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Intervento di Emilio Sirianni

Ascoltando ieri Stefano Rodotà, Elena Paciotti e Franco Ippolito parlarci del nuovo ruolo del giudice sul terreno della globalizzazione dei diritti era impossbile non sentirsi fortemente coinvolti, non sentirsi chiamati ad un impegno cui non ci si potrà sottrarre.

Purtroppo, però, dovrò di nuovo angustiarvi con la bruta materia di cui è ancora fatto il nostro lavoro in molti uffici.

Come qualcuno di voi sa, vivo e lavoro in Calabria, il luogo delle regole capovolte, la terra dell’inenarrabile che tuttavia vorrei provare a narrarvi. Perché, come rilevava Juanito in una delle molte visite che ci ha fatto, da noi non accade nulla di diverso da quanto accade altrove, accade semplicemente di più. Siamo sempre dieci passi avanti nel declino civile, politico, istituzionale e forse potremmo descrivervi il paesaggio dietro la curva che non avete ancora imboccata.

Tempo fa a Cosenza venne emessa la nota ordinanza cautelare contro i no global locali, per i fatti di Genova e Napoli. Un’ordinanza intessuta, per dirla con la Cesqui, di una sorta di barocchismo inquisitorio”, il cui autore rinuncia tanto alla fatica della prova delle responsabilità individuali, che a quella di un’interpetazione costituzionalmente orientata delle fattispecie del titolo I°. Nella quale la complessità dei fenomeni politici e sociali di contestazione globale all’ordine economico costituito e quella dei fenomeni di eversione internazionale vengono brutalmente costrette negli angusti spazi di un orizzonte stracittadino. Tradendo anche una discreta impermeabilità al ridicolo, nel prospettare una sorta di centralità cosentina nei disordini planetari che vanno da Napoli a Genova, da Seattle a Goteborg, da Davos a Barcellona.

Vi fu in città un reazione spontanea e di massa agli arresti, accompagnata da forti critiche di esponenti politici anche di livello nazionale. Si formularono, in particolare, accuse di criminalizzazione del dissenso che ritengo non solo legittime, ma anche fondate, non foss’altro che per la natura delle norme incriminatrici ed il modo in cui sono state maneggiate.

In una successiva, partecipata assemblea della locale sotto sezione dell’ANM noi di MD siamo stati nettamente battuti da una linea di totale solidarietà ai colleghi ingiustamente attaccati”. Alla quale, peraltro, hanno aderito anche alcuni dei nostri. In quell’assemblea ho avuto una percezione quasi fisica della nostra marginalità politica e culturale nel tribunale.

A Vibo Valentia, durante la scorsa campagna elettorale per il CSM, abbiamo incontrato i colleghi, fra i quali il Procuratore e la Presidente della sezione civile, entrambi particolarmente loquaci a differenza degli altri presenti. Abbiamo ascoltato le consuete lamentele sulle carenze di mezzi e poco altro. Nulla che lasciasse presagire l’arresto, pochi mesi dopo, proprio di quella collega insieme ad alcuni pericolosi ‘ndranghetisti locali. Scoppiato il bubbone (un grosso bubbone a quanto ne so), abbiamo cercato di incontrare i colleghi di quel Tribunale in sede neutra, per evitare possibili condizionamenti ed abbiamo così convocato una riunione della sezione a Lametia Terme, sollecitandoli personalmente a partecipare. Nessuno di essi ha, però, ritenuto di farlo. Ci riproveremo recandoci direttamente a Vibo e vedremo se andrà meglio.

In quel tour elettorale, siamo stati anche a Rossano, altro piccolo tribunale composto da giovanissimi colleghi, nonché sede disagiata e l’unico argomento che ha animato il dibattito è stato quello concernente l’estensione dei benefici della sede disagiata anche ai c.d. equiparati”. Che abbiamo, peraltro, affrontato sulla difensiva, preceduti dalla disinformazione di Unicost sulle posizioni dai nostri assunte in CSM. Eppure anche in quel tribunale vi erano problemi di non poco conto: forti scontri con l’avvocatura, un presidente che per due bienni aveva avuto le tabelle integralmente bocciate da C.G. e CSM e finanche, non molto tempo prima, un giudice destituito dalla magistratura a causa di diverse condanne per gravi reati e che negli anni trascorsi a Rossano non usava depositare sentenze.

