Il differimento della condanna, la durata del processo, la funzione rieducativa della pena

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Principio accusatorio, impugnazioni, ragionevole durata del processo:
una riforma necessaria
Sasso Marconi, 12-13 dicembre 2003

Conseguenze del differimento della condanna, per effetto della durata del processo, sulla funzione rieducativa della pena.

di Sandro Margara

1):- La questione pi specifica che devo affrontare è quella delle conseguenze del differimento della condanna, per effetto della durata del processo, sulla funzione rieducativa della pena.
Non riesco, però, ad affrontare questo tema senza pormi anche il problema della articolazione del processo e del mantenimento o meno della fase di appello.
Sul significato rilevante di questa fase, spero di non sbagliare nel ricordare che una delle prime riforme della Italia repubblicana è stata quella della introduzione della corte d'assise di appello. Le sentenze della corte d'assise nella legislazione del ventennio erano, pertanto, di unico grado, fermo sempre il ricorso per cassazione. Anche se tale regime poteva avere uno stretto rapporto con la natura della composizione del collegio, comprendente giudici popolari, ci poteva essere (posso sbagliarmi), l'eco di una idea autoritaria della giustizia, specie riferita all'organo con le competenze pi significative (non solo sui fatti pi gravi, ma anche su quelli che pi da vicino interessavano lo Stato e quel particolare stato). D'altronde, l'appello in genere appare come espressione di una giustizia consapevole di potere sbagliare e di cercare validità nell'aumento delle fasi e delle sedi degli accertamenti. La eliminazione dell'appello sembra riferito ad una giustizia che ha una fiducia nelle proprie pronunce, tale da non avere timore dell'errore.
A prescindere da queste che restano impressioni, è ovvio che la presenza dell'appello, se può aumentare la durata totale del processo, dovrebbe avere come risultato: da un lato, un maggiore approfondimento nel merito della decisione (sia nel caso di conferma, che nel caso di modifica della prima decisione e delle sue ragioni) e quindi una garanzia di validità ed esattezza dell'esito del processo; dall'altro lato, una maggiore omogeneità nella misura delle pene attraverso la riduzione delle sedi di decisione e, comunque, un raddoppio di valutazione in proposito. D'altronde, non andrebbe dimenticato che vi sono realtà processuali molto diverse: fra i processi con difese particolarmente agguerrite e processi con difese particolarmente assenti. In questi ultimi, si arriva a decisioni scontate, generalmente di condanna, che potrebbero meritare almeno, diciamo così, una seconda possibilità (magari, purtroppo, con lo stesso tipo di difesa: meglio di nulla, comunque).
E' possibile che il discorso sia pi complesso quando il rito scelto sia quello accusatorio. La utilità dell'appello andrebbe qui difesa, compensando la mancanza del contatto con la realtà del dibattimento di primo grado, attraverso una documentazione effettiva ed esauriente dello stesso disponibile per il giudice di appello (la cui conoscenza, altrimenti, rischia di essere insufficiente) per rendere efficace la sua funzione di raddoppio e approfondimento degli accertamenti processuali.
La eliminazione dell'appello avrebbe, comunque, un prezzo,che si tratta di valutare se è necessario e conveniente pagare. La grave situazione della durata totale del processo ha la sua causa principale nella durata del processo di primo grado. La lunghezza della fase di appello ha la sua base nei molteplici incombenti formali, che potrebbero essere indubbiamente semplificati. Ma la effettiva incidenza della durata di questa fase sulla durata complessiva del processo andrebbe valutata prima di abolire, abolendo l'appello, una delle garanzie centrali del processo stesso.
Altro è che possa essere limitato il ricorso all'appello, in particolare là dove ne vengano meno le ragioni,come nel caso di tutte le forme di accordo delle parti sulla pena (semplificando anche le modalità conclusive per raggiungere la eseguibilità della sentenza).

