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Principio accusatorio, impugnazioni, ragionevole durata del processo:
una riforma necessaria
Sasso Marconi, 12-13 dicembre 2003

Principio di parità delle armi e impugnazioni: diritto di appellare solo pro reo?
contributo di Gioacchino Romeo

1. L'ipergarantismo - ha scritto Cordero - è virt efferata. E - si può aggiungere - destinato a creare guasti non minori dell'ossessione inquisitoria. Sull'onda delle quotidiane litanie di interessati giuristi, piangenti sulla sorte dei diritti inviolabili conculcati da pubblici ministeri accaniti e da giudici politicizzati, forse sta per tradursi in realtà anche qualche amena favola (non ne mancano di raccontate anche in qualificate sedi scientifiche: tra le ultime, quella di una pretesa incostituzionalità del diritto di appello del P.M. contro sentenze assolutorie). Così, sullo scenario del processo penale, già devastato negli ultimi due anni da nefaste leggi ad personam, stanno per irrompere altre "riforme", mirate a renderne ancora pi impervio e accidentato il percorso, anche se nel linguaggio pubblicitario dei sedicenti riformisti lo impone il principio della ragionevole durata del processo.
Non passa solo attraverso la riforma dell'ordinamento giudiziario, ma anche attraverso i continui sussulti cui viene sottoposto il processo penale, il disegno di "normalizzazione" della magistratura perseguito dall'attuale maggioranza politica, e sembra trovare sponde corrive, o involontariamente favorevoli, all'interno dello stesso ordine giudiziario e, per di pi, inopinatamente, talvolta anche per la via dell'esercizio della giurisdizione.
Sarebbe arduo, e forse anche vano, ripercorrere itinerari giurisprudenziali recenti per una verifica (e conferma) dell'ipotesi. Ma chiunque segue l'evolversi della giurisprudenza è in grado di capire da s come il martellamento attuato, senza risparmio di mezzi, contro la magistratura negli ultimi due anni abbia potuto condurre a una sorta di progressivo estendersi del disinteresse, a volte rassegnato, dei giudici che è eloquente cartina di tornasole dell'insidioso e silente processo di incrinatura cui sta andando incontro la loro indipendenza.
In qualche caso, poi, anche l'indipendente esercizio della giurisdizione può inconsciamente indurre ad ambigue "aperture" che possono prestarsi a letture distorte e/o a strumentalizzazioni interessate.
Su un esempio recentissimo, che merita una chiosa, anche perch non è di secondario rilievo, pare utile soffermarsi in questa sede, per la pertinenza con il tema del seminario: si tratta della sentenza delle Sezioni unite penali sull'omicidio Pecorelli nel quale era coinvolto il senatore a vita Giulio Andreotti, condannato a ventiquattro anni di reclusione dalla Corte d'assise d'appello di Perugia dopo essere stato assolto dalla omologa Corte di primo grado. Sentenza immediatamente tratta a pretesto dalle solite vestali per prevedibili attacchi alla magistratura "politicizzata" e forse anche per poter avere il via libera alla discussione e approvazione parlamentare di sciagurati disegni di legge, primo fra tutti quello di cd. riforma dell'ordinamento giudiziario.
La questione centrale oggetto di esame delle Sezioni unite era quella di stabilire se e in quali limiti l'imputato, assolto in primo grado e condannato in appello, possa dedurre con il ricorso per cassazione la mancanza o la manifesta illogicità della sentenza di condanna, allorch sia la prima, sia la seconda abbiano omesso di valutare decisive risultanze probatorie.
Il problema nasce dalla circostanza che a rigore, essendo precluso il novum in cassazione, sarebbe inammissibile il ricorso con il quale si lamentino simili vizi non dedotti con i motivi di appello, a meno che con esso non si prospettino questioni rilevabili di ufficio o che, pur non rilevabili di ufficio, non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello. Dietro il problema si scorge, in filigrana, quello della difficile "quadratura" di un sistema, nel quale appare ardua la compatibilità di un giudizio "cartolare" con i pilastri portanti del processo accusatorio.
