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Quale Costituzione?

La giusta attenzione che il Congresso ha attribuito al disegno di legge di revisione della Costituzione, in discussione in parlamento, rischia di farci dimenticare che la Costituzione materiale è già cambiata e non da oggi.
Il nostro segretario nella parte iniziale della relazione ha rilevato che l'oggetto dell'attuale scontro politico è la stessa Costituzione, non solo quella formale, ma anche quella materiale e i valori che essa incarna e in particolare il valore dell'eguaglianza, che non a caso è la parola d'ordine di questo Congresso.
Ma l'inaudito attacco alla Costituzione che sta portando avanti l'attuale governo non deve deformare la nostra visuale.
Non dobbiamo illuderci cioè, alla luce dei recenti risultati elettorali regionali, che, se cadesse il governo o se fosse sconfitto alle elezioni del 2006, il problema della Costituzione e dell'eguaglianza sarebbe risolto.
Sarebbe certamente scongiurata la spallata più evidente, la più bieca diseguaglianza di origine territoriale, conseguenza della devoluzione, e il più pericoloso svuotamento dei poteri degli organi di garanzia a favore dei poteri del premier. Ma quale Costituzione resterebbe e a garanzia di quali valori?
Mario Dogliani, nel momento in cui la Costituzione del 1948 subisce l'attacco più violento, ci richiama giustamente alla riflessione sull'oggetto della Costituzione stessa e sui valori che incarna: in sostanza, se è giusto batterci a difesa della nostra Costituzione formale, non dobbiamo dimenticare la deriva della Costituzione materiale, che non sarebbe fermata dal fallimento del progetto governativo di revisione.
Perchè? Per due ragioni:
1) Prima dell'avvento dell'era berlusconiana, la Costituzione materiale era già stata cambiata da governi della Dc, craxiani e di centrosinistra. Come ci ricorda lo stesso Dogliani, al periodo del disgelo costituzionale (1969-1978), che ha consentito la realizzazione delle più importanti riforme nel segno della democrazia e dell'eguaglianza (dallo statuto dei lavoratori, alla riforma del diritto di famiglia, al servizio sanitario nazionale), è seguita l'epoca della "nuova glaciazione" (1979 - 1993), la Costituzione muta, di cui ha parlato ieri Stefano Rodotà, figlia del neoliberismo e delle suggestioni maggioritarie e leaderistiche.
Il carattere rivoluzionario della Costituzione del 1948 stava nel fatto che non si fissavano solo le regole, ma anche i fini che il legislatore ordinario doveva perseguire e, prima di tutto, il fine dell'eguaglianza sostanziale. Con la "nuova glaciazione" questo fine si è andato via via dissolvendo, sotto l'impulso del neoliberismo (ormai accettato anche da una parte importante del centrosinistra, come ci ha ricordato Renato Greco), incompatibile con una visione finalistica dello Stato, che al contrario deve fare molti passi indietro per non ostacolare il libero mercato, e del progressivo deterioramento del sistema democratico basato sui partiti verso una democrazia individualistica.
E allora, se nel 2006 dovesse vincere il centrosinistra, perchè mai la "glaciazione" dovrebbe regredire verso un nuovo "disgelo costituzionale", perchè dovrebbe riprendere a parlare?
2) Con l'era berlusconiana si è passati dalla "lotta sulla costituzione" alla "lotta per la costituzione" (ma i confini tra le due fasi, come dice sempre Dogliani, sono labili).
In questa seconda fase, indipendentemente dalla modifica della Costituzione formale, la Costituzione materiale è ulteriormente cambiata verso un'esasperata accentuazione della diseguaglianza.
Ciò è avvenuto attraverso una serie rilevante di controriforme approvate con legge ordinaria in molti importanti settori della vita dei cittadini, riforme che non sto qui a ricordare, perchè oggetto delle più importanti battaglie di Md degli ultimi anni (farò subito dopo solo l'esempio del diritto del lavoro).