2):- Venendo al tema pi specifico, posso partire da un aspetto che ha qualche connessione con lo stesso.
Faccio riferimento al caso dei detenuti con pene da eseguire molto modeste, di poco superiori ai sei mesi, che potrebbero ottenere la riduzione della pena di gg. 45 per effetto della liberazione anticipata (art. 54 O.P.). Questi possono ottenere tale concessione solo se sia rapido non solo il corso del processo, ma anche quello della definizione della sentenza e della sua annotazione. La decisione tempestiva presuppone, inoltre, l'intervento incisivo della magistratura di sorveglianza, che deve attivarsi con tempi molto veloci sia sulla verifica della definitività, che sugli accertamenti in base ai quali il beneficio penitenziario della riduzione pena può essere concesso. In questi casi, la proposizione dell'appello porta ovviamente a tempi lunghi che tolgono ogni possibilità all'interessato. Se c'è proposizione dell'appello senza presentazione dei motivi o se, in qualche caso, vi è rinuncia alla impugnazione, si può tentare di avere un accertamento di definitività della sentenza di primo grado, ma effettivamente non è facile che si riesca a ottenere un risultato.
E' pacifico, comunque, che, in casi come questi, l'appello pregiudica o rende molto incerta la possibilità di ottenere il beneficio penitenziario. E' chiaro, comunque, che si tratta qui di casi in cui è l'appello stesso che si manifesta in concreto inutile perch la pena si concluderà senza la possibilità che si arrivi ad una decisione: o, meglio, ad una decisione che anticipi la uscita dal carcere. E' la applicazione della custodia cautelare in casi come questi che lascia perplessi e che anticipa la esecuzione della pena senza che intervenga una pronuncia definitiva.
Quando il beneficio della riduzione pena sia, comunque, concesso, c'è da chiedersi se, in tali casi, venga mai in giuoco un problema di funzione rieducativi della pena. Anche se in modo abbastanza fumoso, si può scorgere nella concessione della riduzione pena un riconoscimento per la buona condotta tenuta in carcere, che può essere pur sempre un incoraggiamento a un non ritornare al reato. Siamo, è chiaro, in una accezione molto evanescente di attuazione della funzione rieducativi della pena.
E' chiaro da questo, ad ogni modo, che, in presenza di pene modeste, solo la loro esecuzione dopo la definitività della sentenza può portare a decisioni della magistratura di sorveglianza, non solo in termini di riduzione pena, ma anche in termini di concessione di misure alternative. Quando la esecuzione è anticipata dalla custodia cautelare tutto diventa improbabile.
In qualche modo, ci si avvicina di pi al tema con riferimento ad un'altra situazione. Per un certo tempo, è stato ritenuto utile per la riduzione delle impugnazioni (specie quelle defatigatorie) la prospettiva della concessione dei benefici penitenziari, in particolare permessi premio ed anche misure alternative. Prevaleva l'interesse a questi anzich quelle alla scadenza dei termini massimi di custodia preventiva o ad altri provvedimenti di rimessione in libertà. Di questo si sente parlare pi poco: sia perch è tutt'altro che sicura la concessione dei benefici (pi rara di una volta, a mio giudizio), sia perch anche i tempi processuali delle decisioni di molti magistrati e tribunale di sorveglianza si sono notevolmente allungate.
Queste osservazioni ci portano però solo a parlare dei rapporti di fatto fra interventi rieducativi e la fase processuale d'appello. Il tema proposto è un altro. Coglierei due aspetti diversi del tema vero e proprio.
Il primo è quello della individuazione, se vi siano, dei tempi pi opportuni di un'azione rieducativa.
Il secondo è in quale modo l'osservanza di questi tempi possa essere pregiudicata dal prolungamento dei tempi processuali attraverso la presenza della fase di appello.
Esamino separatamente questi due problemi.

