QG 5/2009
Toghe rosse, calzini azzurri e "riforma della giustizia"
Il 3 ottobre 2009 il Tribunale di Milano in composizione monocratica ha condannato la Fininvest a risarcire alla CIR i danni sofferti per la corruzione del giudice Vittorio Metta e il conseguente condizionamento del giudizio relativo al cosiddetto "lodo Mondadori". Al deposito della sentenza ha fatto seguito una sequenza impressionante di vere e proprie aggressioni mediatiche nei confronti del giudice: pesantemente attaccato sul piano personale dal presidente Berlusconi (che - vale la pena ricordarlo - è il dominus della Fininvest e, dunque, la parte soccombente nel giudizio), additato come eversore dai capigruppo parlamentari della maggioranza (evidentemente interessati più alle sorti di una impresa privata che alla salute delle istituzioni), proposto come "bersaglio" (con l'indicazione dell'indirizzo e del numero telefonico) da un quotidiano di proprietà della famiglia del premier, fatto oggetto di pedinamento e di un conseguente servizio televisivo irridente e offensivo fondato sul nulla da una rete televisiva di proprietà dello stesso presidente del Consiglio.
La finalità di tali reazioni è chiara. I giudici dei gradi successivi e tutti i magistrati preposti (ora o in futuro) ad analoghi processi o analoghe indagini devono sapere che cosa accadrà loro in caso di decisioni o provvedimenti sgraditi al principe. La concezione secondo cui è giusto non ciò che rispetta le regole ma ciò che conviene non è certo nuova sulla scena istituzionale, ma questa volta si è fatto un ulteriore passo in direzione della barbarie, di quella barbarie descritta da E. Gibbon in Declino e caduta dell'impero romano con riferimento alla situazione della giustizia nell'età dell'imperatore Commodo allorché «l'attuazione delle leggi era diventata venale e arbitraria» e «un criminale benestante poteva non solo ottenere l'annullamento di una giusta sentenza di condanna, ma anche infliggere all'accusatore, ai testimoni e al giudice la punizione che più gli piaceva».
Ciò che, oggi come in altre epoche della storia, appare intollerabile al principe è che un giudice, un "piccolo giudice", possa, applicando la legge, intaccare o anche semplicemente lambire il suo potere e i suoi interessi. Ci sono, anche qui, dei precedenti. In Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Piero Calamandrei ha raccontato una storia esemplare: un miliardario non riesce a fermare il processo contro suo figlio, che con l'auto ha sfracellato contro un muro un povero passante. Al difensore il miliardario raccomanda ripetutamente di non badare a spese, purché cessi lo «sconcio» del processo. L'avvocato cerca di spiegargli che «la giustizia non è una merce in vendita» e che «quel giudice è una persona per bene...». Ma il miliardario salta su sdegnato: «ho capito. Lei non me lo vuol confessare: abbiamo avuto la sfortuna di cadere in mano di un giudice criptocomunista». Quello che a Calamandrei appariva un paradosso è, oggi, realtà quotidiana. Ed è chiaro a tutti - o almeno dovrebbe esserlo - che il problema non sono né le "toghe rosse" né i "calzini azzurri" (contestati al giudice di Milano!) ma le sentenze sgradite e l'indipendenza di giudici e pubblici ministeri.
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Pochi giorni dopo la decisione del Tribunale di Milano, è stata la volta della Corte costituzionale che, con la sentenza n. 262 del 7-19 ottobre, ha dichiarato l'illegittimità del cosiddetto "lodo Alfano". Le parole della Corte non consentono dubbi o interpretazioni riduttive: «La sospensione processuale prevista dalla norma censurata è diretta essenzialmente alla protezione delle funzioni proprie dei componenti e dei titolari di alcuni organi costituzionali e, contemporaneamente, crea un'evidente disparità di trattamento di fronte alla giurisdizione. Sussistono, pertanto, entrambi i requisiti propri delle prerogative costituzionali, con conseguente inidoneità della legge ordinaria a disciplinare la materia. In particolare, la normativa censurata attribuisce ai titolari di quattro alte cariche istituzionali un eccezionale e innovativo status protettivo, che non è desumibile dalle norme costituzionali sulle prerogative e che, pertanto, è privo di copertura costituzionale. Essa, dunque, non costituisce fonte di rango idoneo a disporre in materia. Deve, pertanto, dichiararsi l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge n. 124 del 2008, per violazione del combinato disposto degli artt. 3 e 138 Cost., in relazione alla disciplina delle prerogative di cui agli artt. 68, 90 e 96 Cost.». Era un esito prevedibile, quasi ovvio, per chi esamina le norme facendo riferimento ai princìpi e non alla utilità contingente, come aveva da subito osservato, tra gli altri, Alessandro Pace sulle pagine di questa Rivista («Cinque pezzi facili»: l'incostituzionalità della legge Alfano, n. 4/2008, p. 7): «Una analisi serena non lascia dubbi: da qualunque parte la si guardi, la legge n. 124/2008 vìola il principio fondamentale secondo cui "nello Stato costituzionale non esistono sovrani" e presenta vizi di incostituzionalità insuperabili».
