Proibizionismo e governo delle società: il diritto penale massimo
Un paese normale non può ignorare il fallimento, nel settore degli stupefacenti, delle strategie repressive e ottusamente proibizioniste. I fenomeni sociali, e tra questi il consumo di stupefacenti, devono essere governati e non esorcizzati con leggi manifesto. L’uso di droghe è un arcipelago complesso e diversificato, in continuo divenire, che richiede interventi articolati e duttili.
La diversità riguarda le sostanze, la cui omogeneizzazione normativa è fonte di gravi distorsioni, e le persone, insuscettibili di riduzioni a un’unica tipologia. Ciò impone, quantomeno, di affrontare senza ipocrisie le questioni di una diversa disciplina per le droghe leggere e di una applicazione diffusa e omogenea sul territorio di strategie di riduzione del danno (intese non come semplice tentativo di sostituire precedenti fallimenti, ma come insieme di interventi realistici, finalizzati all’aumento della soglia di tolleranza sociale e alla realizzazione di condizioni di vita più sicure e umane per tutti).
All’orizzonte si stagliano invece, nel nostro Paese, minacciose avvisaglie di inasprimento repressivo, evocata dal vicepresidente del Consiglio, che predica la cancellazione del referendum del 1993 e la equiparazione di droghe pesanti e droghe leggere.
32.432 uomini e donne, in buona parte di età inferiore a trent’anni, morti in Italia negli ultimi venticinque anni per overdose o per Aids contratto a seguito di uso di stupefacenti sembrano non aver insegnato nulla. Le strategie di riduzione del danno, già praticate (pur se poco pubblicizzate) nell’Inghilterra della Tatcher e abbracciate persino dai conservatori spagnoli di Aznar, nel nostro paese restano un tab? insormontabile.
Droghe pesanti e droghe leggere hanno in comune solo il trattamento giuridico (cioè l'essere vietate), essendo per il resto – come tutti sanno - arcipelaghi eterogenei (quanto a effetti sull'organismo, dipendenza, modalità di utilizzazione, sistema di distribuzione illegale, etc.). Diversificarne la disciplina è dunque, anzitutto, una esigenza di razionalità ed equità (ché non si trattano in modo uguale fenomeni diversi). E, invece, si assiste a questa nuova, assurda, crociata, inidonea a incidere significativamente sul consumo di stupefacenti e capace solo di aumentare sofferenza ed emarginazione.
Perché tutto questo? La ragione, a ben guardare, c’è. Ed è una ragione tutta politica, che si colloca nella trasformazione in atto dello Stato sociale in Stato penale. Questa trasformazione ha come obiettivo il ripristino di un sistema (tipico delle società premoderne) fondato sulla selezione e sulla cittadinanza differenziata, in cui l’eguaglianza e la solidarietà diventano disvalori e la marginalità e il disagio colpa.
Di questa e cultura è stata espressione scolastica, in tema di immigrazione, la legge Bossi-Fini, fondata sulla inferiorizzazione dei migranti, e le sue nuove ´frontiere' sono la segregazione della sofferenza psichiatrica e la crescita della risposta carceraria alla marginalità. In questo contesto la stretta repressiva nel settore delle tossicodipendenze mostra il suo vero volto di operazione tesa non già a contenere o diminuire il fenomeno, ma a emarginare ed escludere i consumatori di droghe.
Di qui un insegnamento univoco per chi crede che il consumo degli stupefacenti si governi non con la repressione ma con interventi realistici e tolleranti: la situazione può essere ribaltata solo uscendo dallo ´specialismo' e considerando la ´questione droga' un capitolo della politica sociale.