La giustizia civile, a Napoli come in Italia

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Pochi giorni prima del Congresso di Venezia, Carlo Verardi inviò a me ed a Magda Cristiano una e–mail, chiedendoci di predisporre un intervento per il dibattito congressuale; Carlo era rimasto colpito da alcuni nostri sfoghi per la situazione del Tribunale civile di Napoli (situazione logistica, situazione organizzativa, situazione pi in generale culturale) ed aveva poi apprezzato molto una bozza di documento che proprio al Congresso Magda aveva portato (e che di lì a poco la sezione napoletana di Md discusse e fece propria).
Ma con Carlo eravamo, purtroppo, tutti abituati ad approfittare della sua generosa disponibilità; e così fu facile per noi tirarci indietro, sicuri del resto che lui avrebbe saputo raccogliere quel po’ di buono che nelle nostre indicazioni poteva trovarsi, inquadrandolo in un discorso organico e di alto profilo, come del resto fu quello da lui tenuto all’ultimo Congresso, in cui riuscì ad inserire un accenno a quella che definì “la coraggiosa denuncia dei colleghi napoletani”, che pure all’epoca era solo poco pi che un mugugno.

E', dunque, anche per assolvere ad un dovere morale nei suoi confronti, e per raccogliere un pressante invito di Gianfranco Gilardi, che Magda ed io ci siamo decisi a predisporre questo breve intervento.

La situazione napoletana è, a nostro parere, in qualche modo emblematica delle difficoltà in cui oggi si trova chi, pur convinto della necessità di una difesa intransigente del ruolo e dell’assetto costituzionale della magistratura, non voglia chiudere gli occhi su gravi responsabilità che la magistratura stessa ha verso i cittadini; e se abbiamo orgogliosamente portato la costituzione alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, la valenza simbolica di quel gesto non può non essere considerata rivolta anche ed innanzitutto al nostro interno.

E' certo che, proprio in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il Ministro a Milano, i suoi rappresentanti nelle sedi delle varie Corti d’Appello, pur ripetendo di voler rispettare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, hanno prospettato un ben strano e sgangherato sillogismo costituzionale, che ponendo un azzardato collegamento tra l’amministrazione della giustizia in nome del popolo e la sovranità del Parlamento, è giunto ad ipotizzare la soggezione assoluta e totale dei giudici al “diritto oggettivo” quale voluto dal Parlamento stesso, e, dunque, dalla sua maggioranza. Una nuova forma, questa sì, di vero e proprio giacobinismo, che non si accontenta pi delle ipotizzate riforme volte a separare il pubblico ministero dai Giudici, spingendolo nell’alveo dell’esecutivo, ma che vuole senza mezzi termini la soggezione dell’intera magistratura alla maggioranza parlamentare ed alla sua volontà “oggettiva”, non alterata cioè dall’arbitrio dell’interpretazione.

Dunque, di fronte a tali manifestazioni di rozzezza istituzionale, che fanno seguito ad un biennio di tensioni crescenti, frutto non solo di esternazioni in libertà (le famose invocazioni di arresto per i giudici) ma anche di atti istituzionali dirompenti (pensiamo alla mozione del Senato del 5 dicembre 2001 ma anche al discorso al Csm del dicembre scorso dello stesso Ministro), la tentazione di chiusura a riccio da parte della magistratura è forte, e può apparire anche in qualche modo una forma di legittima difesa.

Ma proprio in questo difficile passaggio il ruolo di Md può e deve essere diverso da quello degli altri gruppi della magistratura associata, ed essere ancora una volta un ruolo propulsivo. Su questa linea, del resto, si è chiaramente posto Claudio Castelli con la nota intervista a “La Repubblica”, di apertura e rilancio verso le riforme vere, con l’accettazione di un confronto sulle cose da fare senza preclusioni; su questa linea, noi crediamo, si dovrà porre anche questo Congresso, che può e deve dare un segnale forte, anche all’interno, di cambiamento.

Dicevamo prima della realtà napoletana: il vizio antico del corporativismo scatta come un riflesso condizionato in realtà in cui lo sfascio dell’amministrazione della giustizia è sotto gli occhi di tutti; ed in luogo di un lavoro serio ed intransigente, in luogo di una disamina anche sulle possibilità di migliorare il servizio attraverso il ricorso a comportamenti pi rigorosi, a prassi virtuose, ecc., si cercano responsabilità altrui, che possono essere volta a volta del Ministro, dell’avvocatura o persino dell’Anm nazionale, accusata da alcuni settori della magistratura napoletana di eccessiva ideologizzazione, per aver abbandonato i cari temi degli adeguamenti salariali.

