Democrazia, anche in Italia

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Devo innanzitutto dire che sono stato abbastanza sorpreso da alcuni degli ultimi interventi che hanno tratteggiato una situazione piuttosto fosca per lo stato democratico di diritto. Ho sentito parlare di declino, crisi, stravolgimento con riferimento non solo all’Italia ma in generale ai paesi occidentali. Credo che se si allarga un po’ la prospettiva – e non ci si concentra solo su qualche iniziativa dell’attuale maggioranza di governo o sulle restrizioni alle libertà civili introdotte negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 – il giudizio debba essere diverso.
Negli ultimi 15-20 anni il numero di paesi che si sono dati un assetto democratico costituzionale è notevole: in Europa orientale e in America Latina c’è stato un enorme miglioramento delle libertà civili e politiche e anche in Asia si assiste ad una tendenza in questa direzione. Certo, talvolta si tratta di regimi democratici che non possiamo considerare consolidati o in cui permangono gravi abusi e frequenti violazioni dei diritti. Esistono poi aree come l’Africa – ma si pensi però al Sud Africa – dove non si segnalano miglioramenti. Anzi. Lo stesso mondo arabo è ancora caratterizzato prevalentemente da regimi pi o meno autoritari. Ma, pur con queste precisazioni, non credo si possa negare che gli ultimi anni abbiano segnato in realtà un’espansione della democrazia e del costituzionalismo.
Forse, molto del pessimismo va collegato ad un eccessivo concentrarsi sulla situazione italiana e sull’ascesa al governo di una nuova maggioranza, dopo le elezioni del maggio del 2001. Non starò qui a negare l’ostilità che buona parte di questa maggioranza ha espresso nei confronti della magistratura o anche le critiche che possono essere fatte ad alcuni dei provvedimenti varati in questi mesi (anche se, se si guarda alla sostanza, non vanno sopravvalutati). Prendendo però spunto proprio dalla parte finale della relazione di Claudio Castelli, voglio qui porre l’accento alcuni aspetti, alcune novità avvenute nel sistema politico e le loro conseguenze per i rapporti con la magistratura.
Fino al 1992, durante quella che per brevità possiamo chiamare la Prima Repubblica, i rapporti fra magistratura e politica erano caratterizzati da grande stabilità. I partiti al governo erano pi o meno sempre gli stessi e anche l’opposizione era sostanzialmente rappresentata dallo stesso partito – il Pci - dato che il Msi contava poco o nulla. Il processo legislativo era quindi sostanzialmente determinato dai partiti di governo e dal Pci che, pur non essendo al governo, vi poteva esercitare una notevole influenza, specie in materia di amministrazione della giustizia. Le elezioni non segnavano mutamenti radicali ma solo piccoli aggiustamenti nei rapporti di forza fra i partiti. La magistratura quindi si confrontava sostanzialmente sempre con la stessa classe politica. Non che non mancassero tensioni o conflitti ma la stabilità dei principali protagonisti rendeva pi facile trovare una composizione. Anzi, negli anni la magistratura, sviluppando una serie di contatti con tutto l’arco politico, era riuscita ad ottenere numerosi risultati. Si pensi solo all’abolizione della carriera, alla riforma proporzionale della legge elettorale del Csm e al miglioramento del trattamento economico.
L’assetto che oggi abbiamo di fronte è invece radicalmente diverso. Dopo la grande crisi del 1992, buona parte della classe politica è stata sostituita: il tasso di rinnovamento del personale parlamentare ha raggiunto percentuali altissime, oltre il 70%. Con le elezioni del 1996 è iniziato poi ad affermarsi un assetto bipolare che si è rafforzato con le elezioni del 2001: per la prima volta nella nostra storia una maggioranza di governo è stata interamente sostituita dall’opposizione in seguito da un’elezione. Ma questo non è l’unico elemento da sottolineare. La coalizione di centro-sinistra presentava un grado di continuità col passato molto maggiore e, anche per questo, era in grado di avere rapporti migliori con la magistratura. Infatti, durante la scorsa legislatura molti esponenti della magistratura associata hanno collaborato con i ministri della Giustizia, anche se la cosa non ha impedito tensioni fra la magistratura e i partiti del centro-sinistra, per esempio durante la commissione Bicamerale.