Le Sezioni unite risolvono la questione nel senso che nell'ipotesi di omesso esame, da parte del giudice, di risultanze probatorie acquisite e decisive, o di omessa assunzione di prove ritenute risolutive, la condanna in secondo grado dell'imputato già prosciolto con formula ampiamente liberatoria nel precedente grado di giudizio non si sottrae al sindacato della Corte di cassazione, purch l'imputato medesimo, per quanto carente di interesse all'appello, abbia comunque prospettato al giudice di quel grado, mediante memorie, atti, dichiarazioni verbalizzate, l'omessa assunzione di prove risolutive ovvero l'avvenuta acquisizione dibattimentale di altre e diverse prove, favorevoli e nel contempo decisive, pretermesse dal giudice di primo grado nell'economia di quel giudizio, oltre quelle apprezzate e utilizzate per fondare la decisione assolutoria.
In tale evenienza al giudice di legittimità spetta verificare, senza possibilità di accesso agli atti, ma attraverso il raffronto tra la richiesta di assunzione o di valutazione della prova e il provvedimento impugnato che abbia omesso di dare ad essa risposta, se la prova, in tesi risolutiva, richiesta (ove se ne lamenti la mancata assunzione) ovvero assunta (ove se ne lamenti la mancata valutazione) sia effettivamente tale e se quindi la denunciata omissione sia idonea a inficiare la decisione di merito.
Non interessa qui seguire il percorso logico cui sono pervenute le Sezioni unite nella ricostruzione del vigente sistema di impugnazioni, anche alla luce dei principi stabiliti negli artt. 14.5 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e nell'art. 2.2 del protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.
Importa, piuttosto, rilevare come la Corte suprema abbia, da un lato, con un'operazione di discutibile praticabilità, dato un'interpretazione analogica della disposizione che vuole inammissibile il ricorso proposto per motivi non dedotti con l'atto di appello (cioè con quello che è tecnicamente un atto di impugnazione, non surrogabile con alcun altro tipo di atto), considerando equivalenti ai motivi non proposti, perch non proponibili, memorie e altri atti denotanti un'attivazione specifica dell'imputato e, dall'altro, probabilmente consapevole della "debolezza" della soluzione adottata, sia stata in qualche misura indotta a sottolineare, ai fini della realizzazione di una soluzione "ben pi radicale ed efficace", la necessità (o comunque opportunità) di "un intervento mirato del legislatore sul terreno della (ri)perimetrazione delle opzioni decisorie consentite al giudice di appello, che sia chiamato a pronunciarsi sull'appello del pubblico ministero avverso la sentenza assolutoria di primo grado".
E' interessante riprodurre ad litteram le ragioni di questa evocazione: "Principi costituzionali, norme di diritto internazionale convenzionale ed autorevole dottrina suggeriscono infatti di ristrutturare sapientemente il giudizio di appello, secondo cadenze e modalità tali da precludere a quel giudice (che di regola rimane estraneo alla formazione dialettica della prova) di ribaltare il costrutto logico della decisione di proscioglimento dell'imputato, all'esito di una mera rilettura delle carte del processo e di un contraddittorio dibattimentale ex actis. Nel senso, cioè, di qualificare in questo caso l'appello, ove non si concluda con la conferma dell'alternativa assolutoria, come giudizio di natura esclusivamente rescindente, cui debba seguire un rinnovato giudizio di primo grado sul merito della responsabilità dell'imputato, modulato sui binari tracciati dalla sentenza di annullamento.
