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Oltre la differenza: una riflessione sull'autorevolezza

Il soffitto di cristallo è una realtà ben nota in tutti i contesti della vita pubblica, sia nelle professioni che in politica e nell'ambito della formazione superiore, dove alla formale parità delle possibilità d'accesso e delle condizioni di lavoro per donne e uomini -in genere conquista piuttosto recente- si accompagna la tensione fra la presenza numerica delle donne e la possibilità del loro accesso ai livelli dirigenziali; tensione che si fa più evidente col passare del tempo, perchè è soltanto dopo un certo numero di anni di permanenza in un contesto lavorativo o di rappresentanza politica che si può constatare, sia soggettivamente che oggettivamente, il divario fra le possibilità nominalmente inerenti l'accesso a una professione o a una carriera politica e la loro effettiva realizzazione. Dove ha origine questa tensione, qual è il suo significato, quale uso è possibile farne?

Nel 1919, concludendo il suo studio, Working life of women in the seventeenth century, -un classico della storia delle donne - Alice Clark scriveva: «Possiamo chiederci se l'instabilità, la superficialità e la povertà spirituale della vita moderna non derivino dall'organizzazione di uno Stato che prende in considerazione gli scopi della vita soltanto dal punto di vista maschile, e forse possiamo sperare che quando questo meccanismo sarà stato rimpiazzato da un'organizzazione che tenga conto dell'intera realtà, che è sia maschile che femminile, l'umanità vedrà rinnovarsi l'energia che la renda capace di fronteggiare la forza cieca del capitalismo.» Per quanto scritte quasi un secolo fa, queste parole mi sembra tocchino un punto sul quale ancor oggi si può utilmente riflettere, ovvero la matrice unilaterale -maschile- degli obiettivi che informano la vita pubblica. Se è vero, come asserisce Geneviève Fraisse, che non si può certo definire patriarcale la società in cui viviamo, essendo venuta a cadere l'identificazione ideologica fra sovranità e paternità, dobbiamo constatare che questa disidentificazione non ha prodotto un riassetto degli obiettivi e delle strutture simboliche, sia nell'ambito della politica che nel mondo del lavoro, delle professioni e della formazione superiore. La solidarietà fra uomini, il contratto sessuale che Carole Pateman ha individuato all'origine dello Stato moderno, permane e con essa l'esclusione delle donne in quanto tali dal potere di contrarre il patto fondativo.

Come sinteticamente scrive Anna Loretoni: « " la costruzione dell'ordine pubblico ha infatti lasciato fuori l'ordine domestico, privato, pensato in termini di naturalità. La donna non partecipa allo spazio pubblico e alla sua costruzione proprio in quanto legata ad una dimensione in cui non si dà scelta, responsabilità, ma destino, necessità, natura "Alla sfera pubblica, in quanto sfera in cui agiscono soggetti uguali, liberi e responsabili, viene contrapposta la sfera privato/domestica, in quanto ambito di azione di soggetti la cui attività è sottoposta alla necessità determinata dalla natura, ed è quindi non libera per definizione " se la sfera privata riceve valore da quella pubblica, solo quest'ultima è il vero centro dell'azione dell'essere umano nel mondo " Se così stanno le cose, rispetto alla soggettività femminile esclusa dallo spazio pubblico, occorre operare allora non un semplice riconoscimento, ma un nuovo riconoscimento, quello di una soggettività arricchita di nuovi contenuti "» Non una semplice inclusione delle donne nello spazio pubblico, una sussunzione del femminile all'universale neutro-maschile, ma un'operazione nuova e, sicuramente, complessa.

Assumere il punto di vista maschile come universale è certamente un'operazione possibile alle donne, esseri umani raziocinanti: molte individualmente lo hanno fatto e lo fanno -ne siano coscienti o meno-, e del resto possiamo in questi termini caratterizzare, sul piano collettivo, la spinta ugualitaria del primo femminismo moderno (dalla rinascimentale querelle des femmes al suffragismo di fine Ottocento all'emancipazionismo del secondo dopoguerra). Come ha osservato ancora la filosofa Geneviève Fraisse, «nel quadro dell'universalismo si potevano porre delle richieste forti di diritto, ragionando in termini universali». Ma l'assunzione del punto di vista maschile, la rivendicazione dell'uguaglianza, lascia nel non-detto tutti gli aspetti simbolicamente femminili, cioè collegati alla riproduzione della vita e alle relazioni -quello che Elena Pulcini chiama Il potere di unire- che la modernità ha collocato nell'ambito privato, e che il riconoscimento della differenza introdotto dal secondo femminismo, il femminismo degli anni Settanta, ha segnalato come problema fondamentale anche dal punto di vista teorico. Il problema, che enunciato filosoficamente è quello di come collocare la differenza nell'universale', ha un peso non solo teorico nella vita di tutte, dove si articola come tensione fra la percezione di sè come individuo (essere umano libero e uguale') e quella di sè come donna.

