Organizzazione degli uffici ed esercizio delle funzioni giurisdizionali: essere donna fa differenza?

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Alla fine del 1976 cominciò a riunirsi nella saletta
dell'Associazione Nazionale Magistrati, qui a fianco, il venerdì alle
ore 13.30, un folto gruppo di donne, avvocate, magistrate, cancelliere,
segretarie. Si chiamava "Gruppo donne del Palazzo di Giustizia".
Arrivavamo qui a frotte, ci sedevamo in circolo, con gli stessi zoccoli
e le stesse gonne a fiori con cui andavamo in manifestazione o in
udienza (scandalizzando tanto alcuni...). Discutevamo, analizzavamo,
piangevamo e ridevamo. Ridevamo tanto.

Erano gli anni "ruggenti" del movimento femminista.

Secondo la bella e completa ricostruzione
storico-analitica effettuata da Anna Rita Calabrò e Laura Grasso in
"Dal movimento femminista al femminismo diffuso - storie e percorsi a
Milano dagli anni '60 agli anni ‘80" (Franco Angeli Editore, edizione
2004), a Milano fino al 1976 si discuteva di politica delle donne come
alternativa al sistema politico ed al sistema della vita quotidiana;
successivamente invece alcuni gruppi si diedero a tematiche più
specifiche, come l'aborto o le politiche dei servizi sociali, mentre
per altri divenne cruciale "la dinamica tra la ridefinizione del sé
nelle pratiche di relazione tra donne e la definizione dell'identità
individuale per via politico-collettiva". Quello del Palazzo di
Giustizia era certamente un gruppo del primo tipo, anche se molte di
noi, che praticavano l'autocoscienza, tentavano un approccio ad ogni
problematica con quel metodo del "partire da sé" che sarebbe poi sempre
più diventato una vera e propria pratica politica.

Ci occupammo di aborto, prima di tutto (la legge
sarebbe stata approvata nel '78, e ci eravamo trovate proprio scrivendo
un documento ed una serie di cartelloni che avevamo affisso nei
corridoi del Palazzo in merito alla proposta di legge sull'aborto):
cercando di capire cosa significava per noi fare un figlio - scegliere
di farlo - analizzavamo i contenuti delle varie proposte di legge e poi
di quella approvata, per "usare" la quale scrivemmo un piccolo manuale,
che ebbe molto successo e venne distribuito nelle edicole: "Aborto:
dove, come, quando", Teti Editore, 1978.

Oggetto principale delle discussioni al nostro
interno era, più che il rapporto con il nostro comune mondo di lavoro,
il rapporto con la norma, la posizione da assumere nella duplice veste
di donne e di tecniche del diritto: e fu così che alcune di noi
scrissero il libro "Donne e diritto", uno dei cinque titoli dell'opera
"Lessico politico delle donne" a cura di Manuela Fraire (Edizioni
Gulliver, 1978), analizzando le norme - discriminatorie e penalizzanti
nei nostri confronti - in tema di diritto di famiglia, di rapporti di
lavoro, di violenza sessuale, di riproduzione...

L'appartenenza al gruppo non era indolore, era
percepita come eversiva, ed eversivo era effettivamente il pensiero
delle donne in quegli anni, nella grigia, gerarchizzata, burocratizzata
e maschilista istituzione giustizia. Basti ricordare "processo per
stupro". Erano gli anni in cui alcuni colleghi maschi rasentavano la
molestia sessuale, gli anni in cui gli avvocati entravano nelle nostre
stanze chiedendo: "scusi signorina, quando posso trovare il giudice?".
E, nella mia storia personale, mi basterà ricordare le indagini svolte
dai Carabinieri sul mio conto - per disposizione del Procuratore
Generale - quando mi trovai ad affrontare, come Pretore penale, il
problema della obiezione di coscienza dei medici degli ospedali che,
per legge, dovevano praticare l'interruzione di gravidanza, obiezione
"obbligata", secondo le denunzie presentate.

Con alterne vicende, il Gruppo Donne Palazzo di
Giustizia si riunì fino al 1981: contribuirono alla sua fine le
discussioni e gli scontri determinati dall'appartenenza a diverse
ideologie politiche ed a diverse correnti all'interno della
magistratura, e la differenziazione dei ruoli gerarchici: magistrate ed
avvocate da un lato, segretarie e cancelliere dall'altro.

