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Parole d’ordine e discorso costituzionale

La necessaria visione globale dei valori elettivi della nostra Costituzione, messi in discussione e, in parte già disattesi o traditi, nell’attuale vicenda civile e istituzionale del Paese, esige chiarezza anche nella scelta del metodo di interlocuzione, nel senso che appunto, è da farsi tutto il “discorso della Costituzione”, sicchè tutto il suo tessuto si tiene o si perde: dal carcere, rectius pena, . . . alla giustizia, alla giurisdizione, alla salute, all’informazione, insomma. . . . alla qualità della vita, nella certezza dell’inevitabile qualificazione di “conservatorismo” che oggi tocca a tutti i difensori dei valori Costituzionali e con la conseguenza, recentemente evidenziata da Pizzorusso, che “quanti volevano invece sovvertire tali valori, in nome di un populismo antiegualitario, avrebbero dovuto essere considerati i veri “riformisti””.
La scelta indicata comporta anche il rifiuto nostro del confronto civile e istituzionale sul terreno degli slogan e delle parole d’ordine. Quegli stessi slogan – definiti da Saverio Borrelli nella relazione di inaugurazione dell’Anno giudiziario passato – come “volgarizzazione di questioni giuridiche – costituzionali e procedurali – per slogan gridati, con voluta ignoranza dei reali contenuti di testi normativi. . . gli stessi slogan che contribuiscono ai guasti di un pericoloso sgretolamento della volontà generale, al naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del diritto, ultimo, estremo baluardo della questione morale. . .”.
Tra le tante parole d’ordine: la certezza della pena ( cioè, sottointesa, ma onnipresente, quella detentiva) e il diritto alla sicurezza dei cittadini.
Già ne ha detto ieri, da maestro, Sandro Margara.
Certezza della pena, dunque un quantum immodificabile?
Pena certa . . . ma per chi?
La relazione di Claudio Castelli ha opportunamente evidenziato, sin dalle prime battute, come gli istituti di pena siano la rappresentazione dell’ingiustizia sostanziale. Basta aggiungere a quei dati che l’aumento ulteriore, in meno di soli 2 anni, di 3521 detenuti conferma la forte percentuale della tipologia giovanile, maschile, meridionale.
Ancora una volta, ma questa volta senza la minima suggestione ideologica, il sottoproletariato urbano meridionale è il prototipo del “prigioniero”.
Si incarcera di pi e si offrono o si lasciano meno alternative sanzionatorie alla detenzione.
C’è un altro versante della rivendicazione dell’indipendenza della giurisdizione: non solo la natura della giurisdizione penale non è condizionabile a queste parole d’ordine, ma il loro potere di amplificazione dei processi di differenziazione sanzionatoria, a svantaggio della marginalità, diventa omogeneo alle politiche di drastica riduzione del lavoro e del welfare che connotano il passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale.
Cioè, da noi i processi di differenziazione sanzionatoria si costruiscono prevalentemente su due variabili che operano con caratteri fortemente discriminatori: la marginalità giovanile, compromessa con la costruzione sociale della droga, e la marginalità che accompagna i nuovi processi immigratori (ben diversi dai fenomeni di criminalità organizzata transnazionale), e allora il carcere diventa, fuori dalle polemiche tra posizioni correzionaliste e tesi neoretribuzioniste, solo un lazzaretto.
Tre esempi attuali di influenza della contrazione della spesa sociale sull’esercizio dei diritti in carcere, si deducono dalla legge finanziaria:

  1. vengono sottratti 20milioni di euro ai 95 destinati, nell’anno in corso, all’assistenza sanitaria in carcere: le prime strette avranno effetti sulla drastica riduzione della somministrazione di antiretrovirali ai malati di AIDS, sull’interferone per l’epatite cronica B e C, sugli antipsicotici di ultima generazione; di tutto ciò dirà pi ampiamente Luigi Ciotti.
  2. la stessa finanziaria ha escluso tutti i fondi per le agevolazioni del lavoro penitenziario, da stanziare ogni anno secondo le previsioni della legge Smuraglia, già faticosamente costruita alle origini con l’intervento a San Vittore di Cofferati e il patrocinio del Prof. Flick. Saranno prevedibili gli effetti caratterizzati da fenomeni di ozio e autolesionismo;
  3. la contrazione delle somme destinate in precedenza ogni anno agli enti locali per i servizi sociali, già oggetto di contenzioso tra gli stessi enti e lo Stato, avrà inevitabili effetti sulla riduzione dei percorsi di alternatività al carcere.