E’ da notare che gli uffici di Vibo e Rossano, come quelli di Paola o Castrovillari ed altri in Calabria, si svuotano ogni venerdì, al massimo e tornano a riempirsi solo il lunedì o il martedì successivi: ciascuno fa ritorno alla propria città d’origine ed alla consueta condiscendenza dei capi degli uffici oggettivamente corrisponde l’assenza di critiche o contrasti sul modo in cui essi esercitano le loro funzioni.

Vorrei poi dire qualcosa anche sugli uffici di Locri, sebbene appartengano ad altro distretto, perché a quel territorio sono particolarmente legato ed anche perché è nella Locride che è stato commesso il delitto che ha determinato un’attenzione, anche in MD, sulla Calabria che prima non ricordo esservi mai stata: l’omicidio dell’On Fortugno.

Gli sviluppi delle indagini svolte, che paiono collocarne la genesi nell’ambiente della sanità, di quella locrese in particolare, non destano meraviglia fra i cittadini calabresi, ben consci di come le aziende sanitarie siano una delle poche fonti di occupazione e ricchezza del territorio, profondamente permeabili agli interessi della criminalità organizzata.

Proprio su quanto accaduto nella AS di Locri Fortugno aveva presentato una denuncia che, stando alle notizie di stampa, passò all’ufficio GIP un paio d’anni dopo con richiesta d’archiviazione, senza che fossero state svolte indagini. Sono comparsi articoli critici su alcune contraddittorie dichiarazioni in merito rilasciate dal Procuratore di Locri e sull’operato della Procura, nei quali si evidenziava anche che, all’epoca del deposito della denuncia, l’ufficio sarebbe stato retto da un giovane facente funzioni, nipote dell’ex assessore regionale alla sanità, nonché ex dirigente di quella stessa AS.

A tali critiche la locale sezione dell’ANM ha reagito con uno scarno documento, in cui si stigmatizzava la campagna stampa, si auspicava un maggior senso di misura e si solidarizzava col Procuratore.

Bene, io ho letta quella denuncia, pubblicata su di un giornale locale, e conosco abbastanza la Locride. Ritengo che in essa siano riferiti fatti molto gravi, che, in quel contesto, ben potrebbero, potrebbero si badi bene, costituire la causale di un omicidio, anche eccellente. E’, in realtà, un interpellanza alla Giunta Regionale, indirizzata anche ad altre autorità e nella quale si parla: di consulenze prive di giustificazione per miliardi, fra le quali una conferita allo zio di quel giovane f.f.; di interi reparti doppione creati per consentire nomine clientelari; di una spesa farmaceutica aumentata di 20 miliardi in un solo anno, della riscontrata illegittimità di tutte le delibere esaminate dal Collegio dei revisori e dal Collegio sindacale; di compensi per svariati miliardi relativi a forniture di beni e servizi per le quali non esisteva alcun contratto. Il tutto con indicazione degli estremi delle delibere e dei nomi delle persone e delle aziende interessate.

Penso, quindi, che fosse giusto chieder conto di come sia stata trattata quella denuncia. Probabilmente è solo mediocre giornalismo alludere alle parentele dell’allora f.f. e certamente nessuna responsabilità può essere addebitata al Procuratore, nominato solo in epoca successiva, tuttavia, lo dico sommessamente, ma non posso non dirlo, quella dell’ANM non mi è parsa una posizione adeguata alla gravità dei fatti. Più un riflesso corporativo che una riflessione su quanto accaduto in quell’ufficio.

A me risulta che si sia lasciata reggere la Procura ad un sostituto con appena 4 anni di anzianità per circa otto mesi e che, solo dopo il suo trasferimento, era nominato reggente uno degli inquirenti più esperti del distretto in materia di criminalità organizzata. Il quale è rimasto sconvolto da ciò che ha trovato nell’ufficio e ne ha informato il Procuratore Generale. Fra quanto da lui accertato mi limito a segnalare l’esistenza di 4200 procedimenti contro noti con termini di indagine scaduti, per lo più da molti anni, su di un totale di circa 5000 e circa 9000 procedimenti contro noti fantasma, cioé risultanti dal registro, ma inesistenti in ufficio. Dati già riscontrati in un’ispezione nel 2001.

Né l’ispezione né le denunce di quel reggente hanno prodotto alcunché

Ed è forse proprio da qui che si può partire per dare un senso a questo accidentato racconto.