Ma, se dovesse vincere il centrosinistra, tutte queste leggi saranno abrogate o qualcosa, o più di qualcosa, sarà conservato, in segno di continuità con la fase di "glaciazione" precedente e in ossequio alle indicazioni della Comunità europea, ancora ispirate a principi liberisti, seppure in fase di attenuazione (per il futuro sarà sufficiente la Costituzione europea ad imprimere nuovo slancio ai diritti fondamentali)?
L'esempio del diritto del lavoro è illuminante!
I diritti dei lavoratori sono al centro della costruzione costituzionale: non solo la Repubblica è fondata sul lavoro (art.1) e il diritto al lavoro è il primo diritto enunciato solennemente (art. 4), ma la norma base di carattere finalistico relativa all'eguaglianza sostanziale (art. 3 cpv.), fa un'espresso richiamo alla necessità di assicurare "l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese".
Durante l'epoca del "disgelo costituzionale" diverse leggi hanno seguito la direzione segnata da tali principi. Soprattutto lo Statuto dei lavoratori, con una serie di norme a tutela della dignità e della libertà della persona-lavoratore dentro l'azienda, sia come individuo che collettivamente tramite i sindacati, ha rappresentato una delle riforme più efficaci per la democratizzazione della società, svincolando il lavoratore da una condizione quasi servile. In particolare l'art. 18 ha consentito al lavoratore l'effettivo esercizio dei diritti del lavoro, senza paura di eccessive ritorsioni, costringendo i datori di lavoro ad un maggiore rispetto delle norme di tutela.
Va ricordata anche la riforma del processo del lavoro del 1973 che, allo scopo di tutelare in modo differente e più incisivo i lavoratori, prevedeva, come scriveva Pino Borrè, un processo volontariamente diseguale per riequilibrare lo svantaggio di partenza del lavoratore rispetto al datore di lavoro, realizzando quindi concretamente l'intervento riequilibratore voluto dalla Costituzione.
Ma sul diritto del lavoro incombeva la "nuova glaciazione", che, sotto la spinta della crisi economica degli anni '70 e del neoliberismo, ha dato inizio ad una progressiva erosione delle tutele del lavoro, allontanando l'obiettivo finalistico riequilibratore a favore dei lavoratori esplicitato dall'art. 3 cpv.
Ciò si è realizzato, come segnalato nella relazione del segretario, soprattutto con la precarizzazione dei rapporti di lavoro, fenomeno che ha avuto la propria origine negli anni '70 ed '80 e che non è stato quindi inventato da Berlusconi, come ci ricordava Palombarini. Sono di quegli anni, infatti, le leggi sul contratto di formazione e lavoro, sul contratto di "solidarietà", sul part-time, sull'allargamento delle maglie del contratto a termine, fino al c.d. pacchetto Treu del 1997, che ammorbidì il regime sanzionatorio della violazione delle norme sul contratto a termine ed introdusse il c.d. lavoro interinale o temporaneo.
La conseguenza è stata il progressivo abbandono della forma classica di rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, che aveva raggiunto uno stadio sufficiente di tutela, attraverso la rete di garanzie che si è sopra descritta.
La legislazione relativa ai rapporti flessibili o precari sta provocando l'aggiramento di quelle tutele, semplicemente riducendone il campo di applicazione, dando cioè agli imprenditori sempre più strumenti per evitare di concludere rapporti a tempo indeterminato ed utilizzare invece rapporti precari privi di diritti e che non consentono neppure adeguate difese collettive.
Il processo di precarizzazione è stato portato alle estreme conseguenze dal governo Berlusconi con la sostanziale liberalizzazione del contratto a termine, con la riforma dell'orario di lavoro, che consente all'imprenditore una gestione unilaterale più flessibile e variabile degli orari, e con la c.d. legge Biagi, che consente forme più elastiche e flessibili di part-time ed ha introdotto nuovi rapporti, dal "lavoro intermittente", al lavoro a "prestazioni ripartite" al "lavoro a progetto".
Come è stato scritto nella relazione, "si tratta di una legislazione incostituzionale nella sostanza, poichè è evidente che la precarizzazione allontana l'obiettivo perseguito dalla Costituzione di riequilibrio delle situazioni di diseguaglianza sostanziale, come quella del lavoratore, che si trova in posizione di partenza svantaggiata rispetto al datore di lavoro".