Dopo il 2001 al governo è salita una classe politica radicalmente diversa. Rispetto a quella di centro-sinistra si tratta di una classe dove gli esponenti della Prima Repubblica sono molto meno numerosi e comunque hanno meno esperienza di rapporti con la magistratura. Si pensi ad esempio ad Alleanza Nazionale, erede del vecchio Msi, che mai aveva avuto rappresentanti nel Csm prima del 1994. Quindi, anche senza considerare le stranote vicende giudiziarie del Presidente del Consiglio e di alcuni suoi collaboratori, che fra l’attuale maggioranza e la magistratura vi siano forti tensioni non dovrebbe certo stupire.
In linea di principio, un assetto bipolare non comprime necessariamente il ruolo della magistratura. Ci sono ottime ragioni per ritenere che la ristrutturazione maggioritaria debba riguardare il legislativo e l’esecutivo e del resto “federalismo” o “devoluzione” significano disperdere il potere e rafforzare il ruolo arbitrale degli organi giudiziari. Ma il bipolarismo, se ben funzionante, implica l’alternanza e quindi pi o meno radicali ricambi alla guida del governo. Per questo è molto pi importante di un tempo per la magistratura essere in grado di prendere le distanze, almeno relativamente, dal sistema politico, dalla politica. Infatti, identificarsi a torto o a ragione con una certa parte politica non può non creare problemi nel momento in cui questa parte deve cedere il potere. I nuovi venuti non potranno non vedere con profonda diffidenza chi ha “collaborato” con i governi di altro colore, dato che anche una semplice collaborazione tecnica può avere significato politico.
A questo punto però la questione diventa: è possibile per la nostra magistratura prendere le distanze dalla politica? E in che modo? E soprattutto: è in grado di sostenere il relativo isolamento che ne può derivare? Numerose analisi hanno ormai messo in luce che una magistratura può essere realmente indipendente non solo quando dispone di adeguate garanzie ma soprattutto quando gode di un forte sostegno nella società, sia in generale sia presso specifici gruppi di interesse (e il riferimento è spesso all’avvocatura e ai gruppi che operano a difesa dei diritti civili, specie negli Stati Uniti).
In generale, non si può dire che la nostra magistratura goda oggi di grande consenso. E' un’affermazione che non si basa su sondaggi pi o meno interessati ma sui dati forniti da una fonte autorevole come l’Eurobarometro. Ebbene, gli italiani sembrano avere un grado di fiducia molto basso nei confronti del proprio sistema giudiziario, anche se il nostro Paese è in buona compagnia dato che tutte le giustizie dell’Europa latina escono male dai sondaggi (anzi, quella italiana è forse quella che se la cava meno peggio). Comunque, se è vero che questi dati indicano che il male non riguarda solo l’Italia, resta che la fiducia nei confronti della nostra giustizia è comunque molto bassa. Quali ne possono essere le ragioni? Probabilmente sono molte e in parte hanno a che vedere con il difficile rapporto dei cittadini con lo Stato e con tutti gli apparati amministrativi. Ce ne sono però alcune, credo, specifiche della nostra istituzione giudiziaria.
In primo luogo non bisogna dimenticare il contesto in cui oggi la magistratura si trova ad operare. Detto in breve, un contesto che anche in Italia è ormai contrassegnato dall’affermarsi della cosiddetta “società orizzontale” e della “rivoluzione dei diritti” che la accompagna. E' una società che mette l’accento sui diritti dell’individuo – piuttosto che sulla solidarietà, anche se alcuni continuano a richiamarsi a questo valore – e che tende a generare aspettative sempre pi elevate nei confronti dell’amministrazione della giustizia. Il cittadino, a torto o a ragione, si aspetta che il sistema giudiziario dia una risposta chiara, sollecita, e magari positiva, alle sue lagnanze. Sempre pi difficile diventa allora per il giudice richiamare le responsabilità altrui per il cattivo funzionamento dell’apparato.
E' quindi evidente l’importanza che assume l’efficienza del sistema giudiziario, ed in particolare la durata dei processi. E qui, come è noto le cose non vanno bene. Ormai non c’è molto da dire su questo tema. Anche se forse i dati non sono così brutti come talvolta ci vengono presentati, ci segnalano comunque una situazione di grave sofferenza. Sofferenza aggravata anche dalla scarsa ospitalità che la nostra giustizia, al pari degli altri apparati pubblici, mostra nei confronti di coloro che con essa hanno a che fare. Se vogliamo per un momento adoperare un termine molto in voga, possiamo dire che la nostra giustizia non sembra brillare per “orientamento al cliente” e i risultati si vedono.