Molte di noi continuarono a vedersi, nei piccoli
gruppi di autocoscienza: ci occupavamo della nostra vita, che stavamo
ribaltando, cercando - con dolore ed allegria, entusiasmo e
passionalità, a volte incosciente irresponsabilità - di mettere al
centro noi stesse, con i nostri desideri. Sperimentavamo una forma di
amicizia femminile intensa e coinvolgente, che ci dava forza e
sicurezza, ci sosteneva nelle difficile scelte che stavamo facendo; e
una libertà sessuale mai conosciuta prima.

Finchè nel 1983 un documento scritto dal c.d. gruppo
n.4, nato dall'esperienza del collettivo di via Col di Lana, che fece
poi riferimento principalmente alla Libreria delle Donne, agitò
fortemente le acque del femminismo milanese. Era un fascicolo della
rivista "Sottosopra" e si intitolava "Più donne che uomini": parlava
del nostro disagio a vivere nel mondo (il mondo "dei commerci sociali",
si diceva), dello "scacco" (la non affermazione di sé) che subivamo,
della "voglia di vincere", insomma del desiderio di realizzazione nel
mondo pubblico, del rapporto fra l'affermazione a livello sociale e la
fragilità nei sentimenti. Si discuteva della possibilità di dare vita e
forma ad un "simbolico" femminile, ad un sistema di valori in cui le
donne potessero esprimersi e riconoscersi; di lavorare insieme alle
altre donne per inserire i contenuti, i bisogni, i desideri del
femminile attraverso le crepe e le fratture che le contraddizioni
quotidiane aprono nel sociale. Si spostava l'attenzione dal "dentro di
sé" al "fuori da sé".

Ne nacquero discussioni infinite, contrasti: era
evidente la differenza fra questo pensiero e la c.d. "pratica
dell'inconscio", caratterizzante tanta parte del femminismo di quegli
anni. Pratica vissuta, sperimentata, e poi analizzata e raccontata in
maniera competente ed affascinante da Lea Melandri in tante
pubblicazioni (da ultimo: "Una visceralità indicibile", Franco Angeli
Editore).

Per iniziativa di alcune delle autrici del fascicolo
di Sottosopra si formò un nuovo gruppo, ancora una volta tutto di
giuriste (avvocate e magistrate) che discuteva (anche molto
animatamente) del nostro rapporto con il mondo della giustizia, del
nostro desiderio di vivere da protagoniste, di "stare sulla scena
illuminata", e non più brillare sempre solo di luce riflessa, di come
praticare diversamente le nostre professioni, del rapporto di
affidamento di una donna con l'altra. Ma, per dirla molto in sintesi,
nell'arco di circa due anni Margareth Tachter ci divise: per alcune di
noi (ed in particolare per tutte le magistrate, e tutte di emmedi) non
era possibile operare una scissione fra l'essere di sinistra e l'essere
donna. Non avremmo votato per la Tachter sol perché donna, per la
difficoltà di riconoscere valore ad un soggetto in quanto donna, a
prescindere dai contenuti e dal progetto del suo operare. E forse anche
non volevamo "vincere": magari - penso oggi - perché credevamo,
sbagliando, di aver già vinto, nel mondo dei "commerci sociali", avendo
superato il concorso di magistratura o gli esami da procuratore.

Il gruppo insomma ha dovuto registrare come per
molte di noi il femminismo si intrecciava con una irrinunciabile
vocazione garantista: abbiamo affermato allora - ed io credo ancora
oggi - che lo specifico femminile non è di per sé garanzia di
trasformazione del reale, che la qualità non è implicitamente buona in
quanto femminile la connotazione.

Dalla profonda spaccatura che ne è seguita, abbiamo
continuato a vederci in poche, privilegiando la relazione affettiva fra
noi senza perdere di vista gli spunti di un pensiero che era venuto
maturando. Per usare parole di quei tempi: "la consapevolezza che le
ragioni della critica femminista al diritto non potevano prescindere
dalla sua natura di classe, e l'idea che questa consapevolezza non
andava ad aggiungersi alla specificità della differenza sessuale, come
se fosse possibile pensare un io femminile diviso, ma dava luogo ad una
nostra differente specificità, proprio come donne".

