DISEGNO DI LEGGE
d'iniziativa dei senatori SACCONI, QUAGLIARIELLO, CENTARO, MORRA, GENTILE, PICCONE e NOVI
COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 14 NOVEMBRE 2006
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Riforma del processo del lavoro
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Onorevoli Senatori. - Il presente disegno di legge prospetta una riforma del processo del lavoro diretta non solo a favorire la celerità dei giudizi e la certezza alla soluzione delle controversie ma, prima ancora, a incidere sulle ragioni dell'imponente contenzioso e della conflittualità in materia di rapporti di lavoro.
In un quadro regolatorio moderno dei rapporti di lavoro la prevenzione e la composizione delle controversie individuali di lavoro devono certamente ispirarsi a criteri di equità ed efficienza, ciò che senza dubbio non risponde alla situazione attuale. Così come è vero che la crisi della giustizia del lavoro è legata ai tempi con cui vengono celebrati i processi, tali da risolversi in un diniego della medesima. Tuttavia, come bene rilevato da una recente ricerca della Commissione europea, la vera anomalia italiana è determinata dal numero esorbitante di cause che ogni anno investono i rapporti di lavoro, a dimostrazione della persistenza nel nostro Paese di un diritto del lavoro ancora ispirato a logiche formalistiche e repressivo-sanzionatorie che incentivano a dismisura la litigiosità (individuale e collettiva) e il conflitto tra le parti in causa. Come chiaramente evidenziato nel Rapporto 2006 della Commissione europea per la efficacia della giustizia, istituita dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, il nostro Paese rappresenta il fanalino di coda nella classifica della durata dei processi civili. E ciò non si giustifica con la scusante, spesso argomentata, dello scarso investimento nelle risorse della giustizia: la spesa ed essa destinata nel nostro Paese, come dimostra il Rapporto, è infatti sostanzialmente allineata alla media europea.
L'elevato contenzioso in materia di lavoro non è frutto dunque (o comunque non in modo preponderante) di regole procedurali poco efficienti. Il processo del lavoro è anzi ispirato - in raffronto al procedimento civile in generale - alle regole di celerità ed oralità, procedimento che è spesso usato come raffronto e termine di paragone proprio per tali note caratteristiche (tanto che, ad esempio, la recente riforma della procedura riguardante le cause per il risarcimento dei danni da circolazione stradale è stata improntata proprio alla procedura delineata dagli articoli del codice di rito regolanti il processo del lavoro; e la stessa riforma del procedimento di cognizione è stata indirizzata verso una riduzione delle udienze, come è già da tempo proprio del rito concentrato e tendenzialmente orale del processo lavoristico). Sono piuttosto le regole di diritto sostanziale e la cultura giuridica che le pervade tali da incentivare il conflitto tra le parti del rapporto di lavoro.
I nuovi modi di organizzare il lavoro e di produrre, unitamente a una estesa tutela del prestatore di lavoro che non giustifica più una visione aprioristicamente conflittuale e antagonista dei rapporti di lavoro, richiedono oggi regole ispirate alla certezza del diritto, alla libertà di impresa e alla tutela del prestatore di lavoro contro prassi o comportamenti fraudolenti senza che il giudice o il mediatore giuridico siano chiamati a interferire con valutazioni di merito nelle logiche aziendali ispirate a un uso corretto dei poteri datoriali e, più in generale, nella libera dialettica intersindacale.
Proprio su tale presupposto, la più recente legislazione ha fatto spesso rinvio a norme contenenti «clausole generali», che cioè legittimano il ricorso a particolari tipologie di lavoro o a decisioni delle parti non in presenza di specifici causali tipizzate, ma in presenza di requisiti riscontrabili ed effettivi, ma flessibili. E queste norme sono state affiancate da percorsi e sedi di sostegno della volontà delle parti negoziali, come le sedi di certificazione dei contratti di lavoro, ispirate alla regola dello «stare ai patti» che è poi il vero argine contro la deriva della conflittualità permanente.
Si pensi, ad esempio, alla riforma del contratto a termine di cui al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, che ha previsto la possibilità di ricorso a tale rapporto non più in specifiche e rigide ipotesi, bensì con riferimento alle esigenze tecniche, produttive, organizzative o sostitutive del datore di lavoro. Gli stessi presupposti, già dall'articolo 13 dello Statuto dei lavoratori di cui alla legge 20 maggio 1970, n. 300, sono posti anche alla base delle scelte datoriali di trasferimento del lavoratore. Analoga formulazione è contenuta nell'articolo 20, comma 4, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, con riferimento alla ammissibilità di ricorso alla somministrazione a tempo determinato. Lo stesso decreto legislativo prevede in materia di lavoro a progetto, all'articolo 69, che il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, e in conformità ai princìpi generali dell'ordinamento, all'accertamento della esistenza del progetto, programma di lavoro o fase di esso e non può essere esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni e scelte tecniche, organizzative o produttive che spettano al committente.
Essendo questo l'indirizzo già seguito dal legislatore, spesso anche sulla scorta di avvisi comuni delle parti sociali come nel caso del lavoro a termine, è tuttavia necessario che, nel rispetto del principio costituzionale di libertà di impresa, il controllo sul riscontro dei presupposti che la legge pone con le clausole generali sia vincolato alla verifica (ex ante in sede di certificazione dei contratti di lavoro o ex post in sede giudiziale) della esistenza concreta di tali condizioni, senza tuttavia che possa essere sindacato il merito o la opportunità della scelta datoriale, compito questo che appartiene semmai, sempre in funzione della tutela di princìpi di rilevanza costituzionale, alla contrattazione collettiva e alla autotutela collettiva. È evidente infatti che ove si legittimi il giudicante a valutazioni nel merito o di opportunità tecnico-organizzativa, la norma diviene non solo alquanto incerta, perché vincolata ad interpretazioni soggettive e comunque eccessivamente ampie e contrastanti, ma anche del tutto irrazionale perché richiama il giudice a un compito che non gli appartiene, quello cioè di fare l'imprenditore, là dove il giudice ha invece un compito altrettanto importante e delicato che attiene alla verifica della legittimità dei poteri datoriali e alla repressione di prassi o comportamenti fraudolenti.