Sono lontani gli anni ’70 in cui anche M.D. avanzava tesi sull’influenza tra fabbrica e carcere, quasi come vasi comunicanti dell’esclusione sociale e tuttavia, pur riconoscendo i deficit teorici nei modelli esplicativi dei nuovi percorsi di ricarcerizzazione, bisogna prendere atto che in Italia, in questi ultimi anni, nessuna delle tre ipotesi scientificamente offerte per la spiegazione del fenomeno è da escludere:

  1. l’aumento della criminalità per effetto della lievitazione degli indici di disoccupazione, della crisi dei sistemi di welfare, dell’inasprimento dei sentimenti di deprivazione relativa da parte di ceti marginalizzati;
  2. la conseguenza di politiche criminali pi repressive;
  3. la diffusione nella società civile del sentimento di insicurezza sociale.

E’ difficile immaginare di poter fare a meno della topica carceraria vivente, intrisa di cultura populista della pena e di un nuovo realismo di sinistra, al di fuori di un idea diversa della giustizia penale intrisa, questa sì, della globalità dei valori della nostra Costituzione. Giustizia penale che non è solo processualità, ma almeno, nella difficoltà del tempo presente l’aspirazione alla cura di un progetto di riscrittura del catalogo valoriale degli illeciti penali e delle coerenti risposte sanzionatorie che, nella formulazione del progetto Grosso, hanno seminato non poche perplessità.
Non molti si avvedono che la nostra giustizia penale e ormai vicina all’alimentazione di retoriche “militariste” di incapacitazione selettiva: pi nemici faccio prigionieri, meno nemici possono nuocermi, è stato detto! E’ la logica, ma non solo, della legge Bossi – Fini.
Le concrete e materiali conseguenze di questa giustizia penale sono quasi esclusivamente finalizzate alla pura costrizione e tendono ad esserlo, oggi di fatto, domani anche nelle leggi, nelle aree del disagio mentale e tossicomanico, colla punizione di quest’ultimo per il solo uso della sostanza ( come ha evidenziato ieri Carlo Sorgi) e con l’imprigionamento del primo controriformando la legge n.180 (di cui ieri ha parlato Lupo). . . meglio ancora potendo fare a meno dell’intervento del giudice. . . devo ricordarvi oggi, si sa, l’assioma deve valere a 360: il giudice è sospetto!
Le politiche di sicurezza vengono declinate in due modi: come diritto alla sicurezza dei cittadini, ovvero come sicurezza dei diritti dei cittadini.
Nel primo caso, come dominante, la sicurezza viene assunta come diritto primario; nel secondo, solo come diritto secondario ed eventuale. Nel primo senso, è privo di contenuti “oggettivi” specifici, che non siano cioè pienamente realizzabili ove effettivamente si garantisse la piena sicurezza dei cittadini. E allora, che cosa indica di pi e di diverso il diritto alla sicurezza cittadina rispetto alla sicurezza dei diritti dei cittadini? Forse, di pi indica un nuovo diritto ad essere rassicurati, un diritto pubblico; di diverso: la sicurezza è un bene sempre pi privato e come tale negoziabile nel libero mercato.
E’ questa, una delle tante contraddizioni, non solo teoriche, in cui ci si imbatte quando si scelgono parole d’ordine estrapolate dal contesto discorsivo sui valori della nostra Costituzione.
Dunque, l’obbligatorietà di garantire la sicurezza dei diritti di cittadinanza che troverà una prospettiva probabile nel particolare approfondimento di azioni giudiziarie – pilota anche su questioni di cruda violazione dei diritti umani inquadrabili in una sorta di “statuto dei diritti degli esclusi” al quale, col nostro solito impegno, dovremo metter mano.
Tutto si tiene o tutto si perde. . . Claudio Castelli ha dedicato un capitolo della sua relazione all’antico comandamento: “Tu non uccidere”. Ha profetizzato David Maria Turoldo: “…prima si uccide la dignità e la coscienza, poi lo stomaco e le braccia, poi la civiltà diventa un cimitero. Tutte le guerre i poveri le hanno fatte perch non le hanno scelte e i poveri le hanno pagate di pi. . .”
E dunque . . . tutto si tiene o tutto si perde!


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