Io non intendo scegliere uno dei due corni del dilemma che ci ha afflitto, però, riflettendo su questi ed altri fatti, mi viene da farmi e da farvi una domanda: fin dove ci si deve o ci si può spingere per invertire la tendenza che ci sta vedendo diventare un gruppo di soli magistrati d’appello e cassazione?

Parlare degli uffici, ad esempio, non è qualcosa di neutro se lo si fa assumendo il punto di vista della tutela dei diritti e del servizio da rendere ai cittadini e non limitandosi a quello delle condizioni di lavoro dei magistrati.

Le sollecite coperure degli organici e le puntuali forniture di beni e servizi rappresentano pre condizioni per qualsiasi discorso in materia di giustizia, ma dovrebbe essere un pò poco per noi di MD.

L’ufficio funzionante che dovremmo avere in mente dovrebbe essere quello in cui il Presidente che redige tabelle ripetutamente bocciate sia tallonato dalle puntuali osservazioni dei giudici e non sia remunerato con un parere positivo del CG, per di più col voto favorevole di un nostro rappresentante, perché questa è la prassi ed in fondo siamo tutti colleghi. Dovrebbe essere quello in cui i magistrati garantiscano la loro presenza per l’intera settimana, anche a costo di non poter tornare a casa nei week-end, tanto più se quella presenza è il presupposto dei benefici che con tanta foga si rivendicano. Dovrebbe essere l’ufficio nel quale il senso della funzione porti tutti a vigilare su anomalie, irregolarità, frequentazioni o addirittura cointeressenze pericolose, ad interrogarsi sul senso reale delle stesse e magari anche a reagire, prima che un accadimento deflagrante come quello dell’arresto per mafia di un suo dirigente giunga a suscitare inquietanti domande sul silenzio assordante che l’ha preceduto e seguito. Dovrebbe essere quello in cui una Procura come quella di Locri non venga lasciata reggere per lunghi mesi da un giovanissimo magistrato. L’ufficio funzionante dovrebbe essere quello in cui dalla magistratura, prima che da ogni altro, giunga la richiesta di far chiarezza sull’oggettiva sparizione” della denuncia di Fortugno, insieme a quella di altre migliaia di notizie di reato.

Dovrebbe essere composto da magistrati capaci di assumere il punto di vista della comunità in cui operano. Tanto più quando si tratti di una comunità quotidianamente offesa dalle ferite di un potere politico-criminale oppressivo.

Io non sono fra quanti si beano d’appartenere alla minoranza dei giusti. Non mi consolo col pensiero che i magistrati siano una corporazione fondamentalmente reazionaria e darei un occhio per vedere MD gruppo di maggioranza relativa. Non, però, un’emmedì incapace di assumere il punto di vista del cittadino, di tallonare il collega o il dirigente incapace, di criticare il provvedimento meritevole di critica.

E’ persino banale dire che se MD attenuasse il poprio impegno nell’analisi culturale e dei fenomeni sociali e politici di cui è intessuto il prodotto giuridico svilirebbe in gruppo corporativo e che se, viceversa, perdesse di vista i problemi del lavoro quotidiano dei magistrati si ridurrebbe ad un élite di giuristi colti.

Il problema che vedo io, però, non riguarda il solo gruppo dirigente, ma ci riguarda tutti e concerne l’indifferenza rispetto a ciò che accade oltre la porta del nostro ufficio, la pigrizia che ci induce a non domandarci cosa accada nella porta accanto e, ancor di più, oltre i portoni dei nostri tribunali. Anche perché è da MD che ho imparato che il diritto di critica ed il controllo dei cittadini sono le vere manifestazioni di sovranità popolare nell’attività giurisdizionale e che l’interferenza, l’informazione qualificata dall’interno, è il modo in cui i magistrati possono agevolare l’esercizio di questa sovranità.

Vorrei, dunque, che l’impegno sui principi non si riduca a mera convegnistica o produzione scientifica, ma si traduca in un tessuto di relazioni individuali e di gruppo con le comunità in cui ciascuna sezione opera. Vorrei che l’attenzione ai problemi degli uffici fosse sempre funzionale alla qualità del prodotto reso e che ciascun magistrato sentisse la responsabilità per quel prodotto come propria. Come, cioé, se il provvedimento o la condotta censurabile del collega fossero il proprio provvedimento, la propria condotta.

Sinceramente non so se un atteggiamento del genere possa valere a far aumentare i consensi o se invece non abbia l’effetto opposto, so solo che questo è quel che io mi attendo da Magistratura Democratica.

Emilio Sirianni


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