E' sempre rischioso per un giudice (e lo è tanto pi per la Corte suprema, soprattutto se a sezioni unite) avventurarsi, nel contesto di un provvedimento di giurisdizione, sul terreno minato delle prospettive de iure condendo, pur se avallate da autorevoli dottrine, che si traducano in suggerimenti, obliqui o non, al legislatore. Non si tratta, com'è ovvio, solo del pericolo di incursioni extra moenia improprie, data la sede dei "suggerimenti"; c'è anche il rischio non remoto di una sovraesposizione istituzionale dalle conseguenze comunque negative (perch o destinata a fare da supporto ad iniziative legislative che potrebbero essere discutibili, e quanto questo rilevi nel caso di una decisione delle Sezioni unite della Corte di cassazione ognuno è in grado di capire da s; oppure potenzialmente idonea, se preordinata a scoraggiarle, ad innescare situazioni di perniciosa conflittualità tra poteri dello Stato e a ritorcersi proprio contro lo stesso ordine giudiziario nel suo complesso).
Qualche breve osservazione per rendersi conto, nel caso di specie, dell'assunto.
Nessun dubbio che, non essendo garantito il doppio grado di giurisdizione di merito n dalla Costituzione, n dalle disposizioni convenzionali ricordate pi sopra, come costantemente interpretate dalla giurisprudenza delle Corti sovranazionali, al legislatore nazionale non è imposto l'obbligo di prevederlo, essendo sufficiente ad adempiere il dettato della normativa convenzionale un ricorso per motivi di sola legittimità.
Potrebbe residuare il problema (e la questione sarebbe rilevante, de iure condito, sul piano di un eventuale sospetto di incostituzionalità) della conformità di un tale assetto a criteri di razionalità, posto che il ricorso per cassazione, per i suoi limiti, potrebbe non essere sufficiente ad assicurare la correttezza della decisione finale, allorch in appello al proscioglimento ampio dell'imputato in primo grado sia seguita la condanna; e quindi, in definitiva, della legittimità costituzionale di un sistema nel quale un giudizio meramente cartolare - non sempre agevolmente sindacabile in cassazione - può ribaltare totalmente un giudizio orale, specie con riferimento al processo di assise, nel quale un verdetto che interviene dopo un'ampia istruttoria dibattimentale espletata alla presenza di tutti i giudici (togati e popolari) viene sostituito con un giudizio reso all'esito della relazione orale svolta da un giudice togato sulla base (prevalentemente o esclusivamente) del solo studio dell'incarto processuale.
Tutto ciò, peraltro, a ben riflettere, è solo in parte vero. Intanto il rilievo riguarda soltanto le sentenze di riforma deliberate in appello sulla base di una difforme ricostruzione del fatto (e cioè di una diversa valutazione delle prove acquisite) e non anche quelle che modificano il primo giudizio per motivi di diritto (es.: diversa qualificazione giuridica del fatto; che l'esito finale meno favorevole all'imputato e possa così comportare una condanna in luogo di un proscioglimento è elemento sostanzialmente irrilevante rispetto al problema qui posto).
In secondo luogo, occorre sottolineare come, nella prospettiva del processo accusatorio, non sia agevole comprendere perch il problema venga sollevato solo con riguardo alla sequenza decisoria "proscioglimento in primo grado-condanna in appello" e non anche rispetto a quella inversa: come se il proscioglimento in appello (seguito a condanna in prime cure e non dovuto a sopravvenuta causa di estinzione del reato) non sia anch'esso, per la struttura tipica del processo di secondo grado, una decisione assunta all'esito di un giudizio "cartolare".
E in questo caso non esiste - specularmente rispetto all'ipotesi della sentenza di condanna in appello dopo un proscioglimento in primo grado - un problema di "pregiudizio" per la pubblica accusa? O l'imputato impugnante dovrà orwellianamente essere considerato pi eguale del pubblico ministero?
Non si tratta di una domanda retorica, ma solo di un invito alla riflessione. Se del caso, anche del legislatore futuro: potrebbe essere, ad esempio, un buon motivo per sopprimere l'appello hinc et inde e non per ampliarne l'estensione limitatamente a quello dell'imputato, come sembra di capire dalle affermazioni delle Sezioni unite.