Nell'area delle clausole generali quindi le valutazioni dei giudici dovrebbero più avvicinarsi, nella loro struttura logica, ai controlli di legittimità sui poteri datoriali, piuttosto che a valutazioni sul merito di specifiche scelte aziendali, dal che deriverebbe, anche, una maggiore uniformità dei giudicati e un omaggio più realistico se non alla certezza del diritto, almeno alla prevedibilità delle decisioni.
Coerentemente con tali premesse, il presente disegno di legge propone innanzitutto una norma in materia di interpretazione delle clausole generali contenute nelle diposizioni di legge o dei contratti collettivi nazionali di lavoro quali presupposto per la instaurazione di determinati rapporti di lavoro, ovvero per l'esercizio da parte del lavoratore del diritto di trasferire il lavoratore, o nel caso di cessazione del rapporto di lavoro. Tale norma si riconduce anche al più recente indirizzo, seguito dalla giurisprudenza maggioritaria, secondo il quale il giudicante, al fine di valutare il rispetto della clausola generale (ad esempio: le ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo che consentono la stipula del contratto a termine e del contratto di somministrazione a tempo determinato, nonché il trasferimento del lavoratore; la giusta causa, il giustificato motivo, e così via), debba verificare, sulla base delle prove fornite dalle parti, la sussistenza concreta ed effettiva del presupposto, senza però poter sindacare il merito o l'opportunità della scelta. Ciò, oltre che essere coerente con il principio stabilito dall'articolo 41 della Costituzione, svincolerebbe il giudizio dalle valutazioni personali del giudicante in merito alla opportunità o meno di uno specifico provvedimento datoriale, valutazioni che rendono aleatorio l'esito del procedimento e per questa stessa ragione alimentano il conflitto.
Ancora elevato è poi il contenzioso in materia di qualificazione del rapporto di lavoro. Il disegno di legge propone, su tale aspetto, di promuovere ed incentivare l'istituto della certificazione dei contratti di lavoro, introdotto dalla legge 14 febbraio 2003, n. 30 (la cosiddetta riforma Biagi), proprio allo scopo di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro garantendo assistenza alle parti nel momento formativo della volontà e maggiore certezza alle qualificazioni convenzionali, purché avvenute nell'ambito di enti bilaterali costituiti a iniziativa di associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente rappresentative, ovvero ad opera della Direzione provinciale del lavoro, ovvero avanti le sedi universitarie, ovvero ancora, da ultimo, avanti i Consigli provinciali degli ordini dei consulenti del lavoro.
Si prevede che, a seguito della avvenuta certificazione del contratto di lavoro secondo la volontà delle parti, qualora i terzi, ivi compresa dunque la pubblica amministrazione, ricorrano avanti l'autorità giudiziaria chiedendo una diversa configurazione del rapporto, il giudicante, in caso di soccombenza della parte ricorrente, non possa derogare al principio della soccombenza di cui all'articolo 91, primo comma, del codice di procedura civile. L'amministrazione soccombente potrà agire, sussistendone i requisiti, nei confronti del funzionario responsabile ai fini del risarcimento del danno.
Il disegno di legge propone poi una riforma dell'istituto dell'arbitrato nelle materie giuslavoristiche, anche al fine di armonizzare il procedimento per la risoluzione alternativa del contenzioso alle recenti innovazioni apportate agli articoli 806 e seguenti del codice di procedura civile. Già nelle scorse legislature sono stati presentati diversi disegni di legge volti a improntare il processo del lavoro ai criteri di certezza della soluzione delle controversie, equità ed efficienza.
L'esigenza di un procedimento improntato ai criteri di celerità, certezza ed equità, oltre che dal legislatore, è sentita soprattutto dalle parti sociali: si può in tal senso interpretare la proposta, promossa in diverse sedi, di sperimentare interventi di collegi arbitrali che siano in grado di dirimere la controversia in tempi sufficientemente rapidi.
Alcune recenti intese tra le parti sociali hanno certamente rafforzato la soluzione arbitrale in alternativa a quella giudiziale, pur nei limiti e nel rispetto dei princìpi costituzionali che vietano l'obbligatorietà di tale mezzo di soluzione delle controversie. In coerenza con tali iniziative, e riprendendo alcune proposte già formulate nella scorsa legislatura, il presente disegno di legge intende promuovere ed incentivare ipotesi alternative di risoluzione delle controversie di lavoro mediante procedure conciliative ed arbitrali. Si intende in tal modo consolidare, anche nel nostro Paese, il sistema delle cosiddette alternative dispute resolution (ADR), che, sulla scorta del confronto comparatistico, specie in ambito comunitario, costituiscono una valida e diffusa esperienza nella giustizia civile: è necessario anche in proposito guardare alle esperienze straniere più consolidate (dai tribunali industriali britannici ai probiviri francesi) per trarne motivo di riflessione e di approfondimento.
