Signor ministro, siamo delusi!

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Intervento di Livio Pepino, a nome del Gruppo consiliare di Md, nel plenum del CSM del 7 novembre 2006, in occasione dell’incontro con il Ministro della giustizia.   Signor Ministro, abbiamo, fin da questo primo incontro con Lei, il dovere della massima franchezza, soprattutto nei punti su cui le nostre valutazioni non coincidono.   La situazione, anche politica, è - lo so bene - incerta e difficile. E sono consapevole del Suo personale impegno, pur in queste difficoltà, per creare intorno alla giustizia un clima di dialogo e per bloccare i passaggi peggiori della controriforma dell'ordinamento giudiziario. Ne sono consapevole e gliene do volentieri atto.   E, tuttavia, prevale in me (in noi), un senso di delusione, di preoccupazione quando non anche di sfiducia. 1. Perché delusione? Perché abbiamo atteso, in questi primi sei mesi di governo (e, dunque, in un periodo di tempo apprezzabile), segnali - badi, parlo solo di segnali – che per la giustizia è cominciata davvero una stagione nuova, non solo nel clima ma anche nei contenuti. Purtroppo questa attesa è rimasta insoddisfatta. Vado alla rinfusa: la sospensione della controriforma dell'ordinamento giudiziario è stata parziale e non accompagnata dalle necessarie indicazioni in positivo; la mancanza di iniziative legislative - parlo, ovviamente di iniziative bel sapendo che l'approvazione compete al Parlamento - tese a razionalizzare l'impatto dell'indulto con il sistema ha ulteriormente privato di senso una giustizia penale prossima al collasso; l'inerzia a fronte delle molte leggi ad personam che - nella scorsa legislatura – hanno mortificato il principio di uguaglianza ha accresciuto e accresce la sfiducia dei cittadini nei confronti della giustizia; la stessa ipotesi di rivedere l'irrazionale reticolo delle circoscrizioni giudiziarie (precondizione di ogni riforma organizzativa è stata precocemente accantonata. 2. Perché, oltre alla delusione, preoccupazione e incertezza? Provo a sintetizzarlo in una affermazione semplice e un po' brutale: perché non esiste - non v'è traccia - di un progetto per la giustizia. E, senza progetto, navigando a vista, non c'è possibilità alcuna di uscire dalla crisi che ci attanaglia e mina la fiducia dei cittadini. In un confronto più approfondito di quello odierno (se e quando ne avrà la possibilità) potremo scendere nei dettagli propositivi, ma fin da adesso non intendo sottrarmi ad alcuni spunti. Manca, anzitutto un progetto organizzativo, che ponga rimedio alla politica dello sfascio ostinatamente e pervicacemente perseguita dal suo predecessore. Le risorse sono poche, lo sappiamo. Ma proprio la loro esiguità rende ancora più importanti le scelte: quali sono le priorità? dove si vuole investire? e poi, perché non partire subito dalle riforme a costo zero? Ma è inutile illudersi e illudere. Un disservizio come quello in atto non si risolve - mi spiace dissentire dall'impostazione che ci ha qui proposto -solo con più mezzi e più risorse. Al salto di qualità organizzativo occorre affiancare un progetto di grande respiro che ridefinisca, in modo innovativo il rapporto del sistema giustizia con la società e le sue esigenze. E -ancora una volta - so bene che l'approvazione di un progetto riformatore compete al Parlamento, ma converrà con me che la possibilità di un intervento parlamentare siffatto è subordinata a una iniziativa organica del Governo. Occorre partire dalle fondamenta. Il nostro sistema, sia nel settore penale che in quello civile, è - nonostante alcune eccezioni -irrazionalmente rigido. La domanda di giustizia e i luoghi di tutela non devono essere tagliati (ché anzi, vanno incentivati), ma razionalizzati e differenziati. Faccio, per essere concreto, degli esempi: l'attuale disciplina degli stupefacenti e dell'immigrazione produce (anziché arginare) reati e insicurezza; nel processo penale la disciplina delle notifiche, delle nullità, delle impugnazioni, della contumacia è irrazionale e solo apparentemente garantista; oggi, nel civile, il problema non è prevedere