Le regole, il diritto, la tortura
«La
tortura non è creduta necessaria dalle leggi degli eserciti
composti per la maggior parte della feccia delle nazioni, che
sembrerebbono perciò doversene più d’ogni altro
ceto servire» (C. Beccaria, Dei delitti e delle pene,
ed. 1766, par. XVI, testo a cura di A. Burgio, Feltrinelli, 2000, p.
63). Ciò che oltre due secoli fa era bandito – almeno
nella coscienza degli illuministi – persino alla feccia
delle nazioni è, oggi, pratica quotidiana degli eserciti
dei paesi democratici. La tortura, mostro orribile che offende
i corpi e distrugge il senso stesso della civiltà, è
diventata immagine familiare, che, irradiata dai telegiornali,
accompagna i nostri pasti, le nostre conversazioni, gli sguardi
curiosi dei nostri bambini. Come la fotografia della ragazza
vietnamita in fuga, nuda e bruciata dal napalm, le immagini
dei prigionieri incappucciati sottoposti a scariche elettriche e dei
corpi nudi impudicamente accatastati a mo’ di rifiuti da
buttare sono – e saranno nei decenni a venire – i simboli
di un’epoca: non degenerazioni circoscritte, ma segnali univoci
della corruzione del sistema che si è tentato di edificare
sulle ceneri della tragedia del secondo conflitto mondiale.
Nessuno
più, nemmeno i governi interessati, tenta di negare
l’esistenza della tortura. Nessuno nega, ma tutti - o quasi -
minimizzano: mostrando sdegno e dolore per l’accaduto
(ed anzi esibendo espressioni contrite e parole di esecrazione sempre
più dure), ma riportando le torture a gesti isolati di poche
schegge impazzite (naturalmente da punire subito e in modo
esemplare...). Non è così, ed anzi questa
minimizzazione offende e indigna quanto le violenze e i soprusi. Non
sappiamo, mentre scriviamo, se davvero – come scrive il
settimanale New Yorker – le torture sono state
autorizzate personalmente dal segretario alla difesa del Paese
egemone nel mondo, ma si tratta, in ogni caso, di un particolare
(seppur importante). Ciò che già si sa dimostra oltre
ogni dubbio la responsabilità del sistema: per avere ordinato
e organizzato, non soltanto per avere tollerato. La privazione del
sonno e del cibo, l’incappucciamento dei prigionieri, le
umiliazioni sessuali, la «privazione sensoriale» per 72
ore, la costrizione protratta in posizioni dolorose, la minaccia di
aggressione con cani, le finte esecuzioni stanno da tempo nei
prontuari di agenti e carcerieri, sono regole per
«fiaccare la resistenza dei prigionieri» affisse, almeno
fino a ieri, sulle pareti del carcere (più esattamente, del
mattatoio) di Abu Ghraib. E non è tutto: le prigioni irakene
non sono un inferno isolato, ma la filiazione, non
unica, del modello di Guantanamo (luogo della distruzione dei
corpi e del diritto), organizzate e dirette, in parte significativa,
persino dalle stesse persone fisiche.
P ALIGN=JUSTIFY STYLE="text-indent: 0.64cm; line-height: 0.42cm">
Con la pratica della tortura si
afferma e si consolida un sistema di relazioni che va aldilà
del razzismo e dell’uso spietato della violenza (che pure hanno
radici non dissimili): le persone smettono di essere tali e diventano
– come ha scritto M. Bouchard (in questa Rivista,
Guantanamo. Morte del processo e inizio dell’apocalisse,
n. 5/2003, p. 1005) - «risorse» di cui gli stati si
avvalgono, non importa per che cosa: per vincere la guerra, per
combattere il terrorismo, per assicurarsi un posizione di predominio,
per “sollevare il morale delle truppe”, per garantire la
sicurezza dei cittadini e via declinando (a seconda delle preferenze
di ciascuno). E le risorse si utilizzano in funzione dei risultati
che possono dare (o si ritiene che possano dare): sono mezzi,
cose, privi di dignità e di diritti. Ciò
trasforma tutto e mina gli stessi presupposti dello Stato
contemporaneo, cui è riconosciuto il monopolio della
forza, solo a condizione che sia utilizzata secondo le regole
e per garantire la eguale dignità e i diritti delle persone.
Noi
– questa Rivista - non abbiamo atteso oggi per
denunciare, prima, le avvisaglie (cfr. L. Pepino, Genova e il G8:
i fatti, le istituzioni, la giustizia, n. 5/2001, p. 881 ss.) e,
poi, il dispiegarsi, nella cultura e nella prassi di settori degli
apparati coercitivi (e delle istituzioni tout court), di
trattamenti inumani e degradanti e di torture efferate (cfr., oltre
al citato scritto di M. Bouchard, S. Rodotà, Giudici,
diritti fondamentali, democrazia, n. 2/2003, p. 324 ss. e il
fascicolo monografico n. 2-3/2004 dedicato a La libertà
delle persone: in particolare, gli scritti di V. Fanchiotti, L.
Magliaro, M. Palma e L. Pepino). Oggi non ci resta che ripeterlo,
aggiungendo la denuncia dell’ipocrisia di chi, anche nel nostro
Paese, opera sottili distinguo su quanto si sapeva (e
si sa), sul diverso rilievo della entità della
coercizione, sulla necessità che le violenze e i soprusi
debbano essere «reiterati» per diventare «tortura».