Evoluzione europea del servizio giustizia

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  1. L’Europa come speranza è il titolo della tesi congressuale dedicata alle prospettive europee.
    E la necessità di comprendere lo sviluppo della giurisdizione e del servizio giustizia che rendiamo e di partecipare, cercando di incidervi con la forza delle idee e delle proposte, alla sua evoluzione nella società, senza limitarsi alla semplice difesa dell’esistente, è stata espressa nell’intervista precongressuale del segretario, in tutte le tesi del congresso e caratterizza md come intellettuale collettivo che rivendica il diritto e la libertà di presentare le proprie proposte e progetti nel settore che caratterizza la nostra attività professionale e di civil servants.
    L’attenzione agli aspetti istituzionali ed al processo costituzionale in corso a livello europeo è stata un punto qualificante del dibattito nello scorso congresso di Venezia e la rivista, i gruppi di lavoro e l’impegno di md in medel sono una fonte privilegiata di circolazione di informazioni e di elaborazione culturale in materia.
  2. Il processo costituzionale europeo è inserito in un contesto storico quale quello dell’allargamento dell’Unione, che chiama la cultura giuridica ed istituzionale europea ad un eccezionale sforzo di integrazione con un’area di paesi con un livello economico e di diritti ed una storia recente molto diversi, con modelli istituzionali e di bilanciamento dei poteri spesso lontani e con sistemi di tutela e di attuazione dei diritti in larga parte da esplorare e da conoscere per evitare aspetti di colonizzazione inaccettabili ovvero una ulteriore stasi della costruzione della cittadinanza europea in parallelo all’integrazione economica e di mercato.
    Accanto alla costituzione europea ed all’allargamento dell’unione, per il settore della giustizia un altro passaggio davvero storico, senza enfasi, è in fieri con l’avvenuta entrata in vigore dello Statuto della Corte Penale Internazionale, una utopia divenuta realtà, di cui esistono ora le basi di trattato per il funzionamento, e che rappresenterà un sistema di giurisdizione complementare per i pi gravi crimini contro l’umanità, di guerra e di genocidio secondo il modello del giudice naturale precostituito e non del tribunale dei vincitori.

  3. Le peculiarità del quadro italiano attuale in questo contesto, e la situazione difficile, ed anche desolante, a seconda del grado di umore, del servizio giustizia sono state descritte con grande chiarezza nella relazione del rapporteur speciale delle Nazioni Unite, nominato dalla commissione dei diritti umani dopo le proteste manifestate nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2002, e che è passata (a parte la pubblicazione ed il commento in Questione Giustizia e nella nostra mailing list) nell’indifferenza pressoch generale degli organi di informazione e del governo oppure in un malcelato fastidio frammisto ad ironie fuori luogo e venate di strafottenza e razzismo sull’origine malese del rapporteur e sulla sua scarsa idoneità a comprendere la situazione italiana.
    Eppure il rapporteur speciale dell’ONU ha detto cose molto semplici: gli attuali problemi della giustizia italiana stanno nelle “ingombranti” procedure, sia penali che civili, e nel fatto che sono in corso delicati processi a carico di “prominenti” esponenti politici, ed ha sottolineato la necessità di ragionare sulle riforme in materia di giustizia in modo completo e comprensivo, con il coordinamento di tutti gli attori del sistema giustizia, ossia CSM, associazioni dei magistrati, associazioni e consigli degli avvocati, Ministero della giustizia, professori di diritto. Naturalmente è rimasto oltremodo perplesso in materia di riforma dell’istituto della rimessione per legittimo sospetto e sul concomitante ruolo, generatore di potenziale conflitto di interessi, di difensori in singoli processi e legislatori in materia processuale penale.
    D’altra parte, le condanne che l’Italia ha incassato a Strasburgo davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ora forse tamponate dalla legge Pinto che le riversa all’interno del sistema, dimostrano la difficoltà di capire e di far capire come conciliare un contenzioso dai numeri elevatissimi e con una gamma amplissima di impugnazioni con esigenze di definizione delle controversie relativamente contenuti, a meno di un approccio puramente quantitativo, anche a scapito della qualità, e talvolta frettoloso e diretto all’individuazione della strada pi breve o pi facile, come credo si sia sperimentando ormai in molti uffici schiacciati dai numeri.