Nelle conclusioni di una recente indagine focalizzata a mettere a fuoco Come si perpetuano le disuguaglianze nei luoghi di lavoro?, Francesca Giovani segnala che «le scale di autovalutazione delle capacità professionali di donne e uomini sono risultate pressochè identiche. L'unica differenza di rilievo tra i due gruppi riguarda un minor grado di fiducia da parte della componente femminile nei confronti delle proprie capacità.» Possiamo sensatamente chiederci se il minor grado di fiducia' che le donne esprimono in relazione alle proprie capacità di lavoro non sia espressione della consapevolezza di una discrasia strutturale fra l'affermazione della propria soggettività femminile -ovvero di una differenza irriducibile all'universale, che nel panorama italiano è stata introdotta dagli studi di Luce Irigaray e a cui dedica la sua riflessione da anni la comunità filosofica di Diotima- e i valori che governano, esplicitamente o implicitamente, la sfera pubblica in tutte le sue espressioni. Consapevolezza acquisita anch'essa nel tempo, perchè nel momento dell'affermazione forte della soggettività delle donne -nel secondo femminismo dei mitici anni Settanta, caratterizzato da due slogan significativi per questo discorso: «il privato è politico» e «io sono mia»- l'energia sprigionata dalla riappropriazione della differenza sembrava in grado di abbattere le montagne; mentre oggi, a una generazione di distanza, misuriamo il limite e il prezzo di ogni conquista fatta. Lo misuriamo nella lontananza fra la generazione che ha vissuto quel femminismo e le più giovani, lontananza che si esprime come difficoltà a trasmettere il significato di quell'esperienza; lo misuriamo nel continuo vederci riproporre in forma banalizzata o come puro e semplice pregiudizio (nella scienza, nella politica, nei media) i frutti della nostra riflessione: i temi del corpo, della maternità, della cura; lo misuriamo nella distanza dal potere, nonostante la presenza nell'agenda politica, e non solo europea, della problematiche dell'empowerment e delle pari opportunità, che sono affermate come temi mainstream quando ancora la loro realizzazione è parziale e imperfetta (come, fra l'altro, ci ricorda Franca Borgogelli nell'intervento a questo stesso seminario).

Uguaglianza, differenza, potere sono tre termini chiave per caratterizzare il posizionamento delle donne nella vita pubblica. Tre termini che ritroviamo anche nelle ricostruzioni dei percorsi delle donne nella storia, effettuati negli studi storici degli ultimi decenni impostati a partire dai temi della differenza e del genere. Alla forte sottolineatura della differenza nell'antichità, emblematicamente raffigurata nella separazione degli spazi domestici e rafforzata da mille elementi simbolici, si contrappone l'affermazione dell'uguaglianza di fronte a Dio' nel primo cristianesimo. Ma le donne erano pur sempre escluse dall'esercizio del potere, tanto nella vita della polis quanto nell'ecclesìa. L'innesto dell'elemento barbarico, nei primi secoli del medioevo, introduce aspetti di ascendenza matriarcale che riconosciamo nelle vicende delle regine merovinge e delle sante fondatrici alto-medievali, di fronte ai quali i padri della chiesa si interrogano però chiedendosi «se una donna possa essere compresa nel termine homo», che indica l'umanità tout-court. Nel monachesimo le donne possono accedere a posizioni di effettivo potere anche all'interno della chiesa, ma mai al sacerdozio; e a partire dal Duecento si ritrovano escluse dall'alta cultura e da ogni sfera decisionale, tanto da far sorgere a livello storico un interrogativo radicale: did women have a Renaissance? No, rispondono molte ricerche storiche: mentre il corpo delle donne è assoggettato al controllo maschile e la differenza femminile diviene segregazione, le donne -quelle poche in grado di prendere la parola nella cosiddetta querelle des femmes- iniziano quella rivendicazione dell'uguaglianza che ritroveremo nei femminismi dell'età moderna, da Olympe de Gouges al suffragismo, mentre la dicotomia privato/pubblico racchiude la differenza femminile e i valori ad essa collegati nell'ambito della vita familiare, dove si sviluppa il potere di riscatto delle donne legato alla potenza materna. La storia dell'Occidente, sorvolata a volo radente da uno sguardo femminile, si mostra come una contraddittoria altalena che nell'Ottocento sfocia nella complementarietà fra l'immagine idealizzata dell'Eterno Femminino (proiezione dell'immaginario maschile) e la domanda freudiana senza risposta, «che cosa vuole la donna?»; mentre il Novecento, con la massiccia uscita delle donne dalle case durante le due guerre mondiali e l'accesso all'istruzione e alle professioni, vede crearsi le condizioni perchè l'esperienza femminile si scontri con un mondo pubblico declinato al maschile: le condizioni cioè perchè si crei la tensione fra la presenza delle donne nella sfera pubblica e il loro accesso al potere.