Eppure per impedire questo esito era scesa in campo una "corazzata" che non ha lesinato bordate: dagli incontri conviviali nell'imminenza della decisione tra due giudici costituzionali e i soggetti interessati alla norma sottoposta ad esame (il ministro della giustizia e il presidente del Consiglio, unico "utilizzatore finale" a essersene avvalso...) alla pressione politica della Avvocatura dello Stato spintasi sino a prospettare alla Corte danni irreparabili «all'esercizio delle funzioni elettive tutelate dalla Costituzione» in caso di dichiarazione di incostituzionalità del lodo; dalla stravagante affermazione che una pronuncia di illegittimità avrebbe comportato una "smentita" del capo dello Stato che quella norma aveva promulgata (come se così non fosse per tutte le leggi dichiarate incostituzionali...) alla esplicita richiesta al presidente della Repubblica di esercitare la propria influenza sui giudici costituzionali per difendere il lodo. Non solo, ma una volta intervenuta la sentenza si è - al fine di delegittimarla - andati anche oltre, accusando la Corte di avere agito per fini di parte, violando spudoratamente il segreto della camera di consiglio (istituto, almeno per me, anacronistico, e tuttavia vigente), contestando al capo dello Stato di non avere fatto pressioni sufficienti sui giudici, mettendo in dubbio persino il potere della Corte di "porre nel nulla" la volontà della maggioranza parlamentare (sic!).
Mai, in epoca repubblicana, ci si era spinti a un punto così alto di disprezzo delle regole costituzionali e dello Stato di diritto.
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È in questo contesto che, sul finire di ottobre, è iniziata la campagna d'autunno per "riformare la giustizia". In realtà la campagna era partita da tempo, anche con la presentazione di specifici disegni di legge governativi (in particolare in tema di disciplina delle intercettazioni telefoniche e ambientali e di assetto del processo penale). Ma poi, in attesa della decisione della Corte costituzionale sul lodo Alfano, tutto era parso fermarsi ed era, in ogni caso, rimasto sotto traccia: a dimostrazione che l'obiettivo perseguito non era un miglior funzionamento (quantitativo e qualitativo) della giustizia... Oggi, dopo le pronunce del Giudice delle leggi e del Tribunale di Milano, "riformare la giustizia" torna ad essere una priorità.
Il contesto non è irrilevante al fine di individuare l'obiettivo perseguito.
Soprattutto quando molti (troppi) mostrano di non comprenderlo.
È il caso, tra gli altri, di Luciano Violante - giurista e politico autorevole e di lunga esperienza - che, in un recentissimo libro (Magistrati, Einaudi, 2009), prendendo le mosse dalla affermazione del filosofo cinquecentesco Francis Bacon secondo cui «i giudici devono essere leoni, ma leoni sotto il trono», ripropone la tesi a lui cara delle "pari responsabilità" di politici e magistrati nella produzione della attuale instabilità istituzionale.
Scrive, infatti, Violante - in un passaggio ripreso finanche nella copertina del volume - che «il rapporto fra politica e giustizia resta difficile ancora oggi. Il trono ambisce a schiacciare i leoni. I leoni manifestano una certa propensione a sedersi sul trono. Solo una solida, laica coscienza istituzionale può garantire il raggiungimento di un equilibrio democratico ». D'accordo sulla affermazione conclusiva, sembra difficile condividere la premessa. La Corte costituzionale e il giudice Mesiano non sembrano davvero leoni intenti a dare la scalata al trono... Non è un dettaglio, ché una errata interpretazione dei fatti è, spesso, fonte di guasti profondi nella individuazione dei rimedi.
Ma, ovviamente, non c'è solo il contesto. L'impressione che più di una "riforma della giustizia" si tratti di un tentativo di "regolare i conti" con i magistrati è confermata dai contenuti delle proposte sul tappeto: limitare drasticamente le intercettazioni ambientali e telefoniche (riducendo le ipotesi di reato che le consentono e, soprattutto, snaturandone la funzione sino a renderle strumento di conferma di prove già acquisite più che veicolo di ricerca della prova), riorganizzare in modo gerarchico gli uffici del pubblico ministero, limitare la discrezionalità del giudice nella direzione del processo, escludere alcuni mezzi di prova, trasformare il pubblico ministero in "avvocato della polizia" a cui è precluso ogni potere di iniziativa, aumentare le possibilità di ricusazione del giudice, sterilizzare il Consiglio superiore sia sforbiciandone le competenze sia svincolandolo da una funzione di rappresentanza dei magistrati etc.
Non abbiamo mai difeso acriticamente i magistrati, ma oggi ad essere messi in forse non sono i privilegi di giudici e pubblici ministeri, bensì le prerogative e la funzione della giurisdizione.