QG 1/2009
Il caso Englaro, il cinismo di Stato, la Costituzione violata
Quando questo fascicolo andrà in distribuzione, la vicenda di Eluana Englaro - la sua vita vissuta tanti anni fa - sarà, infine, conclusa, nonostante gli estremi tentativi del Governo di impedirlo. Almeno lo speriamo, confidando che l'umanità, la pietà, il diritto prevalgano sul dogmatismo, sulla crudeltà, sul cinismo.
Le questioni giuridiche implicate dalla vicenda - la vita, la libertà, i diritti - sono state, negli anni, uno dei fili conduttori della riflessione di questa Rivista, dallo speciale del n. 2/1982 (secondo fascicolo della no-stra storia) dedicato a «Sciopero della fame a S. Vittore: libertà morale dei detenuti, tutela della vita, indipendenza del giudice» (con scritti di E. Fassone, L. Ferrajoli, V. Onida e D. Pulitanò) sino ai recenti obiettivi pubblicati nei nn. 6/2006 e 6/2007 dedicati a «Diritto di vivere, diritto di morire» e «Ancora su "buona morte" e intervento giudiziario» (con in-terventi di G. Gilardi, G. Corbellini, L. Eusebi, A. Santosuosso, G. Za-grebelsky, I. Patrone e ampi materiali giudiziari). Questa elaborazione ha portato a conclusioni così sintetizzate, con grande efficacia, da G. Zagrebelsky: «Nessuno (...) può imporre di vivere. Non lo Stato: lo Stato che si facesse padrone della vita dei suoi cittadini sarebbe uno Stato abominevole. E neppure la società: dare ad essa questo potere impliche-rebbe una concezione della società organicista e fortemente oppressiva, nella quale gli individui sono funzionali alla società, hanno un valore solo in quanto "servono" ad essa. Una risposta di questo genere è solo a prima vista conforme all'idea di dignità umana: in realtà essa strumentalizza la vita, la finalizza a una funzione sociale. L'individuo diventa un mezzo per; la vita stessa cessa di essere fine per diventare essa stessa un mezzo. L'impostazione diventa paradossale: si pretende di difendere la vita ma, alla fine, se si guarda cosa c'è dietro, si trova una concezione della vita come strumento per, e, dunque, un perimento del valore della vita». E ancora, con diretto riferimento al ruolo del diritto e dei giudici: «Credo che non sia più il tempo, almeno su questi temi, per una concezione del diritto come imperativo: "devi", "non devi", "puoi", "non puoi". (...) Su questi temi (...) la giurisdizione è effettivamente in prima linea e qui viene fuori il diritto mite, cioè l'attitudine dei giudici a ragionare non per logiche deduttive ma per logiche compositive ovvero attra-verso bilanciamenti di valori» (n. 6/2006, p. 1138 ss).
A ciò gli accadimenti di queste ore impongono di aggiungere due flash su cui - inevitabilmente - torneremo. Primo. Di fronte alla vita e alla morte ci vogliono pietà e rispetto. Se essi lasciano il campo alla strumentalizzazione e al cinismo (spinto sino ad allusioni volgari e in-congrue alle potenzialità di un corpo da anni inanimato), vuol dire che la società è malata, irrimediabilmente malata. Se, poi, questo atteggiamento è esibito, davanti alle telecamere, dal presidente del Consiglio, vuol dire che la cattiveria (parallelamente invocata dal ministro dell'interno nei confronti dei migranti) è diventata un sistema di governo. Secondo. Per vanificare il diritto di Eluana, riconosciuto con sentenze definitive, di sottrarre il proprio corpo a un accanimento medico privo di ogni valenza terapeutica e tutto ideologico, il Governo ha fatto ricorso al decreto legge. Poi, di fronte al doveroso rifiuto del presidente della Repubblica di avallare con la propria firma quella decisione impropria e incostituziona-le, il premier (come l'on. Berlusconi ama definirsi) ha operato uno strap-po istituzionale senza precedenti: rivendicando la decretazione di urgenza come strumento ordinario di governo, contestando il ruolo di garanzia del capo dello Stato, intimando ai presidenti di Camera e Senato la con-vocazione ad horas del Parlamento per approvare in pochi giorni un leg-ge fotocopia del decreto, trattando la Costituzione come un inutile e fastidioso pezzo di carta, rimettendo "al popolo" l'approvazione del proprio operato. È stata - come hanno scritto il segretario e il presidente di Magistratura democratica - «una pagina nerissima per lo Stato di diritto, per lo stato dei diritti nel nostro Paese». Ciò rende chiaro anche a chi non vuole vedere che v'è interdipendenza tra la prima e la seconda parte della Costituzione e che gli interventi su quest'ultima hanno inevitabilmente ricadute generali sul sistema dei diritti e delle libertà di tutti.