3):- Secondo la sentenza 313/90 della Corte Costituzionale la entità della pena deve essere commisurata, al momento della sua applicazione, sulla esigenza che la sua durata consenta l'attuazione della sua finalità rieducativa.
Si deve prendere atto che vi è stata una notevole riduzione delle pene per certi reati, riduzione a cui non si è abituati. Si incontrano pene inferiori a 15 anni, e addirittura di poco superiori a 10, inflitte, frequentemente, per omicidio, quando operino le diminuzioni legate al rito e anche per le rapine e estorsioni aggravate siamo sovente su entità modeste, rispetto alle misure passate. Se per altri reati, come quelli previsti dalle Leggi stupefacenti, il rischio non c'è, per quei casi ora menzionati, capita di trovarci dinanzi al maturare di possibilità di una azione rieducativa e, in particolare, della applicazione di benefici in tempi abbastanza prossimi a quelli della commissione dei reati.
In tali casi, possono sorgere due tipi di problemi. Se il processo rieducativo si è già sufficientemente avviato e se siano maturate condizioni esterne utili perch si avvii il processo di reinserimento sociale del soggetto, particolarmente se questo si prospetti negli stessi luoghi e ambienti in cui il reato è stato commesso, se ciò avviene, ripeto, l'esplicarsi di interventi rieducativi all'esterno può apparire troppo precoce. Talvolta, dunque, i tempi perch si attuino le concrete azioni rieducative-risocializzative, sono anche troppo veloci e, se vi sia una definizione sollecita del processo, vengono avanzate istanze che possono apparire ed essere premature. Certo, in tali casi, si possono rigettare le istanze avanzate, ma non è qui il caso di pensare ad accelerare la definizione del procedimento in funzione specifica dell'avvio, pi incisivo e concreto, della azione rieducativa.
Va aggiunto che questi tempi precoci possono diventare ordinari per effetto di disfunzioni che si aggiungono a quelle del processo di cognizione. La prima disfunzione riguarda i tempi della c.d. osservazione degli operatori penitenziari: scarsissimi di numero, non sono in grado di affrontare tempestivamente tale operazione, che (art. 13 O.P.) dovrebbe essere avviata appena iniziata la esecuzione pena definitiva. La seconda disfunzione è rappresentata dai ritardi, talvolta molto pesanti, delle decisioni della magistratura di sorveglianza. Queste disfunzioni paradossalmente possono riportare ad una misura pi adeguata i tempi entro i quali gli interventi rieducativi possono partire.
Se questi si considerano nelle fasi di pieno sviluppo, anche attraverso l'avvio della fruizione dei benefici penitenziari, il discorso ora fatto ha un senso, che si può riassumere così: non sempre, ma in casi significativi e in numero non minimo, i tempi dell'azione rieducativa non devono essere precoci: può verificarsi che non siano ancora maturate le condizioni opportune e adeguate per l'attuazione della fase dinamica che ho detto.

4):- Paradossalmente, la tempestività del processo, che è un valore non contestabile, può essere "troppo tempestiva" ai fini dell'esplicarsi dell'intervento rieducativo-risocializzante. Va chiarito, ad ogni modo, che bisogna intenderci sullo sviluppo dell'azione rieducativa.
Anche qui, le insufficienze delle varie fasi di intervento, già segnalate, hanno deformato il senso del fisiologico svolgimento della azione stessa. Diventata definitiva la condanna, sarebbe necessario (v. il già citato art. 13 O.P.) fare partire subito osservazione e trattamento. Si inizia, in fase di esecuzione della pena, un percorso penitenziario che fa maturare, in tempi non necessariamente brevi, quelle valutazioni che consentono il passaggio alle aperture dei benefici penitenziari: permessi premio in prima battuta, misure alternative successivamente: v. in proposito la sentenza costituzionale n. 204/74, che descrive il rapporto fra prima e seconda fase dell'azione rieducativa, un rapporto necessario, ma che ha i suoi tempi. Quando, invece, come nella realtà, le cose si svolgono diversamente, il discorso viene stravolto. Se non c' è osservazione, se il trattamento è nominale, perch manca la disponibilità di strumenti essenziali dello stesso (particolarmente del lavoro e di una vita attiva interna al carcere, vita che si risolve, invece, per la maggioranza, in permanenze in cella di 20 ore su 24), allora si verifica spesso che solo il maturare dei tempi di ammissione ai benefici penitenziari costringe allo svolgimento della osservazione, così che l'azione rieducativa comincia proprio con la concessione (o non concessione) dei benefici penitenziari. Per questo, il sollecito maturare delle condizioni di ammissibilità spiazza detenuti, operatori penitenziari e magistrati di sorveglianza.

