La proposta di Legge Cirielli: emblema del diritto diseguale

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LA
PROPOSTA LEGGE CIRIELLI:

EMBLEMA
DEL DIRITTO DISEGUALE

a
cura di Magistratura Democratica

1.
Il trionfo del "doppio binario"

La
proposta di legge n. 2055/A approvata dalla Camera dei Deputati il 16
dicembre 2004 è l'ultima tappa della realizzazione, da tempo
in atto, di un “diritto diseguale”. Non ci sono, alle sue
spalle, solo gli interessi contingenti di uno o più imputati
eccellenti; c'è anche il progetto politico culturale (non
nuovo ma qui perseguito con particolare intensità) di
strutturare il sistema penale sul doppio binario dell'impunità
per i colletti bianchi e della "tolleranza zero" per
la devianza degli esclusi (cioè dei settori marginali o
semplicemente non inseriti della società).

2

L'obiettivo
è un diritto sostanziale e processuale differenziato:
come nell'ottocento, implacabile per i "briganti" e
declamatorio e privo di ogni effettività (fino allo scandalo)
per i "galantuomini". Emerge un nuovo tipo d'autore,
il "recidivo reiterato", destinatario non solo di pene
assai più elevate, ma anche di periodi prescrizionali più
lunghi e di un trattamento penitenziario molto più severo. Da
un lato vi è un generalizzato inasprimento degli aumenti di
pena per chiunque, già condannato per un delitto non colposo,
ne commette un altro; dall’altro, nel caso in cui sia commesso
uno dei delitti di cui all’art. 407, comma 2, lett. a
cpp, l’aumento per la recidiva è obbligatorio ed in
alcuni casi non può essere inferiore ad un terzo della pena.
Se poi i reati in concorso formale o in continuazione sono commessi
da un soggetto recidivo reiterato (da soggetto recidivo, cioè,
che commette altro delitto non colposo), l’aumento di pena non
può essere inferiore ad un terzo della pena stabilita per il
reato più grave. E – si badi – il riferimento non
è necessariamente a criminali incalliti, ma anche a persone
che hanno riportato due condanne per delitti non colposi,
indipendentemente dal tempo trascorso e dalla natura dei reati
commessi (sì che rientra nella categoria, per esempio, anche
l'autore di un furto in supermercato e di una resistenza a pubblico
ufficiale commessi a dieci anni di distanza l'uno dall'altro).
L'impostazione è quella, demagogica e inefficace, della
“tolleranza zero”, adottata, per di più, quando
l'esperienza applicativa decennale ne sta mostrando i limiti anche
negli Stati Uniti (che ne sono il paese d'origine), dopo essersi
rivelata illusoria, in tempi passati, anche nel nostro Paese. Eppure
i fatti sono univoci: nessuna reale dissuasione si è mai
ottenuta aumentando le pene e inasprendo il trattamento
penitenziario; il contrasto duraturo della devianza e della
criminalità minore passa per le ben diverse strade di
una seria strategia (specie sociale) di prevenzione e di
integrazione, del controllo del territorio, di processi più
rapidi, di una politica penitenziaria di recupero. Ma per far ciò
non ci sono né investimenti né volontà.

E
non è tutto. Sull'altare del trattamento differenziato e
dell'illusione repressiva vengono sacrificati valori fondamentali.
Due in particolare.

Anzitutto
viene drasticamente ridotta la discrezionalità del giudice,
sostituita in molti casi (concessione delle attenuanti, giudizio di
bilanciamento delle circostanze, aggravamenti di pena per recidiva,
applicazione di benefici penitenziari) con automatismi che
impediscono ogni valutazione della gravità del fatto e della
personalità dell'imputato. Il problema non è,
ovviamente, il potere del giudice, ma l'equità della
decisione. L'eccessiva discrezionalità giudiziaria conseguente
alla troppo ampia forbice tra minimo e massimo della pena per taluni
reati non si argina con automatismi, che producono solo
disuguaglianze odiose (non importa, sotto il profilo
sistematico, se in melius o in peius). La strada per
correggerla è quella già delineata dal progetto di
riforma del codice penale della Commissione presieduta dal prof.
Grosso (revisione del sistema delle attenuanti, rivisitazione e
ridimensionamento delle pene, aumento della gamma delle pene
principali), mentre gli interventi prospettati nel progetto in esame
producono solo ulteriori iniquità: sanzioni assai miti o
prescrizione per fatti gravi, sol perché commessi da
incensurati abbienti (e dunque in grado di difendersi dal
processo) e pene severissime per reati di limitata entità sol
perché commessi da devianti marginali.