Peraltro la precarizzazione non incide solo sui diritti del lavoro, ma mette in discussione tutti i diritti fondamentali della persona, come il diritto alla salute, per le particolari condizioni di stress del lavoratore precari e per il maggior rischio di infortuni (tema richiamato con forza da Smuraglia), o il diritto ad una vita libera e dignitosa. Dove va a finire la "dignità", di cui parla l'art. 3 Cost. e la Carta di Nizza, per il lavoratore precario che non può ammalarsi, non può avere prestiti dalle banche, difficilmente può affittare una casa o pensare alla prospettiva di una pensione?
Certamente ci sono lavoratori che stanno anche peggio, come i lavoratori stranieri irregolari (che sono precari al quadrato e le donne straniere irregolari sono precarie al cubo, come è stato detto efficacemente): ma per i precari in regola sta peggio il diritto, perchè si è legalizzata l'illegalità costituzionale.
Parallelamente anche il processo del lavoro ha subito un progressivo svuotamento, per l'indifferenza del legislatore di fronte ad una crisi causata in buona parte da organici ormai inadeguati o mal distribuiti in rapporto all'aumento della domanda, in parte fisiologica, perchè dovuta alla accresciuta libertà dei lavoratori di chiedere giustizia senza ritorsioni, e in parte conseguente all'attribuzione di nuove rilevanti fette di giurisdizione al giudice del lavoro.
I governi precedenti, anche di centrosinistra, non hanno certo brillato nella soluzione del problema, intervenendo sugli organici del lavoro, tardivamente, solo con l'aumento disposto nel 2001.
Ma il governo Berlusconi ha addirittura teorizzato la necessità di marginalizzare i giudici del lavoro (nel noto Libro bianco di Maroni) e ha ritardato in tutti modi l'aumento di organico previsto (dopo quattro anni non è stato ancora completato). Con il secondo decreto di questi giorni il Ministero di giustizia ha omesso di attribuire direttamente agli uffici del lavoro l'aumento di 116 magistrati, come imposto dalla legge del 2001, attribuendoli genericamente al Tribunale e con criteri cervellotici o forse padani, solo parzialmente corretti a seguito del parere del Csm (un esempio estremo: è stato disposto l'aumento di un'unità per Como, che ha sopravvenienze pro-capite inferiori alle 300 cause e solo 93 di lavoro, mentre non è stato disposto per Messina, con oltre mille cause procapite, di cui 284 di lavoro).
Il processo del lavoro va quindi paralizzato, così come va ridimensionato il diritto del lavoro. Anzi viene messa in discussione la stessa ragion d'essere del diritto del lavoro, nato dalla constatazione, che fino ad oggi sembrava ovvia, che il rapporto di lavoro non è equiparabile ad un normale rapporto commerciale, a causa dello squilibrio di partenza esistente tra le parti, sia sul piano economico che del potere contrattuale. Il lavoratore, cioè, è la parte debole del rapporto e non può quindi essere lasciato in balìa del datore di lavoro, ma va tutelato attraverso limiti e condizioni.
La domanda conclusiva è: cosa farà il centrosinistra se dovesse vincere le elezioni del 2006? Cosa ne farà delle controriforme del governo Berlusconi? Il sen. Brutti ci ha promesso una "svolta di sistema".
Ma cosa farà in particolare il centrosinistra per il lavoro precario? Considera ineluttabile l'abbandono del tipo classico di rapporto subordinato e delle sue tutele, o addirittura crede nella necessità liberista di un alleggerimento delle tutele? O, altrimenti, quali tutele nuove intende predisporre per i lavori precari, quali nuovi forme di tutele collettive e quali appositi strumenti previdenziali? Intende prevedere garanzie per i periodi di non lavoro, ragionare sul reddito sociale o di cittadinanza?
A queste domande servono risposte non evasive o generiche, che troppo spesso si leggono nei programmi sulla giustizia.
 
 


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