La proposta si inserisce e si armonizza nel quadro sia delle recenti riforme del lavoro sia di quelle apportate nel codice di procedura civile alla materia dell'arbitrato. Si ritiene, come già accennato in precedenza, di dover promuovere e sostenere l'istituto della certificazione dei rapporti di lavoro estendendo altresì il ruolo delle commissioni introdotte dalla citata riforma Biagi. Si è del parere che il ruolo delle commissioni di certificazione possa essere spinto oltre quello attualmente attribuito dalla legge Biagi; l'assistenza delle parti nel momento formativo e nello svolgimento del rapporto o, in ultima analisi, nel momento del recesso del rapporto di lavoro, può essere incentivata prevendo non soltanto che le commissioni possano certificare le rinunzie e transazioni, ma anche che ad esse possano essere devolute procedure di conciliazione o di risoluzione consensuale ed arbitrale delle controversie, senz'altro più celere, meno onerosa e più aderente all'equità sostanziale ed agli interessi delle parti, rispetto alla giustizia ordinaria.
D'altro canto, il disegno di legge, nell'affrontare la questione dei metodi alternativi di risoluzione delle controversie, non può non tener conto anche della recente riforma del codice di procedura civile, che ha, come noto, ridisegnato anche le procedure arbitrali, definendo limiti e specificità dell'arbitrato rituale e di quello libero. Per quanto qui rileva, il nuovo articolo 806 del codice di procedura civile, nel prevedere che le parti possano far decidere da arbitri le controversie tra loro insorte che non abbiano per oggetto diritti indisponibili, salvo espresso divieto di legge, dispone tuttora che le controversie di lavoro possano essere decise da arbitri solo se previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi di lavoro. La ragione per cui il legislatore ha visto sempre con sospetto l'arbitrato nelle controversie di lavoro viene individuata comunemente nel fatto che in esse si debbano applicare norme inderogabili, norme cioè che i privati non possono escludere con un accordo privato, norme a cui il legislatore ha voluto dare una particolare forza a causa della usuale disparità di partenza delle posizioni sociali delle parti coinvolte. Si ritiene che ciò possa essere ovviato, oggi, tramite l'assistenza della volontà delle parti in sede di certificazione del contratto di lavoro ad opera di commissioni terze, imparziali ed autorevoli, istituite nell'ambito degli Enti bilaterali, delle Direzioni provinciali del lavoro, delle Università pubbliche e private e dei Consigli provinciali dei consulenti del lavoro.
In primo luogo, esse cioè potrebbero utilmente illustrare ai contraenti l'effetto dei compromessi da esse stipulati, verificando la effettiva volontà delle parti di preferire, in caso di contrasto, il ricorso a vie alternative alla risoluzione che possano comportare anche, eventualmente, il ricorso a regole di equità. Inoltre, esse potrebbero poi essere la sede stessa della risoluzione di ogni eventuale controversia nello svolgimento del rapporto di lavoro, senz'altro in grado di proporre e trovare soluzioni conciliative maggiormente aderenti agli interessi in contesa, giudicando anche, su accordo delle parti, secondo equità. In tal modo le commissioni potrebbero potenzialmente accompagnare le parti durante tutto l'arco del rapporto di lavoro, quale organo imparziale di assistenza della volontà e di risoluzione concordata dei conflitti.
Alla luce di tali considerazioni, il disegno di legge propone una estensione dell'articolo 806 del codice di procedura civile, nel senso di ritenere validi i compromessi in materia di lavoro non solo ove previsto dalla contrattazione collettiva, ma altresì ove l'accordo dei contraenti sia stato certificato dalle commissioni di certificazione di cui all'articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276. D'altro canto, se le commissioni già oggi sono competenti nel certificare le rinunzie e transazioni ex articolo 2113 del codice civile, a conferma della volontà abdicativa o transattiva delle parti, non si vede quali ostacoli vi siano a prevedere che esse siano competenti anche a certificare la volontà delle parti stesse di rimettere una controversia al giudizio arbitrale, terzo ed imparziale.
Oltre a prevedere, in coerenza con quanto sopra affermato, l'estensione della competenza delle commissioni di certificazione (con modifica dunque dell'articolo 82 del decreto legislativo n. 276 del 2003), si introduce la possibilità di istituire presso tali sedi apposite camere arbitrali, le quali, per la loro professionalità ed imparzialità, costituirebbero organi di particolare eccellenza per la definizione delle liti mediante determinazione contrattuale delle controversie. Esse, agendo nel rispetto di regolamenti dalle stesse precostituite, potranno essere incaricate dalle parti, che, nel conferire mandato, dovranno indicare il termine per la emanazione del lodo e le norme che la commissione dovrà applicare al merito della controversia, ivi compresa, eventualmente, la decisione secondo equità, nel rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento. Al lodo è assegnata efficacia di legge fra le parti, essendo esso frutto della volontà contrattuale delle stesse, e si dispone, in merito alla tenuta dell'accordo, l'applicazione dell'ultimo comma dell'articolo 2113 del codice civile. Il lodo è impugnabile, in unico grado, soltanto per i vizi che possano avere vulnerato la manifestazione di volontà negoziale delle parti o degli arbitri. Al lodo è inoltre riconosciuta efficacia di titolo esecutivo ai sensi dell'articolo 474 del codice di procedura civile, anche nonostante la eventuale impugnazione.
Ulteriore attribuzione delle commissioni di certificazione è la possibilità di esperire in tale sede, oltre che in quelle tradizionali delle Direzioni provinciali del lavoro e delle sedi sindacali, il tentativo di conciliazione obbligatorio prodromico della vertenza giudiziaria.