La sezione napoletana di Md in questi anni ha saputo condurre importanti battaglie, note a tutti, anche per la corretta gestione in alcuni uffici giudiziari; ma a tutto ciò non ha sempre corrisposto un contegno conseguenzialmente intransigente nell’operare di ognuno di noi nel proprio specifico lavorativo; e, soprattutto, non siamo riusciti a fare breccia in alcuni uffici giudiziari (pensiamo proprio al Tribunale di Napoli, in particolare per quanto riguarda il settore civile, o al Tribunale di sorveglianza che versa i condizioni comatose), ancora amministrati in modo che può definirsi solo “medioevale”, piegati ai voleri immotivati ed irrazionali dei capi, che, pur non manifestando alcuna cura verso la gestione dei rispettivi uffici, non esitano ad assumere provvedimenti in plateale violazione delle regole di amministrazione fissate dal Consiglio superiore, dalle tabelle organizzative degli uffici, o semplicemente dal buon senso comune.

In questo senso, anche l’iniziativa assunta dalla Giunta Distrettuale dell’Anm, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, che pure abbiamo condiviso e contribuito a realizzare, di consegnare al rappresentante del Ministro, e poi alla stampa, un dossier fotografico sullo stato assolutamente indecoroso dell’edilizia giudiziaria partenopea, segnatamente per quanto attiene al settore civile, si è prestata e si presta alla solita duplice lettura: da un canto, ha dato luogo alla consueta, legittima e fondata, lamentela “su mezzi e strutture”; dall’altro, avrebbe consentito e dovrebbe imporre di inchiodare alle loro responsabilità anche i vertici degli uffici ed in qualche modo ogni singolo magistrato, per un degrado di dimensioni tali che non può essersi determinato nel breve volgere di qualche anno, ma che si è andato alimentando della progressiva indifferenza di tanti.

Del resto, il degrado materiale è specchio di un degrado prima ancora morale che attanaglia ampi settori della magistratura napoletana. In questo senso, la situazione del settore civile è, a nostro avviso, emblematica.

Impera e si afferma un’idea, un modello di giudice civile, che prescinde completamente dalle esigenze del servizio; il “bravo” giudice civile, sembra incredibile, ma è ancora oggi quello che scrive “dotte” sentenze; e mentre la produttività del Tribunale segna paurosi cali, tanto da indurre un presidente di sezione a far firmare all’indifferente Presidente del Tribunale una lettera di richiamo generalizzata, la corsa verso le ore di insegnamento negli atenei della Regione è sfrenata, e pare appassionare i colleghi molto pi di ogni tentativo – allo stato, tutti pi o meno falliti – di coinvolgimento in esperienze di studio e di elaborazione di prassi virtuose, come avviene in tante altre parti d’Italia attraverso gli osservatori.

Ma, del resto, ed in questo senso ci sembra necessario far partire proprio da questo congresso un segnale rivolto innanzitutto ai nostri componenti del Csm e dei Consigli giudiziari, gli attuali sistemi di valutazione sembrano studiati e calibrati, specialmente per quanto riguarda le professionalità varie del giudice civile, per selezionare, privilegiare e premiare un “giudice professore”, e non un giudice che si dedichi al proprio lavoro. In ogni occasione in cui occorra esprimere un giudizio sulla professionalità del giudice pare che si prendano in considerazione non il suo modo di lavorare, il modo in cui intende il suo rapporto con le parti e con i loro procuratori, il tempo che destina alle udienze, gli sforzi che dedica per tentare di conciliare le liti, ma tutta una serie di attività (che per questo, poi, divengono estremamente ambite) che esorbitano dallo specifico lavorativo e che a questo sottraggono tempo: partecipazione a convegni, redazione di note a sentenze o di articoli di dottrina, insegnamenti o incarichi vari.

Ed è evidente che, in questo stato, la semplice prospettazione dell’esigenza di un diverso modo di intendere il rapporto tra giudice civile ed ufficio; l’intransigente difesa di un modo diverso di lavorare, in contrasto con le sciatte prassi imperanti e condivise da giudici ed avvocati per un reciproco tornaconto; la vigile attenzione al rispetto delle regole di legalità interna, a partire da quelle tabellari; la pressante richiesta di adeguare gli standard lavorativi, quanto meno in termini di numero minimo di udienze settimanali, a ciò che avviene nel resto d’Italia; l’invocazione di una sensibilità nuova verso i diritti che sia disposta a mettere in discussione, ove occorra, anche orientamenti giurisprudenziali consolidati e, per questo, tranquillizzanti; suscitano reazioni sdegnate, ed attirano, se non vere e proprie antipatie, quanto meno ironici atteggiamenti di sufficiente sopportazione.

In una recente visita precongressuale a Napoli, Claudio Castelli ci invitava, di fronte alla gravità della situazione, ad un ottimismo persino irrazionale, come unica alternativa possibile ad un altrimenti inevitabile senso di impotenza. E' una sfida che vogliamo raccogliere e portare avanti, convinti della bontà di quella “scelta di campo” che Md ha fatto e che riconferma specie in momenti così difficili: è però necessario che quella scelta appaia, anche nei comportamenti tenuti dai suoi aderenti ogni giorno nella pratica esperienza degli uffici, assolutamente coerente e trasparente, perch solo questo ci conquisterà quei “compagni di strada” nel cammino che ci tocca compiere che Carlo era sicuro avremmo saputo incontrare.

23 01 2003
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