Da quella scissione nacque così nella seconda metà
degli anni '80 un altro piccolo gruppo, che vive ancora e di cui faccio
parte: il Collettivo Donne e Diritto.

Il femminismo dell'oggi è diverso da quello del
passato, giustamente si parla di "femminismi", di pensieri ed
esperienze diverse che, per dirla con Lea Melandri ("Quanto silenzio
nella Babele dei femminismi", relazione introduttiva al seminario
"Femminismi di ieri e di oggi" tenutosi il 6/7 marzo 2004 alla Casa
internazionale delle donne di Roma), hanno un denominatore comune che è
la vita pubblica, è una cultura che ha integrato nuovi contenuti ma che
conserva in parte il suo impianto tradizionale, le sue cancellazioni
rispetto alla "soggettività incarnata". Esistono tanti gruppi (delle
storiche, delle letterate, delle giuriste), che lavorano bene in ambiti
specifici ma non riescono a far parlare la soggettività nella sua
concretezza, il modo con cui ognuna di noi rappresenta se stessa e il
mondo, lasciandosi sfuggire quel "caposaldo del potere materiale e
psicologico delle donne - quello che appare loro come il più
direttamente accessibile - e cioè il rendersi indispensabile all'altro,
vincolarlo a sé con la dipendenza, infantilizzandolo."

La domanda dell'oggi allora è "quali cambiamenti
produca la relazione con le altre donne, a volte quasi
‘istituzionalizzata', se vi sono ancora desideri di conoscenza e di
cambiamento legati alle nostre vite che nella pratica collettiva
possono trovare risposte".

Io non lo so. So però per certo che esistono reti di
donne fra loro in comunicazione, restano gruppi di scambio dove agisce
l'autorità femminile, dove si condividono interessi e competenze
comuni, restano relazioni privilegiate tra donne che creano e
moltiplicano autorità e giudizio libero femminile. Gruppi di scambio
che possono peraltro continuamente crearsi e dissolversi, come ha
dimostrato la recentissima storia del documento contro la legge sulla
procreazione medicalmente assistita scritto da Bianca La Monica e
sottoscritto in pochissimi giorni da circa 150 giuriste, che hanno
appunto tra loro creato una relazione privilegiata e si sono date
reciproca autorevolezza.

Rispondere alla domanda che ritengo preliminare e
fondamentale se vogliamo parlare di "magistratura e differenza di
genere", cioè se faccia differenza (e fa differenza) essere donne
nell'istituzione giustizia, implica a mio parere raccontare le modalità
dell'agire femminile nel mondo della giustizia, come si sono venute
formando nel corso del tempo, per quanto mi concerne all'interno del
Collettivo donne e diritto. Raccontare le connessioni che abbiamo
cercato fra pensiero e pratica nel nostro lavoro - le relazioni con gli
altri e l'organizzazione, il senso della funzione, il contenuto delle
decisioni, il rapporto con la norma - significa appunto raccontare una
modalità dell'agire politico femminile nel mondo della giustizia.

é stato nel Collettivo (formato principalmente da
magistrate ed avvocate) che abbiamo cominciato a discutere, sempre con
il metodo - certo lentissimo, ma per noi unico possibile - "del partire
da sé", non solo di rapporto con la norma, ma anche della nostra
relazione con il danaro, il potere, il lavoro.

Abbiamo scritto in anni lontani (nel 1996, per il
grande incontro tenutosi alla Sala della Provincia, fortemente voluto
ed organizzato da Anna Del Bo Boffino: "Percorsi del femminismo
milanese a confronto"), ed ha scritto con noi Rita Errico (che ci ha
lasciato ormai quasi due anni fa, e che oggi e qui particolarmente
voglio ricordare, insieme a Maria Luisa Martino), parole che conservano
secondo me tutta la loro validità.

Perché avevamo disvelato (a noi stesse prima di
tutto) che l'ambito nel quale operiamo, la simbologia che lo
caratterizza, lo strumento di cui facciamo uso - il diritto - ed il
processo con la sua ritualità hanno caratteri maschili per eccellenza.

Il confronto cui siamo continuamente chiamate
nell'espletamento della funzione o della professione è di tipo
astratto. I casi personali che trattiamo vengono spogliati della loro
materialità e concretezza affinché possano essere ricondotti e
ricompresi nelle norme di legge.