Perchè questo sembra in questione: forse le donne vogliono semplicemente, come gli uomini,il potere', cioè la capacità e la possibilità di influire sulle decisioni negli ambienti in cui si opera, secondo la definizione accolta da Vittoria Franco. Ma come esercitare potere, una volta uscite dalle case dove nel corso dei secoli avevano imparato a tessere coi fili della loro potenza materna un potere obliquo rispetto al mondo esterno, un potere fatto di gestione del corpo proprio e di quello dei figli, dalla nascita e per tutta l'infanzia, fatto di relazioni e parole fra donne? « In alcune sessioni di presa di coscienza dei primi anni Settanta, scrive la storica Luisa Passerini, affiorava la convinzione che il tipo di potere ottenibile con la parità non fosse sufficientemente desiderabile, anche qualora quella parità fosse stata davvero completa e impeccabile. La condivisione del potere esistente appariva del tutto insufficiente, non solo da una prospettiva a valle, per usare una terminologia di quel decennio, cioè una prospettiva volta verso un futuro che ci si immaginava aperto a grandi e radicali cambiamenti anche nella gestione del potere, ma soprattutto in senso antropologico, da una prospettiva a monte, che tenesse conto della soggettività delle donne così come si era esplicitata storicamente.» Una riflessione sul rapporto fra donne e potere l'avevamo impostata, un gruppo di storiche e filosofe riunite nel laboratorio sul genere' dell'Istituto Gramsci Toscano, una decina d'anni fa, con la precisa intuizione che fosse possibile uscire dalla rigidità di un'idea di potere immutabilmente connotata al maschile, senza però approdare ad una dicotomica contrapposizione di categorie: di questa riflessione abbiamo dato conto in un volume collettivo pubblicato dieci anni fa, Il femminile fra potenza e potere. Ho letto continuità con i risultati di quella riflessione nelle parole di Vittoria Franco, componente del Laboratorio, quando più di recente scrive che le donne «esprimono una diversa concezione del potere, che non è esclusiva, che non è manifestazione di potenza individuale. Per le donne esso corrisponde più facilmente a esercizio di autorevolezza, che non perde mai la dimensione delle relazioni.» Anche un altro contributo di una delle componenti del Laboratorio sul genere, Anna Scattigno, mi conforta nel provare a prendere come segnale, per una ricerca del potere dal punto di vista delle donne', proprio il termine di autorevolezza, che nella più immediata delle accezioni significa «stima, credito, fiducia che si impongono in quanto fondati sulla personalità di chi ne gode» (Devoto-Oli) e ci riporta dunque alla problematica della percezione che le donne hanno di sè in relazione al mondo. Anna Scattigno utilizza il termine autorevolezza' a proposito dell'azione riformatrice di Maria Maddalena de' Pazzi, che con forte presa simbolica affermava che «gli uomini si servono e del lume della luna e di quel del sole, massimo si servono di quel della luna nel tempo della notte» per sottolineare la diversità di sapere e di potere tra maschile e femminile nell'ambito religioso e civile. Prima dell'età moderna, in special modo ma non solo nel contesto della vita religiosa, troviamo più di un esempio di donne che, attribuendo autorevolezza alla propria esperienza femminile, hanno saputo esercitare un potere inteso, secondo la definizione che ne abbiamo data, come «capacità e possibilità di influire sulle decisioni negli ambienti in cui si opera»; una potere che si esprime attraverso la presa di parola pubblica, ma che viene accolto dal mondo degli uomini quasi esclusivamente come rimedio eccezionale, profetico', nei contesti di crisi, ambiguamente valorizzato e sottoposto a controllo. Un esempio di profezia femminile del passato molto noto e valorizzato dagli studi delle donne è la badessa benedettina Ildegarda di Bingen, vissuta nel XII secolo; pur sottolineando le difficoltà e i pericoli del muliebre tempus nel quale viveva, e la debolezza della sua figura di paupercula mulier, e senza sottrarsi ai vincoli del suo mondo, con la sua presa di parola Ildegarda costruì il presupposto teorico e operò tenacemente per costruire una realtà duale, ma non dualista, in cui la forza maschile e la delicatezza femminile si integrassero a tutti i livelli, dal cosmo al corpo umano al percorso della storia. Analizzando da vicino i suoi scritti e la sua biografia, si vede bene come in epoca premoderna potesse interagire col mondo una coscienza femminile': definizione che non equivale (per James Hillman, e anche per chi scrive) alla coscienza che accompagna il sesso biologico femminile ma alla «coscienza che ha un aspetto femminile integrato», ovvero alla capacità di attribuire valore alla corporeità, alla funzione materna, alla relazione intendendoli nella loro trascendenza come funzioni dello spirito.

