Pubblicato su Magistratura Democratica (http://old.magistraturademocratica.it/platform)

Una “questione costituzionale”

  1. “Nel momento in cui sembra chiudersi la infinita transizione italiana … ricongiungendosi la figura del Premier con quella del Leader della maggioranza, si affacciano fondati timori sulla stessa sopravvivenza della forma di Stato democratica quale emerge dalla interpretazione cinquantennale della Costituzione repubblicana. Ciò spiega quella fortissima “divisione interna” … che a tratti appare persino pi aspra di quella verificatasi in alcuni periodi della guerra fredda. Al dato della separazione ideologica… subentra un mix di questione morale e di questione costituzionale”. Queste affermazioni non sono l’eccesso verbale di un girotondino in vena di esagerazioni polemiche, ma sono il frutto della riflessione di un insigne costituzionalista, Leopoldo Elia, che appartiene ad un’area di pensiero che possiamo definire, senza tema di smentite, moderata.
    Esse sono state riprese dalla Relazione di Mario Dogliani all’ultimo Convegno dell’Associazione italiana dei costituzionalisti col titolo “Interpretazione costituzionale e politica costituzionale”, nella quale ha scritto che “… volendo tentare una definizione che colga il cuore delle cose, si deve dire che il vero oggetto del contendere è oggi la continuazione, o il contenimento, della revanche che una parte della società italiana si sta prendendo nei confronti dell’altra. Il pomo della discordia sono le garanzie che si frappongono al dilagare di quella che il linguaggio delle scienze sociali definisce pacificamente (con parole che però in Italia si stenta a pronunciare) come dittatura della maggioranza” , per concludere, conseguentemente, che “ammettere che, in Italia, sia aperta una "questione morale e costituzionale" è un giudizio di fatto, che non è qui il caso di illustrare, tanto ne sono noti i termini”.

    Lo stesso Presidente della Corte costituzionale Cesare Ruperto, giunto al termine del suo mandato, ha avvertito la necessità di riaffermare, dopo oltre cinquanta anni di Costituzione repubblicana, il connotato essenziale dello stato di diritto costituzionale, sottolineando che “Il regime democratico non è soltanto governo della maggioranza, ma anche tutela di valori fondamentali, che non possono venire lesi dalla maggioranza stessa, senza che una Corte di garanzia possa e debba intervenire per restaurarli”.

    Mi sembra quindi che siano numerosi e gravi i segnali che ci avvertono che la vita pubblica del nostro paese ha imboccato una strada, diversa dalle precedenti, e sotto molteplici aspetti molto pi pericolosa di quelle, già preoccupanti, che conosciamo da almeno venti anni.
    Se assumiamo come “vere” le affermazioni di Elia e Dogliani, penso che dobbiamo provare a ragionare sulla questione costituzionale aperta, e dobbiamo farlo allargando lo sguardo dalla questione giustizia, la prima che ci concerne, è ovvio, come magistrati della Repubblica, ma che certamente non esaurisce il tema; in altre parole proverò a ragionare “come se” i problemi aperti non fossero l’indipendenza della magistratura e la separazione delle carriere, argomenti che, ovviamente, sono di grande interesse, ma che rischiano, in qualche modo, di sviare il discorso. Nel quadro di una generale questione costituzionale, infatti, la legislazione ad hoc o ad personam, i processi di Milano, gli attacchi a questo o quel magistrato, a questo o quell’ufficio, persino la ventilata separazione delle carriere, non costituiscono l’unico orizzonte di una discussione che dovrebbe pi compiutamente riguardare il ruolo di tutte le istituzioni di garanzia, e quindi anche della giurisdizione, nella società contemporanea e, quindi, nell’epoca di un maggioritario senza qualità.
    Ritengo infatti che il processo di “decostituzionalizzazione” della Repubblica sia pi ampio di quanto possa apparire guardando alla sola “questione giustizia” e che, sotto il profilo qui accennato, guardando a ritroso a quel che è accaduto nell’ultimo decennio, le differenze nelle politiche costituzionali perseguite dai due schieramenti che si sono, bene o male, alternati alla guida del governo siano meno profonde di quanto si vorrebbe far credere e che vi sia una continuità tra le ultime due legislature, sottacere la quale sarebbe ingenuo.