In
secondo luogo l'approvazione della proposta di legge avrà
effetti gravissimi sulla stessa effettività del processo
nei confronti delle categorie privilegiate. Una prescrizione
breve e l'eliminazione degli effetti della sua sospensione lasciano,
infatti, il processo senza difese a fronte di strategie puramente
dilatorie e di impugnazioni pretestuose (che si dilateranno a
dismisura, ben oltre il già elevatissimo livello attuale).
L'obiettivo del processo cesserà di essere il confronto sul
merito per diventare il raggiungimento della prescrizione, con
effetti devastanti sull'intero sistema (esposto a estenuanti scontri
su legittimi impedimenti, legittimi sospetti, richieste
di rinvio e al collasso delle corti di appello e della Corte di
cassazione). Ciò comporta – è bene saperlo –
la definitiva rinuncia a qualsiasi obiettivo di processi celeri e la
trasformazione della prescrizione da civile rinuncia della pretesa
punitiva quando appare ormai inutile in amnistia permanente.

2.
La nuova disciplina delle attenuanti

L’impostazione
differenziata è di tutta evidenza nella disciplina
prevista per le attenuanti, in particolare quelle generiche.
L'obiettivo è esplicito: "fare tabula rasa della
situazione di incertezza che la precedente formulazione della
disciplina comportava in virtù proprio delle caratteristiche
delle attenuanti generiche che sono l'elasticità e la
flessibilità del contenuto”.

Con
l'art. 1 si introduce tra le circostanze di cui all'art. 62 del
codice penale una ipotesi specifica (n. 6 bis) di attenuante
per chi, al momento della commissione del fatto, aveva compiuto
settanta anni di età e, al momento della sentenza, non si
trova nelle condizioni di cui all’art. 99 dello stesso codice
(recidiva). In fatto la conseguenza è automatica: i primi
beneficiari della norma, che ha dirette ricadute non solo sull'entità
della pena ma anche sul regime della prescrizione, saranno noti
imputati eccellenti, formalmente incensurati ancorché
già raggiunti da pesanti condanne in primo grado.

Al
contrario, l’art. 2 dello stesso disegno di legge elimina la
possibilità di ricondurre la concessione delle circostanze
attenuanti generiche alla valutazione discrezionale del giudice
nell'ipotesi dei delitti previsti dall’art. 407, comma 2, lett.
a del codice di procedura penale, nel caso in cui gli stessi
siano puniti con una pena non inferiore nel minimo a cinque anni e
siano stati commessi da chi è recidivo reiterato; viene
esclusa, così, la possibilità di fare riferimento
all'intensità del dolo, ai motivi a delinquere e al carattere
del reo, al tempo trascorso, ad ogni valutazione sulla vita del reo,
sul suo reinserimento, sul comportamento successivo alla commissione
del reato, compreso quello processuale (a prescindere dall'esercizio
del legittimo diritto al silenzio).

Nell'ipotesi
dei recidivi reiterati, inoltre, la nuova normativa (art. 3)
modifica l’art. 69 del codice penale, introducendo l'espresso
divieto di operare un giudizio di prevalenza delle circostanze
attenuanti rispetto alle circostanze inerenti alla persona del
colpevole, come – appunto - la recidiva reiterata. Il
giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti è inoltre
precluso in caso di concorso con le circostanze aggravanti della
determinazione alla commissione di un reato di persona non imputabile
o non punibile in ragione di una condizione o qualità
personale, della determinazione alla commissione di un reato di un
minore degli anni diciotto o di una persona in stato di infermità
o deficienza psichica, dell’essersi comunque giovato della loro
opera nella commissione di un delitto per il quale è
obbligatorio l’arresto in flagranza.