Ma ci sono altri punti da segnalare. Prendiamo, ad esempio, il reclutamento. E' rimasto pi o meno quello della fine dell’Ottocento: un concorso che mira ad accertare esclusivamente le conoscenze tecnico-giuridiche. Non dico naturalmente che non sia necessario farlo. Mi domando se basti. Se l’esperienza professionale debba continuare a contare nulla. E poi se un magistrato al giorno d’oggi possa svolgere con successo i compiti sempre pi complessi che si trova davanti con una preparazione solo giuridica, senza disporre di un metodo per acquisire quelle conoscenze di tipo extra-giuridico che ormai gli sono indispensabili. Non è certo solo un problema solo italiano ma solo da noi ha ricevuto un’attenzione così scarsa.
Vi è poi il problema dell’obbligatorietà dell’azione penale e della cosiddetta separazione delle carriere. Sul primo aspetto credo che non sia possibile sostenere che la mera presenza del principio di obbligatorietà nella nostra Costituzione sia in grado di cancellare la discrezionalità. Non solo, rilevanti spazi di discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale non sono cancellabili, a meno di non ridurre il pubblico ministero ad un passacarte della polizia. Di fronte alla crescente attenzione di un’opinione pubblica sempre pi esigente è quindi necessario che la magistratura requirente si attrezzi a rispondere su come questa discrezionalità è stata esercitata. Naturalmente, questo non vuol dire che il meccanismo di responsabilità – l’accountability, la resa di conto – debba essere di tipo politico, magari in capo al ministro come un tempo. In questo senso il principio costituzionale potrebbe essere inteso proprio come volto ad evitare questo tipo di controllo politico ma non qualunque forma di rendiconto.
Quanto poi alla separazione delle carriere, una netta separazione fra pubblico e giudice non può che fare bene alla magistratura e alla sua immagine. Il fatto che pubblico ministero e giudice appartengano allo stesso corpo – votino per lo stesso Csm, appartengano alla stessa associazione, e così via - non può che mettere in dubbio l’imparzialità di quest’ultimo e quindi danneggiare l’immagine di tutta la magistratura. L’adozione di un modello processuale tendenzialmente accusatorio spinge necessariamente in questa direzione. Certo, il discorso potrebbe essere diverso se si intendesse ritornare ad un assetto tendenzialmente inquisitorio. Mi sembra però che ben pochi lo propongano oggi e non bisogna dimenticare che questo modello richiede una legittimazione molto pi forte del giudice, che in questo caso non può avvantaggiarsi del tutto della logica di risoluzione dei conflitti che si basa sull’intervento di un terzo imparziale.
Per riassumere, la magistratura italiana ha senz’altro esercitato in taluni momenti un notevole potere e ancora di questo potere in buona parte dispone. Non è però un’istituzione forte, ha un debole consenso e molti dei suoi caratteri strutturali le rendono difficile migliorarlo. Molta della sua forza è stata acquisita grazie a legami con la politica ma anche grazie alla debolezza della politica. Oggi, se la tendenza all’affermarsi di un assetto bipolare continuerà – perch non bisogna nascondersi che il futuro potrebbe riservarci delle sorprese – le vecchie strategie di ricerca del consenso nella classe politica possono risultare rischiose e soprattutto insufficienti. Una magistratura può essere indipendente solo se gode di un forte sostegno nella società.
La realtà è che la nostra magistratura non ha mai rotto del tutto con la tradizione napoleonica, quella di un apparato dello Stato strettamente collegato al potere politico. Abbiamo solo cambiato alcuni pezzi – aboliti o comunque fortemente ridotti i poteri del ministro e dell’alta magistratura - ma non il modello di una magistratura rigidamente separata dalle altre professioni legali e dalla società stessa. Qui è la radice della fragilità della magistratura italiana. In certi momenti, di fronte alla maggiore debolezza degli altri poteri dello Stato, questa situazione si è trasformata in una posizione di forza. Ma, per proteggere la nostra libertà, non possiamo certo augurare alle nostre istituzioni uno stato di perenne debilitazione. E' opportuno rafforzarle, tutte.

24 01 2003
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