  2. In particolare, qui ed ora, nel Congresso di Magistratura democratica, dobbiamo chiederci se sia ancora, oltre che necessario, sufficiente, il forte richiamo alla Costituzione del 1948 che siamo soliti inserire, a volte un po’ ritualmente, nei nostri documenti, richiamo che, nelle sue versioni pi “alte”, si è rifatto non tanto e non solo agli enunciati normativi del testo della Carta, quanto piuttosto a quel “comune sentire costituzionale” che è stato il frutto di operazioni interpretative (ricordo solo quelle, fondamentali, sulla giuridicità, con conseguente immediata precettività, di tutte le disposizioni della Carta e sulla interpretazione adeguatrice), ma ancor pi alle politiche costituzionali che sono state possibili grazie a quelle interpretazioni.
    Siamo sicuri che una tale affermazione di fedeltà sia ancora in grado di orientare la cultura dei magistrati e, attraverso questa, influenzare il concreto atteggiarsi della giurisdizione ? e quando ci rivolgiamo oggi ai giuristi ed ai colleghi, sono ancora validi i riferimenti (che appartengono alle nostre stesse radici) al “valore” del testo del ’48, alla fedeltà a quell’interpretazione della Costituzione che ha costituito per alcuni decenni il forte ancoraggio normativo, prima della emancipazione attraverso (anche) il diritto e la giurisprudenza, quindi dell’intransigente difesa di quel modello di fronte ai non dissimulati tentativi di un suo “superamento” che hanno costellato l’esperienza storica italiana, dagli anni del craxismo trionfante sino alla esperienza della Bicamerale ?
    In altre parole - ed al di là del fatto che la distanza da quell’avvenimento è fatta ormai di un tempo che possiamo definire storico – nell’emergere in forme inedite della “questione costituzionale”, sono ancora sufficienti e spendibili gli argomenti di Gardone ? Sono ancora utili, per una interpretazione costituzionale che si traduca in argomenti non storici, ma calati nella realtà, gli articoli di Mortati, Barbera e Romagnoli, pubblicati sul primo volume del Commentario Branca nel 1980, che assumo simbolicamente come la rappresentazione di un modello giuridico costituzionale che oggi, forse, è tramontato?

    La situazione è in larga parte “nuova”, perch la storia italiana recente vede - dopo un lungo periodo (grossomodo gli anni 80), nel quale, in qualche modo, la sinistra “ha tenuto” sui principi (anche se spesso ha ceduto su aspetti non secondari delle politiche sociali) e non sono state seriamente messe in discussione le conquiste precedenti - una fase caratterizzata dalla perdita, spesso fatta di cedimenti progressivi ad una pretesa “modernità”, del senso e del valore delle conquiste fatte in un cinquantennio, con la conseguente perdita dello stesso valore della carta del 48, ed è ormai emersa una concezione tecnocratica e procedurale della democrazia; ed è la fase che stiamo vivendo.
    Con la vittoria della destra ora le carte del gioco sono scoperte; per la prima volta sono al governo, con un’ampia e stabile maggioranza (anche se, probabilmente, non si tratta di un vero blocco sociale) forze dichiaratamente a- se non apertamente anti- costituzionali, che perseguono un disegno sociale revanscista, dalla patina neo-liberista ma in realtà di tipo populista e sostanzialmente antidemocratico.

    Credo che delle trasformazioni avvenute nella costituzione materiale e nel tessuto sociale del paese, e di quelle ancora peggiori che sono in cantiere, nel suo piccolo anche MD, come del resto la sinistra e molti giuristi di area democratica, si siano accorti in ritardo; un po’ perch le carte si sono definitivamente scoperte da non troppo tempo, con l’aperta vittoria elettorale della destra, un po’ perch alcuni avevano (come tuttora hanno) lo sguardo appannato e confidavano che le tendenze in atto fossero in qualche modo contenibili, magari a prezzo di compromessi “a perdere” su singoli punti, nella speranza di salvare il quadro di insieme.
    Credo invece che si possa affermare che ormai la Costituzione vigente in Italia, a testo apparentemente invariato nella maggior parte dei suoi enunciati, sia in realtà diversa da quella vigente sino ad un decennio fa, essendo mutato il quadro di riferimento di tutti i fattori concorrenti di cui ho detto; e dobbiamo seriamente chiederci quale ruolo abbia la giurisdizione in una democrazia che ha imboccato una strada maggioritaria, con un’attrezzatura di garanzie costituita da istituzioni pensate, invece, in un sistema parlamentare pluralistico e proporzionale.

