Il terrorismo, il diritto, i giudici
Dopo New York e Madrid, Londra e, poi, Sharm El Sheik (estrema appendice dell'Occidente in Egitto) ancora una volta la violenza, cieca e assurda, ha seminato morte e distruzione; e, di nuovo, con l'orrore e lo strazio, si ripetono i gesti, i rituali, le parole di sempre: solo con qualche aggettivo in più e qualche emozione in meno. Ciò che continua a mancare, salvo isolate eccezioni, è una riflessione laica su quanto sta ac-cadendo e, con essa, la capacità di cogliere la lezione della storia e il realismo di ammet-tere il fallimento della strategia di risposta al terrorismo elaborata,
dopo l'11 settembre 2001, negli Stati Uniti e fondata sulla guerra, sulla creazione di un diritto penale del nemico, sull'abbandono di alcuni principi fondamentali dello Stato di diritto, sulla chiusura delle frontiere e sulla criminalizzazione dei migranti (con-siderati alla stregua di nuovi barbari). Cosi, all'indomani delle bombe di Londra e mentre l'Europa è più insicura che mai, il Governo di sua maestà ricorre all'espulsione indiscriminata degli stranieri indesiderati (fingendo di credere alla promessa di ´non torturare' di paesi considerati fino a ieri ´stati canaglia'), propone una rilettura delle convenzioni sui diritti umani e prepara un diritto penale fondato sulla detenzione amministrativa a oltranza (e senza contestazione dell'accusa) dei so-spetti di terrorismo, sull'istituzione di giudici speciali, sulla previsione di una fase pro-cessuale segreta, sull'esclusione della difesa tecnica fiduciaria.
In questa situazione chi pratica il diritto ha il dovere della razionalità, del-l'intelligenza, della denuncia. Misure come quelle indicate sono di assai scarsa utilità ai fini della prevenzione di attentati e gesti terroristici e di altrettanto dubbio aiuto nelle successive indagini: sarebbero state irrilevanti, a detta della stessa polizia bri-tannica, a fronte degli attentati di Londra (compiuti, a quanto risulta, da cittadini inglesi del tutto incensurati, privi di legami con organizzazioni internazionali, non raggiunti in precedenza da sospetti di sorta, identificati ed arrestati quelli sopravvissuti con i più tradizionali mezzi di indagine). Altri sono, sul piano del diritto, i settori di (doveroso) intervento a difesa della società e dei cittadini: il potenziamento della collaborazione in-vestigativa a livello internazionale, la razionalizzazione e il coordinamento dei servizi di intelligence, l'incremento di efficienza (tecnica e qualitativa) degli apparati giu-diziari e di polizia, la previsione di strumenti (anche legislativi) per favorire la dissocia-zione dal terrorismo. Superfluo aggiungerlo: nessuno possiede bacchette magi-che e neppure questi interventi, ancorché più razionali, sono risolutivi. Non per ca-so, ché è doveroso, pur se impopolare, dirlo non saranno la polizia e la magistratura, ma solo la politica, a sradicare il terrorismo ed è curioso che ciò sfugga a chi non perde occasione per denunciare le ´indebite supplenze' e le ´invasioni di campo' del giudiziario. Di più, l'efficacia dei (necessari) interventi degli apparati è legata alla loro razionalità, a una diffusa accettazione sociale, all'esistenza di una strategia capace di recidere le radici del terrorismo e del consenso di cui (nonostante le diffuse esorciz-zazioni) gode: altrimenti la repressione colpisce nel mucchio, alimenta odio e conflitto, incentiva anziché sconfiggere la violenza. Lo dimostra l'escalation del terro-rismo internazionale negli ultimi anni; lo conferma una rilettura critica della stagione degli anni piombo nel nostro Paese (in cui la sconfitta giudiziaria del terrorismo è stata propiziata e alimentata dalla suacrisi politica). Inutile e irresponsabile coltivare e diffondere illusioni: la necessità di predisporre appropriati interventi repressi-vi è fuori discussione, ma la follia sanguinaria del terrorismo internazionale non sarà ef-ficacemente contrastata se l'Occidente non si libererà, contestualmente, ´della pretesa di dominare il mondo con il suo strapotere economico e con la guerra' (cosi D. Zolo, Zona d'ombra, Il Manifesto, 11 agosto 2005).
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La questione aperta dalle derive illiberali indotte o accentuate dal terrorismo non è, peraltro, solo quella dell'idoneit allo scopo o, al contrario, del carattere controproducen-te dei nuovi istituti e delle nuove previsioni normative. C'è di più, e di più grave.
