Editoriale
La legislatura si è chiusa con il varo, sul filo di lana, di un numero impressionante di provvedimenti normativi in materia di giustizia. Si è trattato di interventi eterogenei che hanno toccato più settori (dalle adozioni ai procedimenti di volontaria giurisdizione o alle misure contro la violenza domestica: alle quali ultime è dedicato, in questo fascicolo, un primo commento di D. Abram e M. Acierno), ma che si sono concentrati soprattutto nel settore penale sostanziale e processuale: dal decreto antiscarcerazioni al pacchetto sicurezza, dalla normativa di attuazione dell'art. 111 Costituzione alla disciplina delle indagini difensive, dalla regolamentazione della difesa di ufficio e del patrocinio a spese dello Stato alla tutela e al trattamento dei collaboratori di giustizia.
Il quadro che ne consegue è articolato e talora contraddittorio (oltreché, spesso, tecnicamente approssimativo): spetterà, dunque, agli interpreti dare al sistema razionalità ed equilibrio.
A ciò questa Rivista darà il suo contributo: già in questo fascicolo l'obiettivo si appunta su realtà e prospettive del processo penale (con contributi di L. Marini, L. Pepino, R. Oliveri del Castillo e G. Cascini) e un più vasto lavoro di commento e approfondimento è programmato per i prossimi numeri.
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La riforma legislativa si intreccia sempre più, nel sentire degli operatori, con la questione organizzativa.
Produttività, indicatori, obiettivi, programmazione, tempi, risorse, statistiche sono termini che ricorrono ormai in qualunque dibattito sul tema, forse nel tentativo di colmare il ritardo con cui tutta la cultura giuridica italiana ha iniziato a guardare all'efficienza del sistema.
Sul punto Questione giustizia ha da tempo aperto un confronto che si arricchisce, in questo fascicolo, con la pubblicazione di un ampio documento di Magistratura democratica ( Tra diritto e organizzazione. Proposte per una giustizia accessibile, efficace, tempestiva ) a cui non è inutile affiancare alcune osservazioni.
La crescita esponenziale della domanda di giustizia degli ultimi 40 anni richiede risposte coerenti e innovative. Si rincorrono invece, con sempre maggior frequenza, proposte vecchie e di comprovata inadeguatezza: il potere gerarchico dei capi, la dirigenza come cursus honorum, l'organizzazione piramidale della magistratura.
Accoglierle significherebbe aggravare anziché risolvere i mali della giustizia.
Quella attuale non è la miglior magistratura possibile ma rimpiangere quella di trent"anni fa è possibile solo per chi non l'ha conosciuta
Ciò che occorre perseguire è un salto di qualità dell'intero corpo giudiziario, non un sistema meritocratico fondato sulla selezione dei migliori.
Non solo per la difficoltà di tale selezione (che normalmente identifica gli omogenei, non i migliori) ma per una sua inadeguatezza strutturale conseguente al fatto che tutte le funzioni giudiziarie sono egualmente delicate e incidono sulla libertà personale, sull'onore, sui beni, sull'attività lavorativa, sulla vita familiare dei cittadini.
La crescita della domanda impone di dare risposte adeguate a tutti; e ciò è possibile solo con la crescita professionale di tutti i giudici e i pubblici ministeri. Il che significa investire nel concorso di accesso, nella scuola per la magistratura, nella formazione decentrata e in verifiche periodiche e generalizzate di professionalità (effettuate anche con l'apporto di soggetti esterni, a cominciare dall'avvocatura, e dirette ad evidenziare le qualità e le esperienze positive e a far emergere le patologie).
La necessità di garantire l'indipendenza di ciascun magistrato nella decisione impone, poi, per il servizio giustizia modelli organizzativi particolari, diversi da quelli aziendali. La valorizzazione del sistema tabellare, della individuazione comune di obiettivi, delle assemblee degli uffici, del coinvolgimento del foro e del personale amministrativo non risponde a nostalgie sessantottine ma alle esigenze di un servizio indipendente, moderno, partecipato.
Ciò ricade anche sulla configurazione dei dirigenti e sul loro ruolo. Perseguirne la temporaneità non significa depotenziarli, ma trasformare la dirigenza da cursus honorum in incarico di servizio, come avviene per i presidi delle facoltà universitarie o per i presidenti dei consigli degli ordini degli avvocati (professori o avvocati prestati a tali ruoli). Nessun potere dimezzato in ciò; anzi maggior responsabilizzazione: il magistrato prestato alla dirigenza è maggiormente legato all'ufficio in cui lavora, più motivato nella definizione e nel perseguimento di obiettivi, più in grado di valutare l'operato dei colleghi.
Certo non è un manager: ma è questo il ruolo del magistrato dirigente o non piuttosto quello del dirigente organizzativo che lo affianca e che per compiti manageriali deve essere assunto e formato?
aprile 2001
(l.p.)