Editoriale
Il sistema giustizia è investito da rinnovate polemiche: di carattere pratico, ma anche teorico. Il verbo del nuovo che avanza, esposto, tra gli altri, dal sen. Pera nel congresso di Magistratura democratica del novembre scorso, è, in verità, antico: spoliticizzare il diritto e la scienza giuridica e ridurre l'interpretazione (e il diritto stesso) a pura tecnica.
Già lo scriveva, quasi un secolo fa, Arturo Rocco: O noi ci sbagliamo, o non c'è altro rimedio che questo: rimedio semplicissimo, almeno ad enunciarlo: tenersi fermi, religiosamente e scrupolosamente attaccati allo studio del diritto: del diritto positivo vigente, il solo che l'esperienza ci addita e il solo che possa formare l'oggetto di una scienza giuridica, quale la scienza del diritto penale è, e quale, sbugiardati ormai gli oracoli di una comoda, quanto inesatta, antropologia, essa deve e vuol rimanere.
Il seguito è noto; e non può ignorarlo la cultura giuridica democratica.
Dal diritto alla sua applicazione e ai suoi interpreti il passo è breve.
Cosi la rilettura del sistema giuridico spiana la strada ad un attacco frontale all'esperienza giudiziaria degli ultimi decenni e a chi (Magistratura democratica in primis) ne è stato protagonista.
L'inizio è la delegittimazione del cuore della Costituzione: di quell'art. 3 che, dopo aver affermato l'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, denuncia lo scarto esistente tra principi e realtà, impegnando la Repubblica (e, dunque, tutte le sue articolazioni istituzionali, tra cui la magistratura) a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese.
Tale denuncia viene irrisa: è impossibile - si dice - identificare, in un sistema complesso, i sottoprotetti, la parte debole, i non uguali meritevoli di una tutela particolare tesa a integrarli nella cittadinanza.
Inutile dire che ciò non è casuale. Esclusi dall'ordinamento il concetto stesso di disuguaglianza e l'obbligo di rimuoverla diventa semplice accusare Md (o i giudici progressisti in genere) di perseguire fini esterni alla giurisdizione incompatibili con l'imparzialità e con la lealtà istituzionale.
Semplice, ma falso e caricaturale.
Il secondo passaggio è l'asserita inconciliabilità dell'impegno politico di un gruppo di magistrati con l'imparzialità richiesta alla funzione giudiziaria.
Rilievo suggestivo, ma smentito dalla storia e dalla realtà.
Passione politica e imparzialità nel giudizio non sono antitetiche né incompatibili.
Al contrario, l'imparzialità esige intelligenza (e, dunque, capacità di capire e interpretare i fatti) e trasparenza. Essa è disinteresse personale, estraneità agli interessi in conflitto, distacco dalle parti, non anche indifferenza alle idee e ai valori (che, oltre ad essere impossibile, sarebbe assai pericolosa in chi deve giudicare). Nuoce all'imparzialità la politica intesa come gestione del potere, insieme di legami affaristici, conflitti personali o di gruppo, logiche di contrapposizione tra amici e nemici; non anche la politica intesa come dibattito e confronto delle idee (in particolare sullo Stato e sulla giustizia).
Solo la cultura e l'esperienza della polis assicurano buoni giudici e il rispetto della regola fondamentale del garantismo: assolvere in assenza di prove anche quando l'opinione pubblica vorrebbe la condanna e condannare in presenza di prove anche quando l'opinione pubblica vorrebbe l'assoluzione.
Ad essere contestata è, infine, la politicità dell'interpretazione: si ammette (e come negarlo?) che l'attività interpretativa non è puramente meccanica ma di ciò si dà una lettura riduttiva che finisce per vanificare l'ammissione.
E, invece, l'interpretazione è - non può che essere - scelta tra le opzioni possibili in base al testo della norma e al sistema in cui essa si inserisce. E scegliere significa privilegiare alcuni o altri elementi di valutazione.
Ciò è più evidente quando al giudice è rimessa la determinazione di concetti generici o mutevoli nel tempo (gli esempi scolastici - buon costume, onore, prestigio - possono essere moltiplicati all'infinito), ma è una costante di ogni attività interpretativa, come dimostra il modificarsi degli orientamenti della stessa Cassazione, pur in teoria garante della nomofilachia.
Il fenomeno, poi, acquista dimensioni particolarmente acute in un ordinamento caratterizzato da una produzione legislativa alluvionale e contraddittoria. In questa situazione l'ancoraggio ai principi costituzionali, e tra essi alla norma fondamentale dell'art. 3, lungi dall'essere una forzatura,è dovere del giudice e fattore di riduzione dell'arbitrio interpretativo.
febbraio 2001
(l.p.)