  4. Viste le nostre peculiarità e caratteristiche, anche oltre il momento politico (senza altri aggettivi) contingente, credo ci si debba chiedere che cosa valorizzare del nostro sistema in una prospettiva di ravvicinamento delle legislazioni europee imposta dallo sviluppo dell’Unione e dal processo di costituzionalizzazione e allargamento a tale livello, e che cosa, quali istituti dobbiamo pensare a cambiare.
    Comincio da questi ultimi, con un paio di esempi.
    Chi abbia occasione di parlare con colleghi stranieri o di avere qualche contatto internazionale, si troverà, ad esempio, in straordinaria difficoltà a descrivere la disciplina e l’estensione del processo in contumacia nel nostro sistema tanto civile quanto penale, e perch la contumacia non sia sanzionata ma anzi costituisca un vero e proprio diritto, collegato, nel penale, al diritto dell’imputato a mentire. Non voglio fare graduatorie o discutere dei fondamenti dell’istituto; voglio semplicemente evidenziare che istituti incomprensibili agli altri hanno poche possibilità di essere salvaguardati in un’ottica di integrazione, e rischiano unicamente, se non ripensati laicamente per tempo, di portare ad inadempimenti agli obblighi internazionali o ad isolamento.
    Bisogna anche notare che l’esperienza di innestare in un sistema giuridico di tradizione continentale un processo penale di tipo accusatorio di impronta americanizzante, mantenendo però tutte le impugnazioni e l’obbligo di motivazione propri del sistema inquisitorio, non è stata seguita da nessuno dei nostri vicini europei; credo che un’analisi dei risultati in termini di efficienza e di tutela dei pi deboli e delle vittime ne spieghi il motivo.
    Chi poi riesca a tradurre per un giurista straniero cos’è l’accessione invertita….
  5. Invece il sistema di autogoverno della magistratura ed il pieno inserimento del pubblico ministero nell’alveo della giurisdizione sono conquiste costituzionali italiane viste come modello in ambito europeo, dove peraltro non sono patrimonio comune, ed internazionale.
    Lo sforzo comune deve perciò essere diretto a spiegare con chiarezza (all’interno, come fa l’attuale dirigenza dell’associazione, e dove possibile anche all’esterno) che si tratta di istituti volti a garantire una piena indipendenza ed autonomia della magistratura in funzione dell’eguaglianza sostanziale dei cittadini davanti alla legge; a spiegare che una carriera per cooptazione finisce per premiare il conformismo; a ribadire che la distinzione tra i magistrati si basa solo sulle funzioni e non sulla gerarchia; a ricordare che l’autogoverno impone il ripudio dei privilegi ed il costante affinamento delle risorse in funzione della migliore resa del servizio ai cittadini; a sottolineare che un pubblico ministero separato dalla giurisdizione ed attratto nell’orbita dell’esecutivo non è in grado di garantire l’obbligatorietà dell’azione penale e, quindi, ancora una volta, l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge.
    Certamente una politica governativa ostile a questi principi non aiuta nella loro affermazione a livello europeo.
  6. Le prospettive di integrazione europea sono ormai chiaramente dirette verso il riconoscimento reciproco ed automatico delle decisioni dei giudici nazionali all’interno dell’Unione, verso il ravvicinamento delle legislazioni, ed anche verso l’istituzione di una Procura europea, come ormai si legge nelle relazioni dei gruppi di lavoro nell’ambito della Convenzione e che meritoriamente vengono diffusi sulla nostra mailing-list.