Lo sguardo psicologico di Hillman, che suggerisce di guardare alla storia come ad un viale degli archetipi', permette di comprendere quali possibilità siano date, nel presente, dall'approccio a figure femminili del passato che propongono al nostro immaginario modalità di rapporto col reale al di fuori degli schemi di oggi. Ma in questo sta anche il limite di questo approccio, perchè è oggi che la questione del rapporto delle donne col potere si pone e, al di là di ogni suggestione proveniente dal passato, è una risposta per il nostro tempo quella che andiamo cercando.

Allora, come costruire oggi un'autorevolezza che doti le donne della fiducia necessaria per provare a spezzare il soffitto di cristallo? La traccia di una risposta possiamo trovarla nell'esperienza della prima teorica italiana del femminismo degli anni Settanta, Carla Lonzi, che lucidamente ha riconosciuto come «l'uguaglianza tra i sessi sia la veste in cui si maschera oggi l'inferiorità della donna». La differenza sessuale coscientemente assunta mette in questione l'universale, non per sostituire un universale con un altro, un potere femminile ad un potere maschile, ma collocandosi asimmetricamente rispetto alla definizione stessa, quella maschile, del potere come dominio: «sul piano donna-uomo non esiste una soluzione che elimini l'altro». La posizione di chi si riconosce differente non mira ad inserirsi, diventando uguale, o ad assumere il dominio perseguendo un semplice mutamento di segno dell'unilateralità, ma vuole piuttosto «operare un mutamento globale della civiltà che l'ha escluso»: è proprio qui che la differenza donna/uomo mostra la sua valenza radicale, paradigmatica rispetto alla possibilità di pensare ogni differenza. Da sempre peraltro, sostiene ancora Carla Lonzi, le donne hanno contribuito al mondo degli uomini mettendo a disposizione il più che è proprio della relazione, rimanendo tuttavia al di fuori della costruzione del sapere. Il momento chiave è allora, per lei, l'esperienza del confronto reciproco nei gruppi, «momento non prestigioso» ma essenziale di una trasformazione globale, perchè rende possibile evidenziare, scrive Maria Luisa Boccia, «come la relazione su cui si incardina tutta la sfera pubblica, che determina il primato dell'agire politico, sia del tutto opaca rispetto al problema della donna (duplicare la coscienza del mondo)».

Quello che troviamo negli scritti di Carla Lonzi, e nell'esperienza delle relazioni fra donne che ha costituito l'asse portante della presa di coscienza di una soggettività differente, non è una ricetta dell'autorevolezza', un pensiero in qualche modo normativo, ma l'indicazione di un percorso di costruzione di coscienza, in cui il passaggio tra donne dei saperi ricavati dalla propria esperienza -e oggi in special modo le attività di formazione, dove avviene la trasmissione dei saperi e la condivisione di percorsi di donne di generazioni diverse- riveste un'importanza fondamentale. Solo il riconoscimento della diversità tra le donne, infatti, e il confronto continuo fra i tanti modi diversi di vivere la tensione fra i valori dell'uguaglianza e quelli della diversità, può produrre nel mondo le trasformazioni necessarie perch ciascuna (e ciascuno) sia messa in grado di percepire e valorizzare appieno le proprie capacità. In questo contesto ogni strumento, se consapevolmente assunto come tale, con un preciso calcolo delle potenzialità e dei rischi che contiene per l'integrazione della differenza femminile nella vita pubblica, può essere utile: leggi e organismi di parità, azioni positive, forse anche le quote (strumento a mio avviso il più rischioso di tutti, per il suo elevato tasso di ambiguità). Ma nessuno strumento è di per sè sufficiente a esprimere una coscienza femminile' capace di dare continuità e valenza politica alla trasmissione dei saperi prodotti dalle donne, di integrarne i contenuti alla realtà sociale senza adeguarli, più o meno coscientemente, al sistema simbolico dominante ancora impregnato dell'equazione umano=maschile', di operare una trasformazione che faccia dello spazio pubblico il luogo di confronto di una realtà che è due, e che proprio per questo può aprirsi alla pluralità.


Indirizzo:
http://old.magistraturademocratica.it/platform/2005/05/18/oltre-la-differenza-una-riflessione-sullautorevolezza