Questa
disciplina, nel suo complesso, costruisce uno schema vincolato che
scardina tutti i parametri utilizzabili nella quantificazione della
pena (si pensi, per tutte, all'ipotesi di un'attività di
collaborazione che, pur non integrando gli estremi della attenuante
specifica, abbia rappresentato un utile strumento per l'espletamento
delle indagini) e pone consistenti dubbi di legittimità
costituzionale. In particolare, l'applicazione obbligatoria
dell'aumento di pena per i recidivi in caso di commissione di uno dei
delitti di cui all’articolo 407, comma 2, lettera a, cp,
senza possibilità, per il giudice, di valutare, ai fini della
determinazione della sanzione, altri elementi sembra contrastare con
l’art. 27, comma 3, della Costituzione, secondo cui le pene
devono tendere alla rieducazione del condannato. Difficile negare che
questo impianto, collegato alla scelta “necessitata” dei
riti alternativi da parte dei soggetti deboli, accentua la curvatura
di un diritto penale diseguale.

3.
L'amnistia permanente, ovvero la variante mite della
prescrizione

La
proposta di legge prevede che la prescrizione sia legata alla pena
edittale massima stabilita per ciascun reato, con un limite minimo di
sei anni per i delitti e di quattro per le contravvenzioni.

Un
primo rilievo: mentre per le contravvenzioni il trattamento sarà
meno favorevole di quello vigente e la legge si applicherà
solo ai fatti commessi dopo la sua entrata in vigore (restando priva
di conseguenze sui procedimenti in corso), per i delitti la nuova
disciplina è sempre più favorevole all'imputato
e, quindi, di immediata applicazione. Ad esempio, per un reato punito
nel massimo con la pena della reclusione di cinque (o sei) anni il
termine complessivo per la prescrizione viene ridotto dagli attuali
quindici anni (comprensivi dei periodi di interruzione, ma non di
quelli delle sospensioni non determinate da esigenze di acquisizione
della prova o dalla concessione di un termine a difesa) a sette anni
e mezzo (cioè il minimo, di sei anni, aumentato di un quarto);
per un reato punito con pena non inferiore nel massimo a otto anni di
reclusione, la prescrizione non può superare comunque i dieci
anni, e così via.

Per
rendersi conto degli effetti di un disciplina siffatta, è bene
tener presente che tra i principali reati punibili con pena non
inferiore, nel massimo, a cinque anni di reclusione figurano, tra gli
altri, la rivelazione di segreti di Stato (art. 261 cp),
l’utilizzazione di segreti di Stato (art. 263 cp), l’attentato
contro i diritti politici del cittadino (art. 294 cp), la corruzione
per atto contrario ai doveri di ufficio (art. 319 cp), la violenza o
minaccia a pubblico ufficiale (art. 336 cp), la resistenza a pubblico
ufficiale (art. 337 cp), il millantato credito (art. 346 cp), la
frode nelle pubbliche forniture (art. 356 cp), il favoreggiamento
reale (art. 379 cp), l’attentato alla sicurezza dei trasporti
(art. 432 cp), la truffa in danno dello Stato o di enti pubblici
(art. 640, cpv, cp) e che tra quelli puniti con pena pari, nel
massimo, a sei anni figurano l'attentato per finalità
terroristiche o di eversione (art. 280 cp), la calunnia (art. 368
cp), numerose ipotesi di falso, la truffa per il conseguimento di
erogazioni pubbliche (art. 640 bis cp), l'usura (art. 644 cp),
la ricettazione nel caso di particolare tenuità (art. 648,
cpv, cp) e tanti altri che finora avevano una prescrizione di
quindici anni (e che vedranno dimezzati i termini prescrizionali). Se
si tiene conto della durata media di un processo di merito, si può
ragionevolmente concludere che quasi tutti i processi per reati
puniti con la pena della reclusione compresa nel massimo tra i cinque
e i sei anni e la grande maggioranza di quelli per reati puniti con
la pena della reclusione massima di otto anni sono destinati a sicura
prescrizione.

Altro
aspetto gravemente irrazionale della disciplina è che, nel
caso di reato continuato, la decorrenza della prescrizione non viene
più rapportata all’unicità dei reati unificati,
ma viene ad essere frazionata in tanti segmenti, così da far
prescrivere più rapidamente gli episodi più vecchi,
seppure facenti parte del medesimo disegno criminoso.