L'articolo 5 propone una sostanziale modifica del tentativo di conciliazione previsto dall'articolo 410 del codice di procedura civile. Sul punto, concordando in parte con quanto già sostenuto in altri disegni di legge in materia, si osserva che rispetto alle controversie di lavoro il meccanismo del tentativo obbligatorio di conciliazione non ha mai registrato quella efficacia auspicabile fin dalla riforma introdotta dal legislatore del 1973. Anziché alleggerire il carico di lavoro dei magistrati addetti alla trattazione delle controversie di lavoro e, al contempo, offrire strumenti efficaci e veloci di risoluzione delle controversie, il meccanismo della conciliazione obbligatoria di cui all'articolo 410 del codice di procedura civile si è tradotto in una inutile fase prodromica del contenzioso, con conseguente aggravio di tempi. Emblematici, a tal riguardo, i dati forniti dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali - Direzione generale della tutela delle condizioni di lavoro - Divisione IV nel rapporto sulla attività conciliativa svolta dalle Direzioni del lavoro nel corso dell'anno 2004. In base ad essi, limitando l'indagine al settore privato, su 319.815 controversie instaurate nel corso dell'anno - che vanno ad aggiungersi ad un carico di 259.161 già in corso ad inizio anno - le vertenze individuali conciliate sono solo 77.487, quelle non conciliate 51.268, mentre quelle che non vengono nemmeno trattate ammontano a 260.708.
Il disegno di legge propone in primo luogo di rendere il tentativo di conciliazione da obbligatorio a facoltativo, prevedendo - nel contempo - incentivi per la scelta, libera, dell'ADR.
La proposta delinea inoltre una modifica del procedimento di conciliazione, traendo spunto, per certi versi, dalla riforma introdotta, con riferimento al pubblico impiego, con i decreti legislativi 31 marzo 1998, n. 80, e 29 ottobre 1998, n. 387. L'esperienza sin qui maturata nel settore pubblico induce a pervenire ad un complessivo giudizio di favore verso lo strumento conciliativo. Può infatti affermarsi che: un numero percentualmente irrisorio di domande si è riversato dalla sede precontenziosa alla sede giudiziale; raramente l'ente pubblico diserta la seduta così consentendo un utile approfondimento dei termini della controversia; l'eventuale esperimento negativo della conciliazione va di norma riconnesso alla peculiarità della questione sostanziale via via controversa e alla complessità delle problematiche organizzative e gestionali sottese alle questioni controverse.
Tali dati confortanti, unitamente ad una oggettiva riflessione sull'insuccesso del modello vigente per il lavoro privato - per la scarsa impegnatività dello strumento, l'assoluta carenza di incentivi positivi e negativi per le parti in lite e per il ceto tecnico-forense - hanno indotto a introdurre nel disegno di legge un meccanismo che miri ad anticipare la esposizione delle ragioni a fondamento della domanda e della resistenza. Si ritiene infatti che sulla scorta delle ragioni già espresse dalle parti sia maggiormente ipotizzabile la possibilità di pervenire ad una mediazione, e si è altresì del parere che in tal caso l'organo di conciliazione possa utilmente indicare alle parti vie per la bonaria definizione della lite.
D'altro canto, un incoraggiamento a trovare una via conciliativa - che, secondo le previsioni del presente disegno di legge, non sarà una fase obbligatoria, ma sarà scelta deliberatamente dalle parti - può essere rappresentato dalle seguenti previsioni:
a) il giudice dovrà tener conto, al momento della condanna alle spese processuali ed alla sua liquidazione, dell'atteggiamento assunto dalle parti in sede di tentativo di conciliazione;
b) sugli importi monetari riconosciuti in sede di conciliazione a favore della lavoratrice o del lavoratore è riconosciuto il beneficio dell'abbattimento, in misura pari al 50 per cento, dell'aliquota applicabile per il calcolo dei contributi di previdenza e assistenza sociale, nonché della ritenuta ai fini dell'imposta sul reddito.
Gli articoli 6 e 7 propongono di attribuire alle commissioni di conciliazione adite dalle parti un ruolo maggiormente attivo nella proposizione di vie alternative alla controversia. Esse potranno infatti, in caso di mancata conciliazione, avanzare una proposta per la bonaria definizione della controversia; se la proposta non è accettata, i termini di essa sono riassunti nel verbale con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti, ciò di cui il giudice dovrà poi tenere conto al momento della condanna alle spese. Non solo. Alle commissioni, le parti, durante la conciliazione o in caso di esito negativo, potranno conferire mandato per la risoluzione arbitrale della controversia, indicando il termine per la emanazione del lodo e le norme che la commissione dovrà applicare al merito, ivi compresa la decisione secondo equità, nel rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento.
L'articolo 8 propone una ulteriore alternativa al ricorso alla giustizia ordinaria, riconoscendo in tale ambito il ruolo già da tempo assunto dalle sedi previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative, quale luogo tradizionale e pregiato di assistenza delle parti sociali. Permarrà quindi anche avanti tali sedi la possibilità di esperire il tentativo di conciliazione, oltre alla possibilità, già riconosciuta dalla legge, di promuovere in sede sindacale l'arbitrato di cui agli articoli 806 e seguenti del codice di procedura civile.
Lo stesso articolo 8 prospetta un'ulteriore possibilità di risoluzione della controversia, devoluta a collegi composti da arbitri scelti dalle parti e presieduti da professori universitari di materie giuridiche o da avvocati cassazionisti, nella forma dell'arbitrato irrituale, ma con la procedura ivi descritta. Tale opzione si pone come alternativa ai collegi precostituiti presso le sedi delle commissioni di certificazione, alle commissioni istituite presso le Direzioni provinciali del lavoro ed a quelle individuate dai contratti collettivi.