    Dovremmo poi anche ragionare sul fatto che la Costituzione ha perso efficacia sia verso “l’alto” (il diritto comunitario) che verso “il basso” (la c.d. riforma in senso federalista), riguardando tale perdita, soprattutto, i diritti di prestazione e quelli sociali in genere, al cui riconoscimento effettivo concorrono i limiti imposti dalla legislazione (ma, in sostanza, i vincoli di bilancio) comunitaria e il fatto, non secondario, che i servizi si trovano allocati sempre pi sul piano delle decisioni affidate alle regioni e non alla Stato.

    Vi sono state, infine, nel periodo – tutto sommato breve - delle ultime due legislature, politiche costituzionali che hanno accomunato, negli atteggiamenti se non nei contenuti, la vecchia e l’attuale maggioranza, ed alcuni indubbi momenti di tensione cui è stata sottoposta l’idea stessa dello Stato costituzionale di diritto che conoscevamo: provo ad elencare:

    • l’esperienza della Bicamerale, col suo sviamento di competenza (non avrebbe dovuto trattare di giurisdizione, invece ha fatto di questo tema il centro della discussione) e col suo successivo fallimento; essa ci ha lasciato frutti avvelenati, tra i quali, sotto il profilo della Costituzione formale, resta il pericoloso precedente di una procedura di revisione al di fuori dell’art. 138, e, sotto il diverso profilo delle politiche costituzionali, l’idea sia di una generale inadeguatezza del testo vigente che (visti gli esiti) di una evidente impotenza della politica ad attuare modiche di ampio respiro;

    • la “rivolta” del parlamento contro la Corte costituzionale a seguito della sentenza n. 361 del 1998, con la successiva frettolosa approvazione della legge costituzionale n. 2 del 1999 sul c.d. giusto processo, dopo un dibattito che è stato di straordinaria pochezza in Parlamento e nullo nel Paese, e che, al solo scopo di ingabbiare future interpretazioni da parte della Corte in senso diverso dalle intenzioni del Parlamento, ha partorito il nuovo art. 111, un testo sul quale non mi soffermo se non per dire che esso contiene alcune insidie, specie nei commi 1 e 2, e che appare costituito da enunciati normativi tipici di una legge ordinaria e non di una costituzione;

    • una legge costituzionale di fondamentale importanza, quale quella di riforma del Titolo V, approvata nella scorsa legislatura in tempi stretti, senza un reale dibattito, con maggioranze risicate o risicatissime, in un testo che appare, quantomeno, poco meditato, senza neppure il tempo di approntare gli schemi dei necessari decreti delegati, e che ha creato il precedente, assai grave, di una costituzione modificata a colpi di maggioranza, ora sfruttato dal centro destra con la sua proposta di c.d. devolution; sul c.d. federalismo e sulle sue ricadute sulla tutela dei diritti dei cittadini abbiamo riflettuto troppo poco, anzi forse non abbiamo riflettuto per niente;
    • a sollevazione di parlamentari e membri del Governo di centro sinistra - e la coeva incredibile iniziativa ex art. 2 del consigliere Gallo al CSM - contro le ordinanze dei giudici milanesi sui Centri per immigrati, atti da qualificare come una censura di merito ed una vera e propria interferenza su di un aspetto essenziale della funzione giurisdizionale, e cioè sul potere/ dovere del giudice di vagliare la conformità di una legge alla Costituzione e di sottoporre il suo dubbio alla Corte Costituzionale;
    • quindi, nell’attuale legislatura, la mozione del Senato del 5 dicembre 2001 sul preteso dovere di interpretare secondo la volontà del legislatore storico la nuova legge sulle rogatorie; cui si unisce l’inedita vicenda, persino difficile da raccontare, di una procedura penale di continuo modificata per iniziativa di deputati/ imputati e dei loro deputati/ difensori; le leggi ad hoc e ad personam costituiscono una negazione della stessa funzione della legge, generale ed astratta, e del suo rapporto con l’attività interpretativa del giudice;