l'esito della controversia ma capire qual è il rito scegliere; più in generale la strada della sicurezza non passa per (facili) inasprimenti repressivi ma per concrete iniziative di tutela delle vittime, per forme alternative di tutela, per sanzioni davvero alternative; etc. Un approccio attento a queste (e a molte altre) questioni e rigoroso nel trarne indicazioni coerenti determinerebbe nel sistema un terremoto; incontrerebbe resistenze fortissime - prima di tutto tra magistrati e avvocati - ma senza scelte non si esce dalla crisi. Mi creda signor Ministro, non è più tempo di commissioni di studio ma di scelte. Manca ancora (pur se oggi ce ne ha anticipato alcune linee) un progetto definito sul piano ordinamentale. Negli ultimi anni la scelta della razionalità e della efficienza è stata accantonata e sostituita da quella della gerarchia e della burocratizzazione. Noi le chiediamo non già il ritorno a un passato che non merita rimpianti ma un progetto alternativo e coraggioso. Il punto  è che tutti i magistrati - in qualunque ufficio e in qualunque parte del paese essi operino - adottano decisioni che incidono sulla libertà personale, sul patrimonio, sull'attività produttiva, sullo status personale e familiare dei cittadini. Lo sforzo da compiere, dunque, non è quello di metterli in scala ma di garantire che tutti abbiano livelli adeguati di professionalità. Qualche volta Lei ci ha ricordato - con garbo ma con insistenza - che la magistratura non può limitarsi a chiedere ma deve fare la sua parte. Condividiamo il richiamo. «Ogni volta che un giudice commette un abuso - lo sappiamo bene, e ce lo ha ripetutamente ricordato Luigi Ferrajoli - ogni volta che esercita in maniera arbitraria le sue funzioni, ogni volta che viola i diritti di un cittadino egli attenta all'indi­pendenza della magistratura. Ogni giudice, nella sua lunga carriera, incontra migliaia di cittadini: come imputati, come parti offese, come testimoni, come attori o convenuti. Natu­ralmente non ricorderà quasi nessuna di queste persone. Ma cia­scuna di queste migliaia, di questi milioni di persone. Indipendentemente dal fatto che abbia avuto torto o ragione, ri­corderà e giudicherà il suo giudice, ne valuterà l'equilibrio o l'arroganza, il rispetto oppure il disprezzo per la persona, la capacità di ascoltare le sue ragioni oppure l'ottusità burocrati­ca, l'imparzialità o il pre-giudizio. Ricorderà, soprattut­to, se quel giudice gli ha fatto paura o gli ha suscitato fidu­cia». Noi lo sappiamo e lavoreremo, a cominciare dal Consiglio, per realizzare un modello di giudice che susciti fiducia, grazie alla sua competenza, al suo equilibrio, alla sua educazione, alla sua indipendenza. Ma abbiamo bisogno di un quadro di riferimento adeguato. 3. In ultimo non voglio trascurare gli impegni concreti e immediati. Le indico, dunque, alcune possibilità di collaborazione immediata tra Consiglio e Ministero: - il ripristino del gruppo misto per la determinazione degli indicatori per la misurazione dei flussi giudiziari (presupposto fondamentale - come anche Lei ha rilevato - per la valutazione dei magistrati e dei dirigenti, per la determinazione degli organici, per la revisione delle circoscrizioni); - alcune sperimentazioni pilota a cominciare dall'ufficio del giudice e di quanto esso significa; - l'apertura di un tavolo di confronto - e anche su questo punto prendo atto della Sua analoga posizione - in ordine all'organizzazione degli uffici tra dirigenti magistrati e dirigenti amministrativi, al fine di porre le basi sia di una formazione comune sia della necessaria revisione del decreto legislativo sul decentramento del Ministero (da tutti ritenuto inadeguato e inapplicabile). 4. Ho finito. Se vorrà mettere mano, con fantasia e coraggio, a un cambiamento profondo del sistema giustizia incontrerà, signor Ministro, molte difficoltà e resistenze. Non da parte del Consiglio e, comunque, non da parte delle componenti più sensibili della magistratura. Vorremmo peraltro, di ciò, vedere presto almeno le prime avvisaglie. livio pepino

06 11 2006
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