Il capo V, infine, propone norme in tema di decadenza, nel quando e nel quomodo, volte a rendere certi i tempi di impugnazione dei licenziamenti (o del recesso nel caso di collaborazioni coordinate e continuative) e dei trasferimenti del lavoratore.
DISEGNO DI LEGGE
NORME
IN MATERIA DI INTERPRETAZIONE
DI CLAUSOLE GENERALI
1. Nei casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie di cui all'articolo 409 del codice di procedura civile e all'articolo 63, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, contengano clausole generali quali presupposto per la instaurazione di un rapporto di lavoro, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai princìpi generali dell'ordinamento, all'accertamento del presupposto e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecnico-organizzative del datore di lavoro o del committente. In questi casi il giudice non può discostarsi dalle valutazioni delle parti espresse in sede di certificazione dei contratti di lavoro salvo il caso di difformità tra il programma negoziale certificato e le concrete modalità di svolgimento del rapporto di lavoro.
2. Quanto previsto dal comma 1 si applica anche con riferimento alle clausole generali previste in materia di recesso dal contratto di lavoro nonché in materia di trasferimenti ai sensi dell'articolo 2103 e dell'articolo 2112 del codice civile.
3. Nel valutare le motivazioni a base del licenziamento, il giudice fa riferimento alle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale ovvero in sede di certificazione dei contratti di lavoro di cui agli articoli 75 e seguenti del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni. Nel definire le conseguenze da riconnettere al licenziamento, il giudice tiene ugualmente conto di elementi e parametri fissati dai predetti contratti collettivi nazionali e comunque considera le dimensioni e le condizioni dell'attività esercitata dal datore di lavoro, la situazione del mercato del lavoro locale, l'anzianità e le condizioni del lavoratore, il comportamento delle parti anche prima del licenziamento.
4. Qualora non intervenga una definizione contrattuale degli elementi di cui al comma 3, il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, anche al fine di rendere possibile una loro valutazione nell'ambito dei giudizi sulle controversie in materia di licenziamento, convoca le parti al fine di promuovere l'adeguamento della contrattazione collettiva. In caso di mancata stipulazione, il Ministro del lavoro e della previdenza sociale fornisce con proprio decreto, in via sperimentale, criteri di riferimento al riguardo, comunque suscettibili di integrazioni e modificazioni da parte di successivi contratti.
NORME IN MATERIA DI
LIQUIDAZIONE DELLE SPESE IN CASO DI AVVENUTA CERTIFICAZIONE DEL CONTRATTO DI LAVORO
1. In sede di condanna alla rifusione delle spese di lite e di liquidazione delle stesse ai sensi degli articoli 91 e seguenti del codice di procedura civile, qualora il ricorso promosso da terzi in materia di qualificazione di un contratto certificato ai sensi degli articoli 75 e seguenti del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, non venga accolto, il giudice pone a carico del ricorrente le spese di lite. Il giudice può altresì condannare il ricorrente ai sensi dell'articolo 96 del codice di procedura civile.
2. La amministrazione soccombente può agire, sussistendone i requisiti, nei confronti del funzionario responsabile della causa intentata dalla Pubblica amministrazione ai fini del risarcimento del danno.
NORME IN MATERIA
DI CONCILIAZIONE ED ARBITRATO
1. All'articolo 806, secondo comma, del codice di procedura civile, dopo le parole: «accordi collettivi di lavoro», sono aggiunte le seguenti: «ovvero se il compromesso sia stato certificato da una commissione di certificazione dei contratti di lavoro di cui all'articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni. Le commissioni di certificazione accertano che il compromesso contenga, anche mediante rinvio a regolamenti preesistenti dei collegi arbitrali, i criteri per la liquidazione dei compensi spettanti agli arbitri ed il termine entro il quale il lodo deve essere emanato».
2. I contratti collettivi nazionali di lavoro possono prevedere clausole compromissorie che comportino la devoluzione della controversia al collegio arbitrale anche sulla base di forme di adesione tacita dei soggetti interessati alla procedura arbitrale.
1. All'articolo 82 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al comma 1, dopo le parole: «delle parti stesse», sono aggiunte le seguenti: «nonché i compromessi di cui all'articolo 807 del codice di procedura civile»;
b) sono aggiunti, in fine, i seguenti commi:
«1-bis. Presso le sedi di certificazione di cui al comma 1 possono essere altresì istituite camere arbitrali per la definizione mediante determinazione contrattuale, ai sensi dell'articolo 808-ter del codice di procedura civile, delle controversie nelle materie di cui all'articolo 409 del medesimo codice di procedura civile e all'articolo 63, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, secondo i regolamenti precostituiti formulati dalle stesse commissioni ai sensi dell'articolo 832 del codice di procedura civile. Si applica, in quanto compatibile, l'articolo 412 del codice di procedura civile.
1-ter. Presso le sedi di certificazione di cui al comma 1 può altresì essere esperito il tentativo di conciliazione di cui all'articolo 410 del codice di procedura civile. Si applica quanto disposto dagli articoli 410 e seguenti del codice di procedura civile in quanto compatibili».
1. L'articolo 410 del codice di procedura civile è sostituito dal seguente.
«Art. 410. - (Tentativo di conciliazione) - Chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti previsti dall'articolo 409 e dall'articolo 63, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, può promuovere, anche tramite l'associazione sindacale alla quale aderisce o conferisca mandato, il tentativo di conciliazione.
La comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza.
Le commissioni di conciliazione sono istituite presso la Direzione provinciale del lavoro. Le predette commissioni sono composte dal direttore dell'ufficio stesso o da un suo delegato, in qualità di presidente, da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei datori di lavoro e da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei lavoratori, designati dalle rispettive organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative su base nazionale.
Le commissioni di conciliazione, quando se ne ravvisi la necessità, affidano il tentativo di conciliazione a proprie sottocommissioni, presiedute dal direttore della Direzione provinciale del lavoro o da un suo delegato, che rispecchino la composizione prevista dal terzo comma. In ogni caso per la validità della riunione è necessaria la presenza del presidente e di almeno un rappresentante dei datori di lavoro e di uno dei lavoratori.
La richiesta del tentativo di conciliazione, sottoscritta dall'istante, è consegnata o spedita mediante raccomandata con avviso di ricevimento. Copia della richiesta del tentativo di conciliazione è consegnata o spedita a cura della stessa parte istante alla controparte.
La richiesta precisa:
a) nome, cognome, e residenza dell'istante e del convenuto; se l'istante o il convenuto sono una persona giuridica, una associazione non riconosciuta o un comitato, l'istanza indica la denominazione o ditta nonché la sede;
b) il luogo ove è sorto il rapporto ovvero si trova l'azienda o una sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto;
c) il luogo dove devono essere fatte alla parte istante le comunicazioni inerenti alla procedura;
d) l'esposizione dei fatti e delle ragioni poste a fondamento della pretesa.
Entro venti giorni dalla data di ricevimento della copia della richiesta, la controparte deposita presso la commissione di conciliazione una memoria con indicazione delle ragioni di resistenza. Entro i dieci giorni successivi al deposito, la commissione fissa la comparizione delle parti per il tentativo di conciliazione, che è tenuto entro i successivi trenta giorni. Dinanzi alla predetta commissione, il lavoratore può farsi rappresentare o assistere anche da un'organizzazione cui aderisce o conferisce mandato.
La decorrenza dei termini della procedura di conciliazione e arbitrato è sospesa nel periodo dal 1º agosto al 15 settembre.
La conciliazione della lite da parte di chi rappresenta la pubblica amministrazione, anche in sede giudiziale ai sensi dell'articolo 420, commi primo, secondo e terzo, non può dar luogo a responsabilità amministrativa».
2. L'articolo 410-bis, secondo comma, del codice di procedura civile è abrogato.
3. L'articolo 412-bis del codice di procedura civile è abrogato.
1. L'articolo 411 del codice di procedura civile è sostituito dal seguente:
«Art. 411. - (Processo verbale di conciliazione) - Se la conciliazione esperita ai sensi dell'articolo 410 riesce, anche limitatamente ad una parte della pretesa, è redatto separato processo verbale sottoscritto dalle parti e dai componenti della commissione di conciliazione. Il verbale costituisce titolo esecutivo a seguito di provvedimento del giudice su istanza della parte interessata.
Se non si raggiunge l'accordo tra le parti, la commissione di conciliazione formula una proposta per la bonaria definizione della controversia. Se la proposta non è accettata, i termini di essa sono riassunti nel verbale con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti.
Al ricorso depositato ai sensi dell'articolo 415 del codice di procedura civile, sono allegati, a pena di inammissibilità, i verbali e le memorie concernenti il tentativo di conciliazione non riuscito ove esso sia stato esperito.
Il giudice valuta il comportamento tenuto dalle parti nella fase conciliativa ai fini del regolamento delle spese.
Per le somme corrisposte in sede di conciliazione in favore della lavoratrice o del lavoratore, ai fini fiscali l'imposta è applicata con aliquota pari alla metà di quella applicata per la tassazione del trattamento di fine rapporto e delle altre indennità e somme indicate all'articolo 17, comma 1, lettera a), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni. A seguito dell'avvenuto riconoscimento, in sede di conciliazione, di un rapporto di lavoro, salvo il dovere di versamento dei contributi di previdenza e assistenza sociale, non possono essere applicate sanzioni civili ed amministrative».
1. L'articolo 412 del codice di procedura civile è sostituito dal seguente:
«Art. 412. - (Risoluzione arbitrale della controversia) - In qualunque fase del tentativo di conciliazione, o al suo termine in caso di mancata riuscita, le parti, congiuntamente, possono accordarsi per la risoluzione contrattuale della lite, affidando alla commissione di conciliazione il mandato a risolvere in via arbitrale la controversia.
Nel conferire mandato per la risoluzione arbitrale della controversia, le parti indicano:
a) il termine per la emanazione del lodo, spirato il quale l'incarico si intende revocato;
b) le norme che la commissione applica al merito della controversia, ivi compresa la decisione secondo equità, nel rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento;
c) il lodo emanato a conclusione dell'arbitrato, sottoscritto dagli arbitri ed autenticato, produce fra le parti gli effetti di cui agli articoli 1372 e 2113, quarto comma, del codice civile ed ha efficacia di titolo esecutivo ai sensi dell'articolo 474 del codice di procedura civile a seguito di provvedimento del giudice su istanza della parte interessata, anche nonostante la impugnazione. Il lodo è impugnabile, in unico grado, entro trenta giorni avanti il giudice competente secondo le disposizioni del libro I del codice di procedura civile soltanto per i vizi che possano avere vulnerato la manifestazione di volontà negoziale delle parti o degli arbitri».