    Ci sono però anche alcuni pericoli in questo processo, sempre ricavabili dai documenti europei. In primo luogo il raggiungimento di un accordo minimale, specialmente in un contesto europeo allargato, che privilegi ancora una volta gli aspetti di libera circolazione delle merci rispetto all’elevazione di diritti comuni di cittadinanza; l’attuazione di una “fortezza Europa”, incentrata su regole di ordine pubblico europeo e timorosa o addirittura repulsiva nei confronti delle domande e dei bisogni provenienti dal Sud del mondo; la mancata attuazione di strumenti normativi comuni per le resistenze e le diffidenze nazionali, che ha fatto sì che molte convenzioni europee in materia di cooperazione giudiziaria siano rimastre sulla carta perch non ratificate dai parlamenti nazionali; oppure il mancato accordo su basi giuridiche certe e vincolanti, come è accaduto per la Carta dei diritti fondamentali approvata a Nizza ma non incorporata nel Trattato di Nizza; o ancora la generalizzazione di meccanismi di opting-in e opting-out, con un’Europa dei diritti a diverse velocità, in cui il rischio di rimanere periferici risulterebbe pi marcato proprio dove l’integrazione sarebbe elemento di estensione ed attuazione dei diritti.
    Di questi pericoli dobbiamo essere consapevoli, e, per quanto riguarda lo specifico della magistratura, utilizzare tutti gli strumenti istituzionali e culturali a nostra disposizione per evitarli.
    Credo che, in questo senso, dobbiamo evitare attitudini alla cultura dell’emergenza, al provincialismo ed all’autoreferenzialità che spesso si leggono anche negli atteggiamenti degli organi di autogoverno ed associativi: l’Europa e il mondo vanno avanti anche senza circolari e documenti, e, come magistratura italiana, dobbiamo essere in grado, per quanto nelle nostre possibilità, di esportare adeguatamente il nostro patrimonio culturale e democratico, come espressione di un sistema-paese che ha un progetto ed una visione di sviluppo ed è in grado di tenere il passo.
    In questo senso la riduzione della presenza di magistrati al Ministero, l’incapacità di attuare una politica coerente di distacco presso le istituzioni europee, il fatto di costringere alle dimissioni o alla rinuncia magistrati scelti per posizioni chiave presso istituzioni europee sono, a mio avviso, proprio espressione di quei vizi –emergenza, provincialismo, autorefenzialità- che la magistratura italiana deve rifuggere per avere un ruolo pi incisivo nel processo di costituzionalizzazione europeo.

  7. Racconta Alessandro Galante Garrone ne “Il mite giacobino” che “durante tutti gli anni trenta , mi imbattevo in colleghi pi anziani che erano, a volte, dichiaratamente antifascisti (una minoranza); pi spesso, la stragrande maggioranza, afascisti; quasi mai fascisti convinti. Soltanto nei gradi pi alti trovavi magistrati supini al regime”; e raccomanda anche di non dimenticare che “il fascismo fu soprattutto viltà. La viltà delle leggi razziali; la viltà dell’occupazione dell’Albania; la viltà e l’infamia dell’aggressione alla Francia in ginocchio, solo dopo che questo paese era già stato invaso e debellato dalle armate tedesche; l’infamia delle delazioni fasciste ai tedeschi che caricavano gli ebrei sui vagoni blindati. Questo fu, soprattutto, il fascismo” .
    E’ la consapevolezza della società in cui viviamo e del contesto in cui ci muoviamo che riempie di senso il nostro lavoro nell’esercizio della giurisdizione; la consapevolezza che lo sviluppo del diritto è un processo duraturo e storicamente aperto, che si nutre di esperienze sociali.
    La magistratura di oggi non deve accontentarsi di essere afascista, cioè fuori dalla società in cui vive, come una casta di mandarini - bocca della legge, ma deve essere inserita nella polis, nella sua vita quotidiana, per adempiere a quella duplice posizione che le spetta nello stato costituzionale, così bene descritta da Gustavo Zagrebelsky ne “Il diritto mite”: “una posizione di intermediarietà tra lo Stato (in quanto potere politico-legislativo) e la società (in quanto sede dei casi che avanzano pretese in nome dei principi costituzionali) ”; una posizione da cui derivano una “doppia fedeltà, e una doppia indipendenza, sia nei confronti dell’organizzazione che esprime la legge, sia della società che è titolare di pretese costituzionalmente garantite”.

24 01 2003
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