Ma
v'è di più. Il prolungamento del termine di
prescrizione è consentito solo in caso di interruzione e di
sospensione del suo corso, ma non può comunque superare
un quarto della durata massima. Questa parificazione della
sospensione all'interruzione della prescrizione è, a ben
guardare, l'aspetto di “sistema” più grave della
prospettata riforma. Com'è noto, i due istituti sono
radicalmente diversi in quanto la sospensione del corso della
prescrizione sottrae dal computo una serie di eventi che
rappresentano una “pausa” del corso processuale, mentre
l'interruzione rappresenta il fenomeno contrario e cioè
l’evento processuale che scandisce l'iniziativa dell'autorità
giudiziaria per perseguire il reato. Spesso, peraltro, la sospensione
del processo dipende da un evento sottratto alla disponibilità
dell'autorità giudiziaria (ad es. le questioni rimesse alla
Corte costituzionale o la richiesta di autorizzazione a procedere) e
mettere insieme i due istituti, facendo rientrare la sospensione
entro il limite massimo, costituisce un evidente incentivo a tattiche
dilatorie. Il progetto si pone persino in controtendenza con alcune
leggi, come la n. 248 del 2002 (cd legge Cirami) sulla rimessione del
processo, che, per evitare un ingiustificato allungamento dei
processi verso una sicura prescrizione, avevano previsto la
sospensione dei termini di prescrizione, e ciò nell’attuale
regime normativo che fa dei casi di sospensione delle pause nel
decorso del termine prescrizionale, che così non risulta da
esse eroso. Rimettere, nei casi di sospensione del processo, la
disponibilità dei tempi processuali all'imputato, oltre ad
incentivare manovre dilatorie, finisce per porre la maturazione della
prescrizione nelle mani di chi deve subire il processo.

Il
regime dell’aumento della prescrizione per l’interruzione
e la sospensione, viene poi trattato in modo differenziato nel caso
in cui ci si trovi in presenza di soggetti recidivi, di soggetti
dichiarati delinquenti abituali o delinquenti o contravventori
professionali, o infine dei delitti di cui all’art. 51, 3 bis,
cpp, così accentuando, anche in questo caso, la doppia
disciplina in funzione del “tipo d’autore”.

La
disciplina vigente merita di essere riconsiderata, ma in direzione
contraria a quella proposta che, a causa della sua applicazione
retroattiva, è in grado solo di determinare una prescrizione
diffusa. Ciò che occorre è rendere razionale il sistema
(e non mancano le proposte: da quella più drastica di
prevedere la prescrizione solo sino all'esercizio dell'azione penale
a quella di adeguarla alle varie fasi del processo, fissando un
termine per ogni fase, così da assicurare effettività e
funzionalità all’azione giudiziaria di perseguimento dei
reati e, nel contempo, certezza all’imputato).

4.
Le disparità di trattamento in materia penitenziaria

Il
disegno di legge n. 2055 C incide pesantemente anche sul settore
dell'esecuzione penale stabilendo, nei confronti dei condannati ai
quali è stata applicata in sentenza la recidiva ai sensi
dell’art. 99, comma 4, codice penale (si tratta dei cd.
recidivi reiterati), una serie di rilevanti restrizioni nell'accesso
ai benefici.

In
primo luogo, con la modifica dell’art. 656, comma 9, del codice
di rito, i plurirecidivi non potranno più beneficiare
dell'automatica sospensione dell'ordine di esecuzione (introdotta –
come noto - dalla legge Simeone-Saraceni per evitare che le persone
culturalmente meno consapevoli o difese con minor diligenza,
potessero incorrere nell'esecuzione dell'ordine di carcerazione, non
essendo a conoscenza dell'avvenuto passaggio in giudicato della
condanna e dell'onere di formulare la richiesta di misura
alternativa). Tale restrittiva disciplina produrrà,
ovviamente, un rilevante incremento degli ingressi in carcere, anche
in casi di modestissima pericolosità, dal momento che la
nozione di recidiva reiterata delineata dal comma 4 dell’art.
99 del codice penale è del tutto generica e non distingue tra
tipologie di reati: con il rischio che il passaggio in carcere alteri
equilibri personali e sociali faticosamente raggiunti. L'incremento
del tasso di carcerizzazione sarà particolarmente
significativo per i tossicodipendenti, atteso l'elevato grado di
recidività che in genere li caratterizza, con il rischio di
brusche interruzioni di percorsi terapeutici (in ipotesi
virtuosamente avviati). Si assisterà quindi a un ulteriore
sovradimensionamento della popolazione detenuta con problematiche
tossicomaniche (già oggi pari a 14.332 unità su 56.532
ristretti) e con disturbi psichiatrici correlati alle situazioni di
abuso di sostanze (cosiddetti pazienti a doppia diagnosi). Inoltre,
in caso di pene di breve durata, una tempestiva pronuncia della
magistratura di sorveglianza è assai improbabile, con il
rischio che l'accesso alle misure alternative resti in concreto
precluso.