5):- Chiarito questo punto, si deve dire che il problema è assai pi articolato di quanto rappresentato nel modello che precede, che è quello, di scuola, di una carcerazione cautelare subito dopo la commissione del reato, seguita dalla esecuzione della pena e dallo sviluppo o non sviluppo di questa secondo il disegno che se ne è tracciato. Ci sono molte variabili, imperniate essenzialmente su due elementi: la durata delle pene, l'intervento o meno della custodia cautelare: e anche l'intrecciarsi di questi due elementi.
Se le pene sono molto modeste, intendo non superiori ad un anno, e la custodia cautelare non viene avviata, i tempi di definizione del processo saranno frequentemente e proporzionalmente lunghi, con o senza appello, la esecuzione sarà sospesa se vi sia istanza di misura alternativa (legge Simeone: art.656 C.p.p.), questa verrà decisa secondo la situazione di inserimento sociale del soggetto.
Allo stesso caso, con custodia cautelare avviata, si è accennato al n. 2: tempi processuali, su cui l'appello può incidere, e tempi della procedura di sorveglianza, faranno rischiare la completa espiazione della pena prima di ogni pronuncia della magistratura di sprveglianza.
Se le pene rientrano nella previsione della Legge Simeone (3 o 4 anni, nei diversi casi previsti dall'art. 656 C.p.p.) e la custodia cautelare non è stata attivata, il discorso non sarà diverso da quello fatto per le pene minori.
Nello stesso caso, con custodia cautelare avviata, la stessa rappresenta l'anticipo della esecuzione di una parte della pena, che l'appello può accrescere. In tali casi, però, se la custodia cautelare è stata applicata ragionevolmente, specie nel caso in cui resta un tempo non minimo per eventuali benefici penitenziari, l'inconveniente (esecuzione anticipata di parte della pena) può avere i suoi aspetti positivi (come si è cercato di spiegare al n. 3). Subentrerà, qui, il problema della tempestività o meno delle decisioni della magistratura di sorveglianza.
Se le pene sono maggiori, il discorso si articola ancora a seconda della entità delle stesse.
Se la custodia cautelare non è stata attivata o anche se, attivata, è stata poi rimossa, si deve passare dal carcere, per tempi pi o meno lunghi, a seconda della entità della pena: certo, in questi casi, il tempo trascorso dal reato può trovare i condannati in situazioni molto diverse: in molti casi anche in situazioni di già avvenuto distacco dalle condizioni in cui fu commesso il reato. E questo avverrà tanto pi frequentemente quanto pi siano lunghi i tempi processuali: in tali casi, spesso allungati da impugnazioni defatigatorie per allontanare lo spettro dell'andata o del ritorno in carcere.
Nel caso, invece, che la custodia cautelare, avviata subito dopo il reato, non sia stata mai rimossa, saremo, pi o meno puntualmente nel caso indicato al n. 4. A seconda l'entità della pena, potranno essere maturati o meno i tempi di ammissione ai benefici penitenziari.
In tutti questi casi, la tempestività delle procedure di sorveglianza sarà essenziale: se questo sistema è semibloccato dalle deficienze organizzative, gli inconvenienti sui ritardi e le frustrazioni degli sforzi di svolgere azioni rieducative, potranno essere molto pi gravi o, almeno, altrettanto gravi di quelli dovuti all'espletamento o neo della fase di appello. E' nota la situazione attuale delle procedure pendenti presso i tribunali di sorveglianza, con esecuzione sospesa per la legge Simeone, in attesa di decidere su istanze di misure alternative: si tratta di circa 80.000 procedure, in crescita, che sono una cifra pari a pi del doppio delle decisioni in un anno degli stessi uffici giudiziari. Nel frattempo, gran parte delle pene non sono quindi eseguite, e le situazioni rappresentate nelle istanze perdono ogni attualità.

6):- E allora posso tirare delle conclusioni. Se è pacifico che la tempestività dei processi è un valore che non è contestabile, l'allungamento degli stessi per effetto dell'appello potrebbe non annullare una tempestività ritrovata: dovrebbe, infatti, partecipare di questa.
Il rapporto fra la presenza della fase dell'appello e l'avvio della funzione rieducativa è relativo a una parte soltanto delle situazioni, abbastanza limitata, e, in qualche caso, in presenza di pene molto contenute (dovute alle variabili processuali), può addirittura (ho chiarito gli estremi del paradosso e come può essere contrastato) non essere un danno.
Se devo dire la mia, rinunciare alla fase di appello, è un passo che dovrebbe essere a lungo meditato e che non credo molto felice. Lo dico, sul piano processuale, perch si toglie una garanzia essenziale di approfondimento e oggettività delle decisioni. Lo dico anche sul piano penitenziario: il condannato non è sovente persuaso, particolarmente quando è in carcere, della sua condanna: togliere la verifica dell'appello accentuerebbe quella persuasione insufficiente e la difficoltà di accettazione della pena che ne consegue.

(Sandro Margara)

26 12 2003
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