La guerra (e, sullo sfondo, l'attacco alla giustizia)
» guerra: vite spezzate; donne, uomini, vecchi, bambini, dilaniate. E, insieme, altri esiti nefasti. Le bombe e i cannoni non esportano democrazia ma solo morte e odio (con la conseguenza che la guerra non finirà con la presa di Bagdad e dell'intero Iraq); l'Onu non esiste più (se non come luogo fisico in cui la forza cerca coperture giuridiche); i rapporti tra la superpotenza mondiale e i paesi del Terzo mondo si risolvono in macabra campagna acquisti, in cui si scambiano elemosine con complicità; i principi più elementari del diritto internazionale sono oltraggiati e calpestati. Contemporaneamente si apre una spaccatura profonda tra l'opinione pubblica, contraria alla guerra con percentuali elevatissime, e l'ossessione bellica di buona parte dei governanti dell'occidente: cosi la democrazia si riduce da ´governo dei più' a ´governo dei meno' e viene ferita in maniera irreversibile nel suo fondamento e nella sua legittimazione. Sono campane a morto i proclami di autorevoli politologi che cantano la solitudine del leader alla vigilia di decisioni cruciali: chi governa non deve, certo, seguire acriticamente i sondaggi; deve scegliere e indirizzare, anche sfidando l'impopolarità; ma quando sulle scelte cruciali, quelle che riguardano la vita e la morte viene meno il consenso (e, dunque, il fondamento della delega a governare), deve, in democrazia, trarne le conseguenze. Altrimenti la democrazia muore.
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Dopo gli slogan e le minacce, gli ´esperti' della maggioranza hanno, infine, prodotto il vero progetto governativo di ´riforma' dell'ordinamento giudiziario, mix senza precedenti di ossessione burocratica e di barocchismo. C'è da non crederci: i magistrati verranno ripartiti in sette classi e dodici funzioni; la vita professionale di giudici e pubblici ministeri sarà scandita da concorsi permanenti per titoli ed esami (mediamente quattro o cinque); i magistrati di merito occuperanno il loro tempo a preparare concorsi (e quelli di legittimità a far parte di commissioni esaminatrici) più che a istruire e decidere processi; i trasferimenti di sede diventeranno corse ad ostacoli di durata biblica; i tempi delle indagini e degli atti urgenti in una Procura di media grandezza saranno eterni, visto che anche il più semplice sequestro sarà subordinato al previo assenso del ´capo'; e molto altro ancora. Nel dilemma se perseguire la crescita di tutta la magistratura o far fare carriera ai migliori il governo opta per la seconda soluzione, tanto demagogica quanto sbagliata, ché, con il sistema concorsuale, si controllano (forse) le doti di preparazione tecnica, non certo quelle di equilibrio, di capacità di ascolto, di laboriosità e di impegno che contraddistinguono il buon giudice. E poi, soprattutto, la selezione non serve, posto che tutte le funzioni giudiziarie, e quelle di primo grado più delle altre, incidono direttamente sulla libertà personale, sull'onore, sui beni, sull'attività lavorativa, sulla vita familiare delle persone: tutti i cittadini hanno bisogno di ´buoni' giudici, preparati, equilibrati, imparziali, indipendenti e questo non altro è l'obiettivo da perseguire. Quanto poi al pubblico ministero, il modello proposto dal governo è quello di una organizzazione separata e rigorosamente gerarchica, in cui scompaiono persino le figure intermedie degli aggiunti, lasciando il campo solo ai capi, veri mandarini dell'azione penale, circondati da sostituti privi di ogni autonomia. In questa logica riemergono i poteri, sostanzialmente illimitati, di sostituzione e di avocazione che tanto hanno inquinato, in anni non lontani, l'amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Esito ulteriore, e non casuale, di queste scelte è lo svuotamento delle funzioni costituzionali del Csm, mal tollerato perché garante della concreta indipendenza della giurisdizione e dei magistrati e sostituito di fatto da commissioni esaminatrici e burocrati.
Nulla c'è, in questo progetto, di moderno e funzionale. L'idea guida è la restaurazione (peggiorata) del modello di magistratura albertino e, poi, fascista: modello oggi impraticabile (tanto che i principi cui si ispira sono in crisi, per la loro rigidità, persino nella organizzazione industriale), ma veicolo di paralisi dell'organizzazione giudiziaria e di condizionamento dei giudici e della giurisdizione.
4 aprile 2003
(l.p.)