    • la riforma della giustizia amministrativa, attuata con la l. 21 luglio 2000, n. 205, e la conseguente sottrazione al controllo del giudice ordinario delle materie trasferite al giudice amministrativo, col risultato di ottenere un indebolimento forse irreversibile della giurisdizione ordinaria.
    • a guerra e l’art. 11 della Costituzione, affidato ormai ad interpretazioni di comodo, dalla “guerra umanitaria” in Kosovo alla campagna “enduring freedom”, sino alla “guerra preventiva”;
    • l’eclisse dell’art. 27 Cost. e del dover tendere la pena alla rieducazione del condannato; la norma è ormai totalmente schiacciata tra le politiche securitarie ed una gestione al ribasso dell’esistente, secondo una linea di continuità tra le due ultime legislature;
  3. Da queste, in parte eterogenee, vicende, mi pare che emerga il fatto che per la dimensione della politica la Costituzione sia ormai una legge (quasi)uguale alle altre, solo un po’ pi complicata da cambiare.
    Emergono del resto in dottrina, non solo italiana, letture minimaliste della Costituzione, del ruolo delle Corti costituzionali, del ruolo della giurisprudenza ordinaria, che puntano apertamente alla espunzione della interpretazione adeguatrice, ovvero interpretazioni “proceduraliste” della Costituzione, intesa come mera legge attributiva di competenze e che regola i conflitti tra enti e poteri. Al già ricordato Convengo annuale dei costituzionalisti, il prof. Augusto Cerri, nella sua relazione, ha senza mezzi termini caldeggiato un “passo indietro” della Corte nei suoi rapporti (da sempre necessariamente conflittuali) col legislatore, parlando espressamente di “vie ritrovate di una democrazia procedurale.”.

    Mi pare che, se un tema dovrebbe fare da sfondo al nostro dibattito futuro, esso è quello della posizione e del ruolo della giurisdizione (e perciò, di riflesso, “anche” della posizione della magistratura) all’interno del modello di stato che si va delineando, in Italia e in Europa; forse potrebbe essere considerato come una premessa teorica generale, sulla quale poi fondare le tesi su argomenti particolari, pi vicini al sentire quotidiano di chi esercita oggi la funzione giudiziaria.

    Quale base del ragionamento possiamo partire dalle analisi che svolgono Luigi Ferrajoli e Pier Paolo Portinaro nei saggi contenuti nel libro “Lo Stato di diritto”, a cura di Costa e Zolo, e cioè dalla constatazione della crisi sia dello Stato legislativo di diritto, sia dello Stato costituzionale sociale di diritto, e cioè delle due principali esperienze di costruzione della legalità democratica che, nelle esperienze occidentali, abbiamo ereditato dal ‘900; la prima legata ai modelli di Costituzione –procedimento, regolativi dei rapporti classici fra i poteri dello Stato e delle regole sulla produzione normativa; la seconda, propria all’esperienza italiana per come si è concretamente sviluppata (almeno a partire dalla riscoperta della Costituzione della seconda metà degli anni ’50, ch l’esito della disputa non era allora affatto scontata), secondo la quale una Costituzione, oltre alle “regole”, pone dei “fini” all’azione dei pubblici poteri. La crisi risulta evidente nel momento in cui la politica, intesa in senso stretto di rappresentanza dei cittadini attraverso il voto, ha cercato di scaricare la sua crisi di idee, modelli, identità, utilizzando la parola d’ordine del “cambiare le regole”, considerate, comunque, “vecchie”; con una semplificazione che spero mi perdonerete, penso che, prima l’introduzione sciagurata di un sistema elettorale maggioritario, per di pi imperfetto e pasticciato, quindi la Bicamerale, infine una riforma “federalista” poco meditata e frettolosamente approvata a colpi di maggioranza, abbiano rappresentato, in vario modo e con diversi effetti, lo specchio della crisi della politica intesa come progetto generale, ed il trionfo della politica ridotta a semplice tecnica normativa. La formula tante volte ripetuta nell’ultimo ventennio (“chi ha la maggioranza deve essere messo in condizione di governare, con le regole attuali non può, ergo, cambiamo le regole”), scolpisce una situazione di impasse che perdura e che non sembra destinata a finire rapidamente.