Lo
stesso effetto conseguirà, in secondo luogo, alle restrizioni
apportate alla possibilità di accedere alle misure alternative
con il divieto di concessione, per più di una volta,
dell’affidamento in prova ordinario, della detenzione
domiciliare e della semilibertà nonché dell’affidamento
terapeutico e della sospensione della pena ex art. 90 dPR n. 309/90
(per l’accesso ai ultimi quali è altresì disposto
l'abbassamento dei limiti di pena da quattro a tre anni).

Assai
pesanti sono, in terzo luogo, gli interventi manipolativi
attuati sull'istituto della detenzione domiciliare. Accanto a una
nuova fattispecie applicabile ai soggetti ultrasettantenni davvero
inaccettabile laddove consente la concessione della misura soltanto a
chi non "sia stato mai condannato con l'aggravante di cui
all'articolo 99 del codice penale", creando una sorta di stigma
indelebile che accompagna per sempre il condannato plurirecidivo,
è stato abbassato a tre anni, nei confronti del condannato
recidivo reiterato (recidiva prevista dall’art. 99, quarto
comma, cp nel testo riformulato dal progetto di legge) il limite per
l'accesso alla misura prevista dal comma 1 dell’art. 47 ter
ordinamento penitenziario. Detta modifica crea delle evidenti
disarmonie rispetto a fattispecie contigue: la detenuta madre o il
detenuto padre (in caso di morte o di assoluto impedimento della
prima) di prole di età non superiore ai dieci anni potranno
accedere alla detenzione domiciliare ex art. 47 quinquies
ordinamento penitenziario senza limitazione, anche se plurirecidivi e
addirittura condannati all'ergastolo (sia pure dopo l'espiazione di
almeno quindici anni di pena), mentre il recidivo reiterato
condannato a tre anni e sei mesi che si trova in stato di libertà
dovrà entrare necessariamente in carcere e rimanervi fino a
che non residuerà una pena inferiore ai tre anni; e lo stesso
vale per chi versa in condizioni di salute particolarmente gravi: il
condannato a tre anni e sei mesi, recidivo reiterato per reati di
modesta entità, non può beneficiare dell'istituto,
mentre può accedervi il condannato per omicidio volontario
(non plurirecidivo) che sta espiando gli ultimi quattro anni di pena.

Ambigua,
in quarto luogo, è la disciplina dettata dal novellato comma 1
dell’art. 58 quater ordinamento penitenziario secondo
cui l'ammissione ai benefici penitenziari non può essere
concessa al condannato riconosciuto colpevole di una condotta
punibile a norma dell'articolo 385 del codice penale – delitto
di evasione - (che dovrà essere interpretata in un'ottica
costituzionalmente orientata, e pertanto in maniera tale da
ricomprendere soltanto i casi in cui la “condotta punibile a
norma dell'articolo 385 del codice penale” sia successiva alla
commissione del fatto per il quale si chiede il beneficio, ché,
altrimenti, si introdurrebbe un inaccettabile automatismo preclusivo
che non tiene conto dell'evoluzione personale nel corso del
trattamento).

Infine
va segnalata la disciplina dei permessi premio, rispetto alla quale
si rinviene, sempre per i recidivi reiterati (recidiva prevista
dall’art. 99, quarto comma, cp nel testo novellato dal progetto
di legge), una stretta notevole (art. 4), anch'essa del tutto
priva, per le ragioni già evidenziate, di un reale fondamento
criminologico e verosimilmente giustificata solo
dall'ossessione securitaria che ispira il progetto di legge. Né
varrebbe affermare che in ogni caso, per i fatti antecedenti
all’entrata in vigore della legge, troverà applicazione
l'attuale, più favorevole disciplina. Sul punto, infatti, la
norma destinata a disciplinare i rapporti di diritto intertemporale
(art. 7) fa riferimento “all’imputato” e non al
condannato, cosicché la nuova disciplina dell'esecuzione
sembra applicabile ai procedimenti pendenti, ancorché in
malam partem
rispetto a quella attualmente vigente: a meno di
ipotizzare che i compilatori siano incorsi in un grave quanto
deplorevole (ancorché non improbabile) infortunio lessicale.