Si potrebbe obiettare che la Cassazione si stava occupando di un caso nel quale all'assoluzione in primo grado era seguita la condanna in appello; ma rimane il fatto che il suggerimento rivolto al legislatore riguarda la revisione del giudizio di appello solo pro reo e sottintende, quindi, l'esistenza di una situazione "deteriore", da eliminare, riguardante esclusivamente l'imputato: la qual cosa, francamente, non convince.

2. Nel processo Andreotti c'era un problema di fatto rilevante ed era quello di stabilire se questi fosse stato prosciolto ai sensi del comma 1 o del comma 2 dell'art. 530 c.p.p. (risultando di sicuro improponibile il ricorso, per mancanza di interesse, solo nel primo caso, non anche nel secondo).
Dalla lettura della sentenza di primo grado pareva abbastanza chiaro che il proscioglimento di Andreotti era avvenuto a norma del comma 2 (la Corte d'assise fa riferimento alla "mancanza di idonea prova, non essendo emerso alcun coinvolgimento di Cosa Nostra nell'organizzazione dell'omicidio, n alcun elemento probatorio, al di là della sussistenza di un valido movente, che colleghi Giulio Andreotti alla banda della Magliana e all'omicidio di Carmine Pecorelli"); e allora si sarebbe anche potuto ritenere ammissibile il suo ricorso.
Sennonch le Sezioni unite eludono il problema, non si sa se per non sconfessare un loro precedente (Sez. un., 23 novembre 1995, Fachini) o per una sorta di riguardo verso l'uomo politico (per implicito si sarebbe dovuta avallare l'idea della effettiva esistenza a suo carico di un valido movente). Eppure sarebbe bastato dire che la preclusione del novum in cassazione non poteva operare, non essendo l'appello proponibile nella specie. Invece si afferma il principio, di discutibile esattezza, che, salvo casi assolutamente eccezionali, l'imputato prosciolto è sempre privo di interesse all'impugnazione, sia avvenuto il proscioglimento a norma del comma 1 o del comma 2 del citato art. 530.
Ma se le cose stanno così, siamo dinanzi a veri e propri obiter dicta; difatti dalla preliminare affermazione, fatta in sentenza, dell'assenza di interesse all'appello del prosciolto hinc et inde sarebbe dovuta derivare automaticamente l'inammissibilità del relativo motivo di ricorso, senza necessità di ulteriori distinguo. E, soprattutto, senza la necessità di dare indicazioni a senso unico al legislatore.
E' mestiere laico quello del giudicare. Una corte d'assise d'appello crede di poter sostituire agli alligata et probata una sua suggestiva ipotesi costruita su indizi vaghi e di ambigua o nessuna valenza. Voli pindarici in motivazione configurano un necessitato percorso criminale, mediante mandato tacito, dell'imputato, interessato a sopprimere uno scomodo giornalista che avrebbe ostacolato la sua carriera politica. Sentenza sconcertante: a leggerla, viene fatto di pensare, in modo altrettanto fantasioso, che una singolare legge del contrappasso abbia governato il processo contro l'uomo di maggiore spessore politico dell'Italia repubblicana, dando in esso una sottintesa cittadinanza a quel suo celebre aforisma per cui "a pensare male si fa peccato, ma ci si azzecca sempre".
Doverosamente interviene la Corte suprema, nella sua pi alta espressione, ad annullarla. Ma ha il torto di trarre motivo dalla vicenda anche per qualche divagazione extra ordinem. Così, alla fine di una storia di non ordinaria patologia processuale, ci rimane un interessante interrogativo: sarà (anche) per (indiretta) opera della magistratura che arriverà una revisione legislativa del processo di impugnazione con diritti solo a favore di una parte?
Gioacchino Romeo

26 12 2003
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