    All’interno di questo discorrere di quelle che vengono considerata mere “tecniche” politiche e costituzionali (una Costituzione che viene confinata a sola regola per il procedimento normativo), da un lato si è smarrito il senso della politica in senso alto, dall’altro è iniziata a maturare l’idea che esista un primato della rappresentanza come tale e che tutto il resto debba, in un modo o nell’altro, obbedire alle regole della maggioranza elettorale; da lì la crisi della giurisdizione, almeno come la hanno intesa, in Italia dal Congresso ANM di Gardone (1965) in poi, la migliore dottrina e la magistratura culturalmente consapevole del suo ruolo. E quindi una giurisdizione che non si limita ad applicare acriticamente le regole stabilite dalla politica secondo fini cangianti e volatili cui diligentemente si adegua, condividendoli (l’immagine del “giudice bocca della legge” di cui, ad es., parlò Borrè nel suo bell’intervento al congresso di Napoli 1996), ma che crede che l’ordinamento non esprima solo una sua tecnicità (che oltretutto è andata irrimediabilmente smarrita, col venir meno dei pilastri teorici della “certezza del diritto”, della autosufficienza della tecnica giuridica, della unicità dell’ordinamento organizzato secondo una piramide di fonti e di competenze), ma che cerca anche i fini, e i principi a questi fini correlati, superiori, cui anche il legislatore deve conformarsi a pena dell’illegittimità della norma.
    Tutto questo, questa acquisizione culturale che tanta fatica è costata e che ha pervaso il “modello” di giurisdizione e di magistrato che abbiamo conosciuto, sta, ovviamente, al di fuori dello schema maggioritario e neo liberale; essa non è pi compatibile con una politica nella quale vale la regola: “prendo il potere e faccio quel che voglio”: faccio qualche esempio, che forse varrebbe la pena di riprendere; quando i giudici di Milano attaccarono lo schema processuale della detenzione degli stranieri nei centri (con ordinanze certamente non “illegittime” o rappresentative di una volontà di indebita supplenza, ch il controllo giurisdizionale sull’habeas corpus è uno dei principi liberali pi classici, almeno da trecento anni), essi vennero violentemente attaccati, anche e soprattutto dall’allora maggioranza di centro sinistra, perch avrebbero “scardinato” una legge “voluta dal Parlamento”, rimettendo in discussione accordi politici evidentemente instabili; non mi interessa qui vedere se le ordinanze fossero o meno fondate (e la Corte, relatore Mezzanotte, disse che tanto infondate non erano, se fece un rigetto con interpretazione); mi interessa invece sottolineare lo schema del ragionamento (e del non celato fastidio) dei “politici” verso una forma di controllo di legalità propria dello Stato costituzionale, secondo uno schema che non era nuovo (tutti ricorderanno le sparate ai tempi di Craxi) ma che si esprimeva, questa volta, verso forme tipiche e non supplenti della giurisdizione, e che vedeva per una volta unito quasi tutto lo schieramento parlamentare; la legge votata non si tocca ! qui dunque non è solo “fastidio”, ma ostilità verso il controllo e, di conseguenza, verso la Costituzione che lo consente, anzi lo impone.
    Frutti avvelenati della Bicamerale (ma, pi esattamente, del clima politico creatosi in Italia almeno dall’inizio degli anni ’80, con l’emergere della parola d’ordine della “governabilità” come mera necessità di semplificazione delle regole e dei controlli) sono stati e continuano ad essere visibili nel dibattito politico parlamentare, nel quale ormai ogni riferimento alla Costituzione è un accessorio, se non un mero espediente per attuare una qualche forma di opposizione nelle aule parlamentari, e non un riferimento della azione politica. Da questo punto di vista D’Alema e Berlusconi si assomigliano e dicono cose diverse ma fra loro compatibili, perch fondate sullo stesso linguaggio; il primato della politica, inteso nel senso della insindacabilità degli atti di maggioranza, che si presumono sempre leciti. In questa logica ad essere stritolata non è solo (non è tanto) la magistratura, ma l’idea stessa di giurisdizione in uno Stato costituzionale di diritto, che inevitabilmente viene relegata ad un compito di mera regolazione di singoli conflitti, un ruolo, anche qui, esclusivamente “tecnico”, possibilmente conforme alle intenzioni del legislatore, inteso questo come entità storica determinata e riconoscibile nel “movente” dell’atto legislativo; in questo senso la mozione del Senato del dicembre 2001 sulle rogatorie è emblematica, e se è stata contestata dalla attuale minoranza, rispondeva in realtà alla stessa logica delle violente critiche di pochi mesi prima ai giudici civili di Milano, rei di dubitare, interpretando, della legittimità delle norme.
