corte contigua. Nella pratica il riesame del merito non sarebbe abolito, ma ne sarebbe limitata l'applicazione ai soli casi in cui il giudizio di legittimità (da parte della Cassazione o della Corte contigua) dovesse ritenerlo necessario. Come già avviene attualmente con il giudizio di rinvio che dopo la decisione della Corte di Cassazione, oggi realizza in pratica il quarto e a volte anche il quinto grado di giudizio.
E' pur, vero che c'è il rischio che si riversino sul ricorso per motivi di legittimità e sulla revisione tutte le impugnazioni che ora trovano sfogo nell'appello sul merito, ma sarebbero in gran parte falcidiati dalla verifica di ammissibilità eseguita de plano () e la sentenza diventerebbe immediatamente esecutiva. E' pur vero che un processo con durata inferiore porterebbe fisiologicamente ad un aumento di ricorsi in relazione a tutti quei processi che non sarebbero più dichiarati prescritti. Ma intanto sarebbero state già liberate risorse umane per farvi fronte.
La eliminazione del riesame del merito in sede di appello (ovvero la riduzione dell'appello ai soli casi di esame delle prove nuove o non valutate) porterebbe alla riduzione della durata complessiva dei processi in una misura che si può stimare in un terzo e consentirebbe di liberare anche grandi risorse che, una volta reinvestite, potrebbero consentire di ridurre ulteriormente i tempi processuali ed avviare il circuito virtuoso del funzionamento dei riti alternativi, sino ad oggi scarsamente applicati proprio per la prospettiva di potere pervenire alla prescrizione del reato.
Se il problema è, invece, quello di lasciare funzionare un meccanismo che consenta di attenuare la pena, allora si potrebbe pensare di introdurre in parallelo un istituto che consenta di attribuire un valore aggiunto alla pena che divenga esecutiva a breve distanza dalla commissione del fatto, in modo da disincentivare il ricorso all'impugnazione ed incentivare maggiormente quello al patteggiamento: una sorta di patteggiamento sulla esecuzione della pena potrebbe aggiungersi a quello sulla determinazione della pena ex art. 444 c.p.p. ed alla definizione ex art. 438 c.p.p. (con la previsione, a regime, di un riequilibrio delle riduzioni di pena da un terzo ad un quarto).
Se vi è la preoccupazione di un uso smodato della pena da parte dei giudici monocratici, è ipotizzabile la estensione del giudizio di revisione alla nuova prova (o alla prova non valutata) relativa ad una circostanza di fatto in grado di incidere in misura significativa sulla entità della pena in tutti i casi in cui in primo grado sia stata comminata in concreto una pena della reclusione pari o superiore ai quattro anni.
Una riforma dell'appello in tal modo impostata dovrebbe evidentemente lasciare intatto il controllo di legittimità come momento di valutazione delle carenze motivazionali della sentenza di primo grado e consentire la riammissione all'esame di merito nei casi previsti dall'art. 606 lett. e) del c.p.p..
Anzi la verifica di legittimità dovrebbe essere ancora più penetrante estendendosi anche a tutti quei passaggi procedimentali che possano aver privato l'imputato della fase dell'udienza preliminare, che oggi costituisce una fase di piena delibazione, parificabile ad un primo giudizio sia pure di contenuto più limitato, avendo il legislatore con l'art. 1 lett. h) della legge 16.7.1997 e con le relative norme delegate diversificato la figura del GIP da quella del GUP.
E, se proprio non si dovesse riuscire a superare le resistenze e si dovesse abbandonare la prospettiva di dare coerenza al sistema accusatorio, si potrebbe per lo meno prevedere una struttura semplificata (de plano) di giudizio di appello e/o lasciare intatto l'appello sul merito per tutti i casi di competenza della Corte di Assise.