1. L'articolo 412-ter del codice di procedura civile è sostituito dal seguente:
«Art. 412-ter. - (Altre modalità di conciliazione previste dalla contrattazione collettiva) - La conciliazione, nelle materie di cui all'articolo 409 e di cui all'articolo 63, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, può essere svolta presso le sedi previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative.
Gli accordi di conciliazione raggiunti in tali sedi, sottoscritti dalle parti interessate e dal conciliatore, acquistano efficacia di titolo esecutivo a seguito di provvedimento del giudice del tribunale competente su istanza della parte interessata. Si applica il quinto comma dell'articolo 411.
Il tentativo di conciliazione effettuato ai sensi del primo comma, ove non si pervenga ad una conciliazione, tiene luogo del tentativo di cui all'articolo 410 e determina la procedibilità dell'azione giudiziaria ove sia stato esperito con le seguenti modalità:
a) sia stato esperito da un conciliatore su richiesta congiunta delle parti;
b) sia stato effettuato sulla base di memorie scritte dell'attore e del convenuto che illustrino le ragioni di fatto e di diritto della pretesa e della resistenza.
Il verbale del tentativo di conciliazione è redatto e sottoscritto dal conciliatore, dalle parti e, ove presenti, dai loro difensori. In tale verbale il conciliatore espone gli estremi del tentativo, le eventuali proposte indirizzate alle parti per pervenire ad un accordo, e quant'altro ritenga utile portare a conoscenza del giudice per il procedimento. Ad esso sono allegate le memorie di cui al terzo comma.
Il verbale di mancata conciliazione è depositato presso la cancelleria del giudice competente unitamente al ricorso di cui all'articolo 414. Il giudice, ove accerti che sono state rispettate le condizioni di cui al terzo comma, e che la domanda corrisponde all'oggetto per il quale è stato esperito il tentativo di conciliazione, procede direttamente a fissare l'udienza di discussione.
Il verbale di conciliazione è acquisito agli atti del procedimento e produce tutti gli ulteriori effetti del tentativo di conciliazione esperito ai sensi dell'articolo 410».
2. L'articolo 412-quater del codice di procedura civile è sostituito dal seguente:
«Art. 412-quater. - (Ulteriore possibilità di risoluzione della controversia). Ferma restando la facoltà di ciascuna delle parti di adire l'autorità giudiziaria e di avvalersi delle procedure di conciliazione e di arbitrato previste dai contratti collettivi ovvero di avvalersi dei collegi arbitrali previsti dall'articolo 82, comma 1-bis, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, le controversie di cui all'articolo 409 del codice di procedura civile e all'articolo 63, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, possono essere altresì proposte innanzi al Collegio di conciliazione e arbitrato irrituale costituito secondo quanto previsto dal presente articolo. È nulla ogni clausola del contratto individuale di lavoro o comunque pattuita che obblighi una parte o entrambe a proporre le controversie sopra indicate al Collegio di conciliazione e arbitrato.
Il Collegio di conciliazione e arbitrato è composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro, in funzione di Presidente, scelto di comune accordo dagli arbitri di parte tra i professori universitari di materie giuridiche e gli avvocati patrocinanti in Cassazione.
La parte che intenda ricorrere al Collegio di conciliazione e arbitrato notifica all'altra parte un ricorso sottoscritto, salvo che si tratti di una pubblica amministrazione, da un avvocato al quale abbia conferito mandato e presso il quale deve eleggere il domicilio. Il ricorso deve contenere la nomina dell'arbitro di parte ed indicare l'oggetto della domanda, le ragioni di fatto e di diritto sulle quali si fonda la domanda, i mezzi di prova ed il valore della controversia entro il quale si intende limitare la domanda.
Se la parte convenuta intende accettare la procedura di conciliazione e arbitrato nomina il proprio arbitro di parte, il quale entro trenta giorni dalla data della notifica del ricorso procede, ove possibile, concordemente con l'altro arbitro, alla scelta del Presidente e della sede del Collegio. Ove ciò non avvenga ciascuna delle parti è libera di adire l'autorità giudiziaria.
In caso di scelta concorde del terzo arbitro e della sede del Collegio, la parte convenuta entro trenta giorni da tale scelta deposita presso la sede del Collegio una memoria difensiva sottoscritta, salvo che si tratti di una pubblica amministrazione, da un avvocato cui abbia conferito mandato e presso il quale deve eleggere il domicilio. La memoria deve contenere le difese e le eccezioni in fatto e in diritto e l'indicazione dei mezzi di prova.
Entro dieci giorni dalla data di deposito della memoria difensiva il ricorrente può depositare presso la sede del Collegio una memoria di replica senza modificare il contenuto del ricorso. Nei successivi dieci giorni il convenuto può depositare presso la sede del Collegio una controreplica senza modificare il contenuto della memoria difensiva.
Il Collegio di conciliazione e arbitrato fissa il giorno dell'udienza, da tenere entro trenta giorni dalla scadenza del termine per la controreplica del convenuto, dandone comunicazione alle parti nel domicilio eletto almeno dieci giorni prima. All'udienza il Collegio esperisce il tentativo di conciliazione. Se la concilizione riesce si applicano le disposizioni dell'articolo 411, primo comma, del codice di procedura civile e dell'articolo 66, comma 8, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Se la conciliazione non riesce il Collegio provvede, ove occorra, ad interrogare le parti e ad ammettere ed espletare le prove, altrimenti invita alla immediata discussione orale. Nel caso di ammissione delle prove il Collegio può rinviare ad altra udienza, a non più di dieci giorni di distanza, per l'assunzione delle stesse e la discussione orale.