    E qui si pone la questione dell’insofferenza verso tutte le forme di controllo di legalità; la Corte costituzionale dà troppe volte torto alle regioni ? la si cambi ! le autorità indipendenti sono troppo indipendenti ? si mandi una circolare e si cambino i direttori ! e via discorrendo e proponendo di continuo cambiamenti delle regole.
    A me sembra che le modifiche siano state di fondo, che esse riguardino “anche” la magistratura, il processo, i giudici sottoposti ad attacchi feroci e francamente insostenibili, ma che soprattutto sia stato già modificato il quadro costituzionale, e che su questo occorra ragionare; la trasformazione è andata vanti nel comune sentire, ed ora della giurisdizione si tende a dire solo che è inefficiente, arbitraria (specie il PM), lenta ed invadente; alla complessità dei problemi si risponde con la semplificazione delle regole di soluzione dei conflitti (tranne sul cpp, ma qui il caso italiano è davvero singolare, a causa della circostanza che “il capo” è anche imputato), ma la complessità resta.
    Ora, in questo quadro nel quale l’efficienza è diventata un bene in s, quasi si trattasse di far le cause in fretta comunque ed in ogni caso, come lavora un collega entrato nell’ultimo decennio ? quali sono i suoi punti di riferimento, ha ancora la stella polare della Costituzione o no ? si vede come un impiegato dello stato addetto alla soluzione di controversie tra singoli privati o pensa che dal suo lavoro possa uscire un quid pluris in termini di tutela effettiva di un diritto ? esaurisce il suo sapere nella applicazione di regole che spesso, oltretutto, fa fatica a trovare stante la complessità quantitativa e qualitativa delle fonti, incurante se con quelle regole decide il merito o solo come proseguire il processo ? , o ha presente che la giurisdizione deve tendere alla decisione di merito (principio tanto vecchio da essere stato sviluppato da Giuseppe Chiovenda) e che una decisione sul processo è una sconfitta dello jus dicere ?
    A me piacerebbe che questa trasformazione, che è già avvenuta, stia sullo sfondo dei temi del nostro congresso, anche perch non ha senso parlare di efficienza se non sappiamo verso che cosa e per cosa.
    Qui però dobbiamo provare a fare un sforzo non piccolo; passando dalla descrizione della crisi alla individuazione di possibili rimedi; non credo alla invocazione della classicità dello Stato costituzionale di diritto (come mi sembra faccia Ferrajoli), battaglia culturale meritoria ma insufficiente; ricordo alcune suggestioni dell’intervento di Cacciari a Venezia (che mentre lo ascoltavo mi diede un vago senso di fastidio, ma poi ripensandoci mi ha fatto spesso meditare); disse che eravamo “bravi” ma irrimediabilmente “vecchi”, perch schierati sulla difensiva, culturale ed istituzionale; alcuni esempi che fece (vado a memoria) erano e restano poco convincenti, ad es. l’esaltazione della versione democratica del federalismo, cui io non credo e che mi è sempre sembrata un pasticcio; ma è vero che non ci si può limitare a difendere ciò che c’è di buono di quel che abbiamo ereditato dal costituzionalismo della seconda metà del ‘900, occorre un passo avanti; e qui secondo me c’è la costituzionalizzazione dell’Unione europea, tema complesso sul quale non vi tedio oltre, ma rappresentativo anch’esso della difficoltà di coniugare norme sul procedimento di formazione del diritto e norme attributive di diritto di rango superiore; ma di questo avremo occasione di parlare.
    Cosa è questo nuovo costituzionalismo ? verso quali lidi ci porterà una Costituzione europea (nella quale, inevitabilmente, ci saranno enunciati che non ci piaceranno) ? Riusciamo a reggere un sistema delle fonti quale quello attuale, la cui complessità verso l’alto e verso il basso tende ad esaltare il ruolo del giudice ma, nel contempo, lo rende “scoperto” perch in qualche modo pi “politico” ? Sono solo alcune delle domande che ci assalgono, spetta a noi iniziare a ragionare per dare ad esse qualche risposta.


Indirizzo:
http://old.magistraturademocratica.it/platform/2003/01/24/una-8220-questione-costituzionale-8221