PARTE II

La necessita' di restituire coerenza al sistema

Se la nostra cultura tradizionale ci induce a credere che il processo sia migliore se è circondato da più garanzie, è necessario attuare sino in fondo quelle introdotte dall'art. 111 della Costituzione e sfuggire alla suggestione secondo cui la somma di garanzie incoerenti tra di loro fornisca un valore aggiunto. Le garanzie scritte solo sulla carta e prive di effettività costituiscono un valore negativo ed in aritmetica il più ed il meno si annullano determinando un risultato che non può essere maggiore dell'apporto di uno dei due addendi.
La nuova formulazione dell'art. 111 Cost. fissa i nuovi parametri di portata costituzionale che devono regolare il processo penale: alla garanzia del controllo di legittimità sulla decisione di merito sono stati aggiunti, tra gli altri, quelli relativi alla formazione della prova in contraddittorio tra le parti e la definizione del carattere di "ragionevole durata" che deve governare il rapporto tra meccanismo processuale e tempo necessario a porlo in esecuzione.
E stato stabilito che nuove regole devono informare i meccanismi di celebrazione del processo e che questi possono essere considerati compatibili con la norma costituzionale solo se la decisione viene assunta in contraddittorio e la durata del processo che ne deriva sia ragionevole. In altre parole si dice che la legge deve assicurare che la sentenza definitiva intervenga ad una distanza temporale dall'inizio del processo che ne salvaguardi gli obiettivi, senza recare all'imputato un danno in sé per il solo fatto della sua durata per effetto di adempimenti non strettamente funzionali alle finalità perseguite con il processo.
In questa logica, dunque, la durata del processo non può essere intesa essa stessa come una garanzia quanto piuttosto una modalità di utilizzazione delle garanzie, che consente l'esercizio del diritto di difesa e delle altre garanzie processuali solo nei limiti in cui non siano destinate a protrarre la durata del processo al di là di ogni ragionevole limite.
Per altro verso il meccanismo per pervenire alla decisione, nella previsione costituzionale, deve essere adeguato a governare il lavoro intellettuale di accertamento delle responsabilità penali con il fine di pervenire ad una decisione in un tempo ragionevole, dovendosi evidentemente ritenere obiettivo del processo penale quello di assicurare all'innocente una rapida decisione ed al colpevole la condanna ad una pena che ne consenta una rieducazione sollecita.
La stessa norma costituzionale ha introdotto una serie di ulteriori parametri che sono indicati come idonei a garantire la giustezza del processo e della relativa decisione.
In questo quadro di riferimento costituzionale ci si chiede se quella del giudice di merito debba essere considerata per definizione una decisione non rivedibile se non per vizi di legge e se non vi sia più spazio per regole processuali che consistano in una mera ripetizione di adempimenti o fasi processuali, oltre quelle rivolte alla realizzazione delle esigenze funzionali costituzionalmente previste. E, se, quindi, solo la violazione di una norma di legge sia sostanziale che processuale debba assicurare la rivalutazione del fatto, nei limiti in cui essa abbia inciso sulla precedente decisione.
Al di fuori di questo limite, il riesame del merito sia in termini di affermazione della responsabilità sia in termini di quantificazione della pena sembra non trovare alcuno spazio, anche perché altra disposizione costituzionale è finalizzata ad assicurare rimedio all'errore giudiziario. Ne consegue, dunque, che il rimedio all'errore di merito e, cioè, il riesame del merito del processo potrebbe essere considerato compatibile solo al di fuori del processo e dopo la sentenza definitiva. Esso è, difatti, assicurato dall'istituto della revisione, mentre l'appello come riesame del merito del processo é istituto non solo non previsto dalla costituzione, ma che anzi potrebbe essere considerato contrastante con i nuovi parametri da essa imposti.
L'estraneità dell'appello al nuovo modello costituzionale di struttura del processo si può desumere anche da tutto il complesso delle nuove disposizioni sul giusto processo, che hanno attribuito rilievo costituzionale a tutti gli strumenti per pervenire ad una giusta decisione inserendoli all'interno di un modello caratterizzato dal contraddittorio. Ne deriva l'esclusione della possibilità di considerare il meccanismo di riesame dello stesso fatto in una diversa fase come la strada per assicurare la giustezza della decisione, sicché l'appello a tutto campo, così come previsto oggi dal codice di procedura, finisce per risultare non più compatibile con la esigenza di assicurare la ragionevole durata del processo.
E' pacifico, difatti, che l'appello è un istituto che si esaurisce in una mera diversa lettura del processo di primo grado, che non è priva di ricadute sulla durata complessiva del processo, dal momento che la sua celebrazione comporta una serie di adempimenti (citazioni, avvisi, depositi, etc.) cui è collegato il decorso di termini, certamente incidenti sulla durata del processo.
Peraltro la insuperabile interrelazione stabilita nella norma costituzionale tra giustezza della decisione e percezione diretta della prova da parte del giudice sembrerebbe escludere che alla sentenza di appello, pronunziata senza percezione diretta della prova, possa essere attribuita l'efficacia di ribaltare una decisione assunta da un giudice che ha invece direttamente percepito una prova formatasi attraverso il contraddittorio delle parti.