La riduzione generalizzata delle libertà fondamentali, la trasformazione delle perso-ne in risorse da cui attingere informazioni ed elementi per la ´guerra contro il terrorismo' (cosi M. Bouchard, Guantanamo. Morte del processo e inizio dell'apo-calisse, in questa Rivista, n. 5/2003), la legittimazione della tortura, la sostituzione del garantismo con il principio di utilità, l'ingresso nel processo della categoria ´amico-nemico' (con graduazione, in base ad essa, delle tutele e dei diritti) hanno sempre più caratterizzato, dopo l'11 settembre 2001, il sistema penale degli Stati Uniti e le pratiche dei suoi apparati (da Guantanamo ad Abu Graib, e non solo). L'esten-sione del modello ad altri ordinamenti dell'Occidente non è, peraltro, solo un fat-to quantitativo. Lo strappo allo Stato di diritto in un solo Paese (il più potente, ma anche quello maggiormente percorso da ricorrenti tendenze "isolazioniste"), infatti, feriva pro-fondamente ma non cancellava i principi del costituzionalismo contemporaneo: la sa-cralità dei diritti fondamentali (sottratti a interventi limitativi del legislatore ordinario) e l'universalismo degli stessi, cioè la loro (imprescindibile) applicazione a tutti e a ciascu-no. La generalizzazione dello strappo svuota, invece, il concetto stesso di diritti fonda-mentali (dei quali si propone addirittura una revisione anche formale: per riconoscerli agli ´amici' e per negarli ai ´nemici') e di universalismo. Il rischio è la chiusura della stagione aperta con le grandi convenzioni sui diritti umani e con le costituzioni naziona-li del secolo scorso (non a caso intervenute dopo la tragedia della seconda guerra mon-diale) con ritorno del diritto, dopo la breve parentesi che lo ha proposto come fattore di garanzia della libertà e dell'uguaglianza di tutti, a docile strumento di governo della so-cietà da parte del più forte. » questa la posta in gioco (come in altri periodi cruciali del ´secolo breve': su cui cfr. M. Flores, Tutta la violenza di un secolo, Milano, 2005), che sembra sfuggire ai più, anche a sinistra, dove c'è chi parla dei provvedimenti proposti dai laburisti inglesi come di ´misure estreme ma da condividere', senza co-glierne l'idoneità a realizzare una mutazione genetica degli ordinamenti costituzionali contemporanei.
Corollario di questa erosione dello Stato di diritto e del sistema dei diritti è alme-no in questa fase l'acuirsi del conflitto tra politica e giudici (ai quali ultimi si chiedono sempre più servizi anziché sentenze, come dimostra, per restare nel nostro Pae-se, il tono delle polemiche seguite alla recente decisione di un giudice milanese, reo di aver tenuto distinti, in verità con solidi argomenti giuridici, i concetti di ´terrorismo' e di ´guerriglia': cfr. P. Morosini, Jihad e giustizia penale, in questa Rivista, n. 2/2005). Lo ha scritto con grande efficacia, commentando il pacchetto sicurezza del Governo inglese, D. Zolo: ´Tramonterebbe la gloriosa tradizione britannica della rule of law, che è all'origine della dottrina dei diritti dell'uomo e dell'intera e-sperienza dello Stato di diritto europeo e occidentale. Questa tradizione, com'è noto, è nata in Inghilterra grazie alla funzione garantista svolta dai giudici di common law che si sono sempre opposti ad ogni forma di tribunale speciale e di procedura giudiziaria non prevista dalla "costituzione" inglese . Sono i giudici delle corti ordi-narie che hanno strenuamente difeso le "libertà degli inglesi" contro ogni possibile at-tentato sia del potere esecutivo, sia del Parlamento. Sono i giudici che si sono battuti in particolare per lo scrupoloso rispetto dei diritti dell'imputato e della presunzione di in-nocenza. Ora tutto questo potrebbe finire nel cono d'ombra di una lotta contro il terrori-smo internazionale che presenta sempre più gli aspetti di una politica autolesionista' (loc. cit. ).
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L'onda lunga di questa cultura è arrivata anche nel nostro Paese, seppur in maniera affievolita. Nel cuore dell'estate il decreto legge 27 luglio 2005 n. 144 e la con-seguente legge di conversione n. 155/2005 (intervenuta nel giro di soli quattro giorni, senza un reale dibattito parlamentare e a grande maggioranza) hanno introdotto nel si-stema una vasta gamma di misure emergenziali: nuove e invasive modalità per l'identi-ficazione personale e dilatazione a tal fine (sino a ventiquattro ore) della facoltà di trat-tenimento da parte della polizia, ampliamento delle possibilità di espulsione senza ga-ranzie di cittadini stranieri sospetti, estensione delle intercettazioni ambientali e telefo-niche preventive e del controllo sul traffico telefonico e informatico, ampliamento dei casi di arresto e di fermo, impiego delle forze armate in attività sostanzialmente di poli-zia giudiziaria, definizione generica e onnicomprensiva delle ´condotte con finalità di terrorismo' (identificate in quelle ´che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un paese o ad una organizzazione internazionale') e via elencando. A cosa servano, ai fini del contrasto del terrorismo internazionale, l'inasprimento delle pe-ne per l'´uso, senza giustificato motivo, di mezzi atti a rendere difficoltoso il riconosci-mento' (nella vulgata leghista, bourka o chador), il ´prelievo coattivo di capel-li o saliva' di persone sottoposte a indagini o le identificazioni e perquisizioni in lo-co da parte di militari dell'esercito è difficile immaginare; ma è chiaro l'effetto di tali istituti sul delicato equilibrio tra autorità e diritti di libertà. Né può sfuggire la stret-ta connessione tra la torsione in senso illiberale del sistema e la controriforma dell'ordi-namento giudiziario, approvata quasi contestualmente (il 20 luglio 2005) e diretta ad as-sicurare alla maggioranza contingente magistrati dipendenti e disponibili ad ubbidire (o ad anticipare i desiderata di chi governa)
Dalla consapevolezza di questo intreccio e dei suoi obiettivi devono muovere l'ana-lisi e l'impegno della cultura giuridica e della magistratura progressista.