La ricerca del confronto

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Non è un’operazione facile dare oggi una collocazione ed una identità precisa all’esercizio quotidiano della giurisdizione: sicuramente, non lo è per tutti quei magistrati che non sono abituati a ragionare collettivamente, e che comunque non sentono il bisogno di trovare luoghi e momenti di confronto, all’esterno ed all’interno della corporazione.
D’altra parte, lo sappiamo bene, la ricerca del confronto non appartiene certo a questo modello di giudice che è oggi esaltato ed enfatizzato dalla comunicazione di massa. Un modello che appare anch’esso asservito alla logica maggioritaria, e che viene rappresentato come l’unico in grado di coniugare efficienza e rispetto della volontà popolare, alla quale, abbiamo anche sentito dire, è subordinato, e nel nome della quale solo, leggiamo da poco nelle nostre aule, quasi come un memento mori, è legittimato ad esercitare la giustizia.
La mia impressione è però che la ricerca del confronto si affermi con difficoltà anche presso chi la giustizia la esercita oggi, in nome della legge e della Costituzione vigente: e dunque presso quelli che come tutti noi, oggi si trovano ad operare, come esordiscono le Tesi preparatorie a questo congresso, all’interno di quell’osservatorio privilegiato della società, che è la giurisdizione.
Mi si obietterà facilmente che da sempre esistono i magistrati che dall’osservazione della società e delle sue trasformazioni si ritraggono, convinti che a loro spetti l’applicazione della regola, e non la comprensione della realtà.
Ma quello che noto oggi, il pericolo che si fa concreto, è un ritrarsi prudente e timoroso tra le rassicuranti anse della interpretazione consolidata, al riparo della forza del precedente conforme, della prassi comune, della bandiera tanto fortemente agitata della certezza del diritto, come se questa giustificasse l’appiattimento interpretativo.
D’altronde, qual’è lo scenario? è quello dominato dal fascino magnetico che esercita la forza, la forza urlata e minacciosa di questa politica che ignora i limiti pi elementari della separazione dei poteri e che minaccia apertamente le sue vendette (da ultimo, le molte azioni disciplinari per i magistrati politicizzati), e quindi, come necessario contraltare, fa brillare da lontano il premio per i fedeli, o anche solo per i neutrali: il premio che porterà quelli “bravi” in Cassazione, secondo il progetto di riforma dell’ordinamento, e che lascerà i meno bravi, o i cattivi, a seconda delle scale di valori che si vogliano adottare, a gestire il conflitto diretto, come se questa fosse la parte meno nobile e meno qualificante del rendere giustizia.
Ma stiamo all’oggi: mi interrogo da un po’ di tempo a questa parte se l’esercizio della giurisdizione davvero ci collochi, mi collochi ancora all’interno di quell’osservatorio privilegiato sulla realtà in cui credevo di essere solidamente radicata. Lo dico per quel che riguarda la mia esperienza specifica, che è quella di giudice del lavoro, chiamato quindi ad affrontare la conflittualità di un mondo che per sua natura evolve e si modifica con rapidità, ma pur sempre avendo a propria disposizione uno strumento processuale volutamente rapido e capace di modellarsi su realtà in evoluzione.
Per non rimanere su termini astratti, e poco efficaci, vi affido la riflessione sul fatto che a Torino, i cui assetti economici e sociali sono stravolti dalla crisi FIAT, ad oggi non sono stati presentati ricorsi contro le collocazioni in Cassa Integrazione di centinaia di lavoratori, che pure non sono state precedute da alcun accordo in sede sindacale.
Non saprei nemmeno rispondere se mi venisse chiesto da dove parte questo processo di estraniamento ed allontanamento: se dalla società nei nostri confronti, come il portato naturale di un senso di sfiducia nella capacità della giurisdizione di risolvere veramente i bisogni di giustizia, di dare risposte utili, che riescano a tradursi in un miglioramento nelle condizioni di vita del singolo; o se dall’interno della corporazione che si ritrae, che arretra, che risponde alla sfiducia collettiva ed alla delegittimazione aperta e volgare con il chiudersi nelle proprie prerogative di categoria, se non di casta, in pratica ritenendo che se è un giudice burocrate che si vuole, in fondo non è così difficile accontentare questa aspirazione che sembra ormai dominante.
Vi porto due esempi: non ho ancora avuto controversie il cui oggetto fosse la nuova legge sui contratti a termine, il D.Lgvo 368/2001, rispetto al quale, ad una prima lettura, mi sembrava evidente il sospetto di legittimità costituzionale, quantomeno sotto il profilo dell’eccesso di delega.
Lo scarso contenzioso portato nelle aule di giustizia rispetto alle modalità con cui il cittadino extracomunitario può ottenere la regolarizzazione della sua permanenza in Italia, non è comunque sfociato nella questione di costituzionalità che può configurarsi nei confronti di un sistema che affida ad un atto meramente potestativo di un privato, il datore di lavoro, la possibilità per il lavoratore extracomunitario di poter godere di uno status di rilevanza pubblica, quale la regolarità del soggiorno, in pratica facendone davvero il padrone assoluto del lavoratore, per il quale la mancata assunzione significa l’espulsione, come scrive Livio nel suo intervento sull’ultimo numero di Diritto Immigrazione e cittadinanza.