Con la riforma dell'art. 111 Cost. è stato, dunque, impostato un nuovo modello di processo penale che ha introdotto elementi prima sconosciuti al modello disegnato dal codice di procedura penale.
La Corte Costituzionale nella motivazione della sentenza 288/1997 - con riferimento all'art. 2, comma 1, del Protocollo addizionale n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (che ha introdotto il principio secondo cui il colpevole di una infrazione penale "ha il diritto di sottoporre ad un tribunale della giurisdizione superiore la dichiarazione di colpa o la condanna") - aveva ricordato che "la garanzia del doppio grado di giurisdizione non e' costituzionalmente prevista in quanto il tenore della disposizione della convenzione richiamata non legittima una interpretazione per cui il riesame ad opera di un tribunale superiore debba coincidere con un giudizio di merito, ma consente anzi di ritenere che il principio si sostanzi nella previsione del ricorso in Cassazione già previsto dalla Costituzione italiana""Ove si volesse, poi, sostenere che, essendo la ricorribilità in Cassazione già prevista dalla Costituzione, l'art. 2, comma 1, ha introdotto il diritto ad un secondo grado di giudizio di merito, si incorrerebbe in un palese vizio logico, in quanto la norma convenzionale verrebbe interpretata alla luce del diritto interno, come se la disposizione pattizia avesse il ruolo di riempire i vuoti dell'ordinamento nazionale. Vuoto che, tra l'altro, non si porrebbe in contraddizione con l'ordinamento costituzionale italiano, alla luce della consolidata giurisprudenza di questa Corte in tema di non rilevanza costituzionale della garanzia del doppio grado della giurisdizione di merito (vedi, da ultimo, sentenze n. 438 del 1994 e n. 543 del 1989)." E la stessa Corte Costituzionale con già con la sentenza 117/1973 aveva affermato che il doppio grado di giudizio non inerisce, per necessaria implicazione, alla garanzia della difesa e che "può ritenersi, anzi, che il principio del doppio grado non esprime l'esigenza della piena cognizione in ogni grado della giurisdizione".e il legislatore ordinario può diversamente strutturare il processo di appello disciplinando, nell'ambito della sua discrezione, l'effetto devolutivo del gravame".
Si è passati, dunque, da un modello costituzionale che ignorava l'appello ad uno nuovo che sembrerebbe escluderlo, in quanto istituto irragionevole per non essere più compatibile con i nuovi parametri imposti dalla normativa costituzionale.
Lo stesso legislatore ha riconosciuto l'esigenza di una nuova legislazione ordinaria che adegui la normativa del processo penale ai nuovi parametri costituzionali sul "giusto processo" ed ha di conseguenza introdotto modifiche all'art. 513 cpp, (vedasi la legge 1 marzo 2001 n.63, in materia di formazione e valutazione della prova, etc.). A tale decisione è pervenuto dopo una pronunzia di incostituzionalità della precedente normativa processuale in materia. Nessuna conseguenza ha invece tratto sul piano dell'adeguamento legislativo in funzione dell'introduzione del principio della ragionevole durata del processo nonostante il richiamo ad una disciplina legislativa espressamente rivolta a questo fine. Ne deriva l'esigenza di richiedere anche su questo aspetto un adeguamento normativo o l'intervento correttivo della Corte Costituzionale.
E', difatti, da escludersi che il principio della ragionevole durata del processo sia destinato a rimanere nella Costituzione come una mera affermazione di principio dalla quale non sia necessario trarre alcun effetto pratico. Innanzitutto perché esso è contenuto in una norma che ha una portata tutt'altro che programmatica, tant'è che sia la Corte Costituzionale che il legislatore ordinario hanno ritenuto di intervenire in materia di "giusto processo" e, poi, perché i principi costituzionali debbono informare non solo la legislazione futura ma anche quella passata che deve ad essi essere necessariamente adeguata. E questa volontà del legislatore costituzionale è fortemente ribadita dalle parole "la legge assicura la ragionevole durata", affermazione che esprime l'esigenza che l'obiettivo proposto deve essere assolutamente garantito con un adeguamento normativo specifico, non potendosi ritenere sufficienti a tale scopo forme risarcitorie quali quelle previste dalla legge Pinto e velleitarismi organizzativi, che in nessun modo sono in grado di incidere significativamente, ai fini della durata, sulla struttura del processo.
Ovviamente occorre una verifica senza pregiudizi della fondatezza o meno di queste perplessità. Ma nel caso esse siano ritenute fondate, occorre rilevare che un eventuale intervento ablatore o riformatore su un istituto, quale l'appello, così radicato nel processo penale, comporterebbe la necessità di una serie di interventi normativi rivolti a riequilibrarne ed attutirne gli effetti. Vi sarebbe, dunque, l'esigenza di immaginare quali possano essere le modifiche strutturali da introdurre nella disciplina processuale al fine di rendere coerente il sistema.

 
 
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26 12 2003
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