La controversia è decisa, entro venti giorni dalla udienza di discussione, mediante un lodo. Il lodo è impugnabile ai sensi dell'articolo 808-ter del codice di procedura civile.
La decorrenza di tutti i termini della procedura di conciliazione e arbitrato è sospesa nel periodo dal 1º agosto al 15 settembre.
Il lodo è depositato, a cura della parte interessata, nella cancelleria della Corte d'appello, in funzione di giudice del lavoro, nel cui distretto è la sede del Collegio ed è dichiarato esecutivo con decreto se non è proposta tempestivamente l'impugnazione di cui all'ottavo comma. Contestualmente alla impugnazione del lodo può essere proposta opposizione alla dichiarazione di esecutività del lodo per gravissimo danno o per manifesta fondatezza dell'impugnazione. In caso di impugnazione tempestiva la dichiarazione di esecutività del lodo è ammessa se non è proposta la contestuale opposizione o se questa è rigettata. Se l'opposizione è accolta la dichiarazione di esecutività è emessa solo in caso di rigetto dell'impugnazione.
Il compenso del Presidente del Collegio di conciliazione e arbitrato è fissato in misura pari al 2 per cento del valore della controversia dichiarato in ricorso e viene versato dalle parti per metà ciascuna presso la sede del Collegio mediante assegni circolari intestati al Presidente almeno cinque giorni prima dell'udienza. Ciascuna parte provvede a compensare l'arbitro da essa nominato. Le spese legali e quelle per il compenso del Presidente e dell'arbitro di parte, queste ultime nella misura dell'1 per cento del suddetto valore della controversia, sono liquidate nel lodo ai sensi degli articolo 91, primo comma, e 92 del codice di procedura civile.
I contratti collettivi nazionali di categoria possono istituire un fondo per il rimborso al lavoratore delle spese per il compenso del Presidente del Collegio di conciliazione e arbitrato e del proprio arbitro di parte».
ACCERTAMENTI SANITARI
E RELATIVE CONTROVERSIE
1. Dopo l'articolo 443 del codice di procedura civile è inserito il seguente:
«Art. 443-bis. - (Accertamenti sanitari connessi a controversie di previdenza e assistenza obbligatorie) - Nei casi in cui l'assicurato o l'assistito abbia presentato ricorso contro un provvedimento relativo a prestazioni previdenziali o assistenziali, che comportino l'accertamento dello stato di condizioni psicofisiche, l'amministrazione competente, ove non ritenga di accogliere il ricorso, sottopone l'accertamento ad un collegio medico, composto da un sanitario designato dall'amministrazione competente, da un sanitario nominato dal ricorrente o dall'istituto di patronato che lo assiste, e da un terzo sanitario nominato dal responsabile della competente direzione del Ministero del lavoro e della previdenza sociale tra i medici specialisti in medicina legale, o in medicina del lavoro di cui all'articolo 146 delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie ovvero tra i sanitari appartenenti ai ruoli di un ente previdenziale diverso da quello che è parte della controversia.
Espletati gli accertamenti medico-legali, il collegio di cui al primo comma, coerentemente alle risultanze degli accertamenti, tenta la conciliazione della controversia. In caso di esito positivo, è redatto un verbale che, sottoscritto dalle parti, è vincolante per le medesime. In caso di esito negativo del tentativo di conciliazione, il presidente del suddetto collegio redige una dettagliata relazione medico-legale nella quale dà atto degli accertamenti effettuati e delle conclusioni conseguite nonché dei motivi del dissenso.
Il compenso dei componenti il collegio di cui al primo comma, a carico dell'amministrazione competente per l'erogazione della prestazione, è determinato in conformità di convenzioni stipulate con la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri».
DECADENZE IN MATERIA DI RECESSO E TRASFERIMENTO DEL LAVORATORE
1. L'articolo 6, primo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604, è sostituito dal seguente:
«Il licenziamento da parte del datore di lavoro o il recesso del committente deve essere impugnato a pena di decadenza entro centoventi giorni dalla data di ricezione della sua comunicazione, ovvero dalla data di comunicazione dei motivi, ove non contestuale, con ricorso depositato nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro».
2. Il termine di decadenza, di cui all'articolo 6, primo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604, come sostituito dal comma 1 del presente articolo, si applica anche ai casi di nullità del licenziamento o del recesso, nonché di licenziamento inefficace di cui all'articolo 2 della citata legge n. 604 del 1966, e successive modificazioni.
3. Il termine di decadenza, di cui all'articolo 6, primo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604, come sostituito dal comma 1 del presente articolo, si applica altresì:
a) in generale, ai licenziamenti, anche qualora presuppongano la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro, ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto;
b) al recesso del committente nei rapporti di cui all'articolo 409, primo comma, numero 3), del codice di procedura civile e nelle collaborazioni a progetto di cui all'articolo 61 e seguenti del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, con riferimento ai casi in cui il recesso avviene secondo causali o modalità diverse da quelle previste dall'articolo 67 del medesimo decreto legislativo;
c) al trasferimento ai sensi dell'articolo 2103 e dell'articolo 2112 del codice civile.
4. Le dimissioni del lavoratore sono rassegnate, a pena di nullità, per atto scritto.
NORME IN MATERIA DI
SPESE DI GIUSTIZIA
1. All'onere derivante dall'attuazione della presente legge, valutato in 200 milioni di euro per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009, si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2007-2009, nell'ambito dell'unità previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale» dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per gli anni 2007-2009, allo scopo parzialmente utilizzando l'accantonamento relativo al Ministero del lavoro e della previdenza sociale.
2. Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.