le nuove frontiere della giurisdizione
Nel congresso di Palermo del maggio 2005, forse nell’euforia conseguente al risultato delle elezioni regionali che lasciava presagire la fine di un incubo, Magistratura Democratica si compiaceva della vitalità del gruppo che confermava il suo impegno per la difesa dei diritti, malgrado le difficoltà di ogni genere, e del fatto che tutta l’ANM aveva condiviso con noi le battaglie per l’indipendenza della giurisdizione, messa a dura prova dal governo delle destre.
A distanza di poco più di venti mesi, in un clima del tutto diverso, il dibattito precongressuale, fortemente influenzato dall’esito deludente delle elezioni per il CSM e dall’ambigua politica sulla giustizia della nuova (e debolissima) maggioranza di governo, ha denunciato la crisi della corrente, giungendo a rimettere in discussione ruolo e identità di MD.
Senza mezzi termini alcuni hanno rilevato che la corrente è diventata un gruppo vecchio, chiuso ed elitario, che ha scarso appeal sui giovani magistrati, schiacciati dal peso di un lavoro pesante e deprimente, e quindi impossibilitati a seguirla in astratte analisi culturali e politiche lontane dai quotidiani problemi della giustizia; un gruppo, in sostanza, il cui progetto politico è ormai superato e che non riflette e rappresenta la generalità della magistratura. Da qui la convinzione che il recupero con la realtà di base della giurisdizione passa necessariamente per un cambio di identità, almeno parziale, della corrente.
Io non credo che anche Magistratura Democratica sia entrata in una di quelle fasi storiche in cui per sopravvivere bisogna rinnegare se stessi. Se così fosse non ci resterebbe che trasformare questa sede congressuale nella nostra “Bolognina”, magari cambiare nome e avviarci nella costruzione di un nuovo soggetto dai contorni più sfumati insieme ad altre formazioni a noi vicine.
Non intendo banalizzare analisi che fanno parte a pieno titolo della cultura di MD e sono in parte fondate su dati di fatto inconfutabili. Mi sembra di poter dire, però, che alcune di queste valutazioni sono condotte in un’ottica tutta interna all’istituzione giudiziaria, discorsi ‘di magistrati per magistrati’ direbbe Juanito, che non considerano che la crisi di identità e il disagio di MD - che non mi sogno di disconoscere - hanno, purtroppo, radici ben più profonde di una sconfitta elettorale e della relativa incapacità di comprendere i problemi quotidiani dei magistrati; radici che affondano nel clima politico e sociale che attraversa il Paese e che investe, direi, lo ‘stato di salute’ dei valori di ispirazione costituzionale che costituiscono il nostro orizzonte culturale.
Per cause esterne, ben note, legate alla globalizzazione e al primato dell’economia, e per cause interne connesse alla crisi del sistema politico e ai caratteri della nostra destra - che è riuscita a far passare come battaglia di libertà una visione della vita improntata ad un individualismo insofferente alle regole e ad ogni opzione egualitaria o solidaristica - oggi si consuma la “crisi della superiore legalità costituzionale” che si manifesta, secondo Gaetano Azzariti, non solo nell’appannamento del valore precettivo e normativo dei principi costituzionali, ma anche nella “perdita del loro valore assiologico”, testimoniata dal convincimento, che attraversa da destra a sinistra quasi tutte le forze politiche, che le esigenze della competitività del sistema paese, del contenimento della spesa pubblica, della sicurezza, degli impegni internazionali siano di fatto poco compatibili con i più significativi precetti costituzionali. L’intero sistema politico si muove, quindi, con differenze di scarso peso, all’interno di un unico e indiscusso modello sociale, con una logica non apertamente contraria ma indifferente ai principi costituzionali. E’ ciò che oltralpe definiscono “le blanchissement du politique”, ossia sgravare la politica dal compito difficile di garantire, anche nel mondo dominato delle logiche mercantili, la tutela dei diritti. Questa resta affidata solo agli spazi che saprà trovare la giurisdizione. Ma nessuna maggioranza di governo intende più attribuire strumenti e dignità ad una giurisdizione che difendendo i diritti si collocherebbe obiettivamente in contrasto con le scelte della politica.
In questo snodo sta gran parte delle difficoltà di MD che, mentre opera nelle istituzioni nelle condizioni che conosciamo, vede assottigliarsi quel referente sociale e politico che costituiva la sponda esterna alla sua azione. Non sorprende, pertanto, il disagio di un gruppo i cui valori di riferimento sono considerati, anche in parte della sinistra, il retaggio di una cultura giuridica d’altri tempi portata avanti stancamente con parole d’ordine ormai prive di fascino.
Detto questo non va, però, disconosciuto che il nostro richiamo ai diritti e ai valori costituzionali ha assunto spesso toni rituali, consolatori, un omaggio alle nostre radici culturali e poco più; così come, a volte, il nostro attestarci nella trincea difensiva a tutela della Costituzione, soggetta ad ogni tipo di aggressione, ha per certi aspetti ingessato il nostro orizzonte di valori e non ci ha consentito di considerare che la funzione di tutela dei diritti va continuamente adeguata all’evoluzione della società.