Le mie personali risposte ? Mi capita spesso di rileggere, perchè è così bello sin dal titolo, l’intervento che fece Carlo all’ultimo congresso, “L’orgoglio di appartenere a Magistratura democratica”. Lo hanno citato in tanti Carlo, lo hanno ricordato in tanti, altri lo faranno ancora, perch, lo sapevamo, questo congresso era destinato a diventare anche un luogo della memoria e del ricordo.
Lo farò anch’io, correndo il rischio, sono già stata pubblicamente rimproverata, di apparire retorica, quando davvero la retorica non c’entra niente ma c’entrano l’affetto, la riconoscenza, ed il rimpianto.
E nelle parole di Carlo trovo tante risposte alle mie difficoltà nel dare oggi un ruolo ed una collocazione all’esercizio della giurisdizione, ritrovo il suo percorso che dalla giurisdizione parte, e non dalla politica, per approdare a questa, e per giungere alla conclusione che davvero, se si riflette, è l’unica possibile, è la nostra forza ed il nostro senso: la politica sta nel nostro rendere giustizia quotidiano, sta nel dare un luogo, oppure negarlo, alla possibile affermazione di valori che si misurano sul metro del diritto e dei principi della Carta Costituzionale.
O le porte delle nostre aule restano aperte a queste istanze, di affermazione dei valori e dei diritti che da soli non trovano la forza di affermarsi, o veniamo chiusi fuori noi, viene tagliata fuori la giurisdizione, si chiudono i canali attraverso i quali viene portata la richiesta di giustizia, e noi, come magistrati, diamo finalmente un senso al nostro ruolo ed alla nostra collocazione.

O lasciamo aperta all’esterno la porta attraverso cui verificare le scelte organizzative che condizionano il nostro lavoro, oppure non abbiamo possibilità di far capire al pubblico che ci chiede efficienza, quale efficienza siamo in grado di dare e di quali contenuti la vogliamo riempire. Il Tribunale di Torino, per esempio, per precise scelte dirigenziali in questi anni del recupero di efficienza ha fatto il vessillo sbandierato, molto all’esterno, ottenendo anche risultati, apprezzabili numericamente, che bene sono stati spesi, ma che nulla dicono a quali condizioni sono stati raggiunti: isolamento del singolo, valutazione del suo lavoro in termini meramente quantitativi, indifferenza per i contenuti ed esaltazione dei numeri. Non è un caso, mi pare, che a Torino non attecchisca un’iniziativa bella ed importante come quella degli Osservatori sulla giustizia.
E’ questo quello che davvero ci viene chiesto da chi si rivolge a noi non strumentalmente, avendo in realtà in testa un piano di limitazione della nostra autonomia e della nostra indipendenza, agitandoci davanti come forma di ricatto i ritardi e le insufficienze del servizio, ma da chi invece ci porta i propri bisogni reali, concreti, quotidiani? Io non lo credo: credo che sia nostro dovere sforzarci per quanto ci è possibile, per spiegare come intendiamo il nostro ruolo e come vorremmo ricoprirlo, per spiegare che è giusto pretendere che sia il giudice a comprendere quanto di nuovo avviene nella società, e non che siano i bisogni concreti a dover per forza rientrare nei suoi schemi formali ed organizzativi.
Anche un’esperienza con molti limiti, e forse con qualche margine di ingenuità, come quella costituita dall’opuscolo preparato dalla sezione piemontese questa primavera, in occasione dello sciopero, ha dimostrato in fondo quanta gente sia disposta ad ascoltarci per condividere le nostre ragioni: così come d’altra parte ha dimostrato quanto faccia bene anche a noi di tanto in tanto metterci di fronte alla necessità di spiegare all’esterno concetti molto semplici, ma che si legano tutti ad un’unica evidenza: quella della politicità della giurisdizione, perchè sulla collettività ricadono le nostre carenze e le nostre insufficienze, ma infine perchè alla collettività appartiene quel patrimonio di diritti che siamo chiamati a tutelare.

E per tornare, e concludere, alle parole di Carlo, davvero sono convinta e continuo a credere che questo patrimonio comune di idee e di valori, che ci porta ad essere oggi qui insieme ed a riconoscerci tutti in magistratura democratica, così come, d’altra parte, dall’esterno a volte anche con toni sinistri e minacciosi siamo identificati, sia quello che dà un senso riconoscibile alla nostra azione: nei nostri uffici, nelle istituzioni rappresentative, nell’associazione.
Ma è forse un caso che i migliori Presidenti della Giunta negli ultimi anni, Paciotti e Bruti Liberati, siano di md? Ma è un caso che solo la netta chiusura dell’esperienza Patrono, e la ripresa di una salda linea politica alla guida dell’ANM, ci abbiano tirato fuori dalle pastoie di una trattativa con il governo in cui in realtà si stava trattando del nulla perchè si era già fuori di ogni margine di trattativa?
Questa unità ci costa molti sforzi, è evidente, e molta saldezza, perchè sappiamo tutti che dietro la facciata si stanno muovendo molti giochi, alcuni leggibili, altri meno, ed anche in occasione dell’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario se ne è avuto qualche esempio.
Io credo nel ruolo di testimonianza, ma ci credo fino ad un certo punto, e soprattutto ne sono appagata solo fino ad un certo punto: credo però nella coerenza di una linea politica che ha chiari i valori e le poste in gioco. Credo che questa coerenza e questa chiarezza siano vincenti, e comunque siano irrinunciabili: e proprio in questo sta l’orgoglio, per quel che mi riguarda prima di tutto la necessità, di appartenere a magistratura democratica.

23 01 2003
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