Un
conclusivo sguardo d'insieme rivela una forte quanto confusa
“compulsione repressiva” di tipo ideologico, una sorta di
riflesso pavloviano indotto dai rigurgiti securitari che
periodicamente si manifestano, talvolta trasversalmente, nelle
dichiarazioni e nelle iniziative parlamentari. In realtà la
disciplina in esame introduce elementi sensibilmente peggiorativi del
quadro normativo, non solo sotto il profilo tecnico-giuridico e della
scarsa capacità di armonizzazione sistematica, ma soprattutto
per la filosofia di fondo che la ispira, lungo le direttrici di
politica criminale tracciate dal vetusto canone della “centralità
della pena detentiva”. Un intervento che, in sintesi, realizza
una torsione repressiva del sistema dell'esecuzione, senza che ad
essa si accompagni alcun concreto intervento per risolvere i ben noti
problemi dell'universo penitenziario [sovraffollamento, assenza di
spazi ove realizzare adeguate iniziative trattamentali, assenza di
figure professionali dell’area educativa, mancanza di lavoro in
carcere, inadeguata tutela sanitaria, in particolare per le
problematiche psichiatriche in crescita ormai esponenziale (circa
31.548 casi accertati) ecc.]: problemi che il nostro sistema
detentivo non appare in grado di gestire, in assenza di una politica
giudiziaria razionale che non si muova sull'onda emotiva di
contingenze elettorali o, peggio, di interessi di fazione o
addirittura personali.

5.
Apparenza e realtà degli interventi in tema di criminalità
organizzata

A
prima vista il disegno di legge sembra inasprire sanzioni e norme
processuali con riferimento ai reati di mafia: lo si ricava
dall'aumento delle pene per il reato di cui all'art. 416 bis
del codice penale e dal “nuovo” art. 161, 2 comma, dello
stesso codice secondo cui, in caso di interruzione della
prescrizione, i relativi termini vengono raddoppiati per i reati di
cui all’art. 51, comma 3 bis del codice di rito (e
quindi per i reati di mafia). Per l'art. 416 bis, ad esempio,
attualmente la prescrizione, in ipotesi di mera partecipazione
(punita fino a sei anni), è di dieci anni (quindici in caso di
prescrizione prorogata) e diventa, dato che il progetto di legge
aumenta le pene edittali per la mera partecipazione a cinque anni di
minimo e dieci anni di massimo, di dieci anni (o quattordici anni e
sei mesi in caso di prescrizione prorogata); ma nel caso di ipotesi
aggravata per essere armata l’associazione (di assai più
frequente contestazione) la pena massima per la mera partecipazione
sale a quindici anni, sicché con la nuova normativa la
prescrizione ordinaria diventa di quindici anni.

Il
quadro cambia, però, profondamente se si guardano altre
ipotesi, assai ricorrenti nei processi per fatti di mafia. Bastino
alcuni esempi.

Nel
favoreggiamento aggravato ex art. 7 decreto legge n. 152/1991
(l'aggravante speciale per i reati di mafia), la prescrizione, oggi
decennale (in via ordinaria) e quindicinale (prorogata), scende
rispettivamente a sei e a dodici anni; e così nell'ipotesi di
calunnia si passa dagli attuali dieci anni (quindici in caso di
proroga), a sei (e sette anni e sei mesi per la prescrizione
prorogata). I termini di prescrizione, inoltre, vengono abbreviati
anche con riferimento ad altri delitti, tipici dell'attività
mafiosa. Basti ricordare il reato di usura (tipico reato-fine delle
organizzazioni criminali), con riferimento al quale il termine di
prescrizione, oggi decennale (e quindicennale in caso di proroga), è
sostanzialmente dimezzato, passando a sei anni (e a sette anni e sei
mesi in caso di proroga).

Difficile
dire che, in questo modo, si potenzia l'azione di contrasto alla
criminalità organizzata che pure è indicata come
obiettivo centrale della proposta di legge...

03 02 2005
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