Poiché sono convinto, al pari di Juanito Patrone, che la difesa dei diritti resta la ragione principale del nostro stare insieme, credo che ancora su questo versante si giochino ruolo, futuro e identità di MD. Ma bisogna andare oltre un generico e rassicurante richiamo ai principi costituzionali e chiedersi nello specifico come si tutelano oggi i diritti, quali siano i diritti da garantire e con quali strumenti giuridici, giacchè, ci ricorda Rodotà, neppure una norma costituzionale ferma la storia. Sono evidenti, infatti, le difficoltà che discendono dal fatto che la nostra Costituzione ha collocato i diritti nel flusso delle relazioni sociali mentre oggi il processo di individualizzazione che caratterizza la società globalizzata appanna ruolo e funzione delle organizzazioni collettive che tanto peso hanno avuto sulla effettività dei diritti fondamentali individuali e collettivi. Così come è evidente l’aporia derivante dal fatto che la Costituzione non è stata (e non poteva essere) pensata per la tutela dei diritti di nuova generazione (connessi allo sviluppo delle tecnologie, alla salvaguardia dell’ambiente, ecc.) e che nulla dice sui temi della biopolitica - la nascita, la vita, la morte, i limiti e la responsabilità della scienza – che pure segnano drammaticamente i bisogni individuali della modernità.
Tutto ciò non ci consente più di assumere la difesa della Costituzione con atteggiamento conservatore, come tavola di diritti compiuti e immutabili nel tempo. Ciò che oggi conta è saper cogliere nella Costituzione quella che Palombarini chiama la ‘natura progressiva’, che le permette di restare viva attorno al nucleo essenziale dei valori non negoziabili e non modificabili, espressi dai principi-cardine dell’uguaglianza, della solidarietà e soprattutto della dignità della persona che, declinabile sotto diversi profili ed in ogni contesto storico-politico, fa della Carta del 48 “un testo di grande apertura verso il futuro tale da rendere possibili le integrazioni e le ibridazioni legate alle dinamiche e alle innovazioni dei tempi nuovi” (Rodotà).
Un importante punto di riferimento giuridico o quanto meno politico-culturale viene a tal riguardo dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Europa. Pur se possono mantenersi serie riserve sul lento, faticoso e contraddittorio processo di costruzione di un’Europa dei diritti, deve ammettersi che la Carta di Nizza con l’ampio ventaglio dei nuovi diritti e con l’affermazione solenne della indivisibilità dei diritti raggruppati attorno ai valori fondamentali della dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà, giustizia e cittadinanza realizza la ‘ricomposizione’ dei beni primari costitutivi della dignità di ogni individuo e rappresenta un progetto di “costituzionalizzazione della persona” che apre alla giurisdizione nuovi terreni di intervento.
E’ proprio sul versante della tutela della dignità della persona, infatti, che la giurisdizione è oggi chiamata a svolgere una funzione insostituibile, operando come ‘istituzione di frontiera’ (Palombarini), capace, cioè, di elaborare sulle basi delle varie Carte dei diritti, come ha rilevato Sergio Mattone a commento del caso Welby, “un valido diritto giurisprudenziale che si misuri con le difficoltà dell’ordinamento positivo” in materie nelle quali anche la legge a volte deve ritrarsi, al cospetto delle nuove domande che nascono dall’esplosione della vita in tutte le sue sfaccettature e che riguardano bisogni primari da soddisfare - quali la procreazione, la vita, la morte, la laicità, la libertà di autodeterminazione ,ecc. - a cui una politica votata al puro calcolo economico non sa, non può o non vuole dare risposte.
E’ un compito al quale la Magistratura non può sottrarsi e per il quale MD può dare un contributo decisivo, grazie ai tratti specifici della sua identità di soggetto culturale e politico capace di costruire prospettive di futuro radicate sul principio della irriducibilità della persona a logiche di scambio economico o a gabbie identitarie – etniche, religiose, culturali – che la mortificano.
E’ una prospettiva alla quale non possiamo rinunciare e che noi dobbiamo portare nei luoghi in cui esercitiamo la nostra funzione e in quelli in cui discutiamo delle riforme di cui ha bisogno il sistema giustizia. Perché ogni progetto per la giustizia, ogni proposta diretta al miglior funzionamento della giurisdizione che non siano finalizzati alla tutela dei diritti fondamentali della persona, sia quelli tradizionali che quelli connessi all’evolversi della modernità, rischiano di tradursi in un esercizio di sterile efficientismo che non incide sui bisogni primari dell’individuo.
Del resto, se in un momento storico come quello che attraversiamo, una formazione culturale e politica di sinistra, come noi siamo, non sa costruire rappresentazioni che portino a sperare e non sa costruire le sue utopie manca alla sua funzione e al suo ruolo ed è destinata a declinare anche come soggetto del cambiamento.
Renato Greco