Siamo insomma continuamente buttate fuori dai corpi,
quello nostro e quello delle altre/altri, e dalle esperienze di vita,
ed invitate a partecipare ad un gioco asettico, a colpi di norme
processuali e sostanziali, che rischia di far perdere il contatto con
la realtà sottostante.

Nonostante ciò, forse come difesa da tutto ciò, non
c'è argomento, per quanto astratto, che non si possa affrontare a
partire da sé, e con questo metodo abbiamo imparato ad interrogarci sul
rapporto donna/giustizia, donna/legge e più in generale sul senso delle
istituzioni. Da quelle domande nasce il nostro fare, nelle nostre
professioni e nei rapporti con le parti del processo o i clienti (per
le avvocate), nell'elaborazione teorica delle problematiche connesse a
leggi e istituzione giustizia, nel confronto con i temi del mondo delle
donne che ci riguardano più da vicino.

Una pratica politica si riversa, come è ovvio,
nell'ambiente di lavoro: ci siamo rese conto di avere nel tempo cercato
di modificare, o comunque di dare un'impronta particolare, alle nostre
relazioni nel lavoro. Ci siamo rese conto che essere donna consapevole
- e forse anche orgogliosa - della propria specificità fa differenza,
in un tribunale così come in una scuola, in un ospedale, in un'azienda.
Anche se, certo, decodificare il simbolico maschile è più difficile nel
mondo dei codici.

Le magistrate, istituzionalmente tenute a svolgere
un ruolo di potere che ha la sua espressione massima nel giudizio,
hanno cercato di privilegiarne un uso diverso, rispetto alle parti in
lite, svolgendo il più possibile un ruolo di mediazione. Questo vale
naturalmente in maniera più evidente per chi opera in campo civile. Ma
non solo.

Le avvocate hanno compreso che, nella maggior parte
dei casi, la domanda di giustizia di cui vengono investite nasconde
un'altra domanda, talvolta non esplicitabile, che non può essere
risolta dalla legge.

Tutte ci siamo rese conto che i conflitti, non solo
quelli che hanno origine nei rapporti personali ed affettivi,
normalmente non trovano composizione nel diritto, o comunque trovano
miglior composizione fuori da ogni decisione autoritaria.

Questa acquisizione può informare di sé il nostro
lavoro, rendendolo a sua volta, in qualche modo, pratica politica. Il
termine non deve far paura, basta intendersi.

Si tratta di valutare continuamente l'incidenza che
lo svolgimento del nostro compito ha sulla vita degli altri e di andare
alla scoperta dei problemi reali che si agitano dietro una domanda di
giustizia.

Si tratta di interagire nelle relazioni con gli
altri, avvocati e parti, giudici e clienti per le avvocate, senza
accettare che sia il ruolo a vivere in vece nostra. Si tratta di vivere
liberamente il nostro essere corpo e mente di donna, senza sentirci
obbligate a scimmiottare il modo maschile di esercitare la professione,
esercitare potere, fare politica: parlo di libertà femminile, la
libertà di costruzione e riconoscimento della propria identità al di
fuori degli schemi e dei ruoli che secoli di storia hanno sedimentato
nella culture e nel diritto. Si tratta, anche in politica (ed anche,
visto che qui siamo, nella politica associativa e di corrente), di
cercare competenza femminile, e non competenza tout court, o il
femminile tout court. Si tratta di dare valore e reciproco
riconoscimento a quella competenza femminile.

Un tempo a questo pensiero è stato dato un nome, "diritto sessuato".

Nel 1987 le giuriste della Libreria delle Donne
hanno scritto (in "Non credere di avere dei diritti", Rosemberg &
Sellier): "Le donne che operano nel campo del diritto - avvocate e
giudici - possono costruire tra loro una trama di rapporti
significativi, attraenti, che le toglie dall'isolamento e dalla
omologazione al modello maschile e mette in circolazione un di più
femminile, dando loro visibilità e autorevolezza non come tecniche
neutre ma come portatrici di un sapere originale, capace di segnare al
femminile il diritto."

Ma diritto sessuato è stato anche qualcosa di più: è
stato il progetto di modificare il senso delle norme attraverso la
giurisprudenza, dando ingresso alla diversità di genere nel diritto.
Anche se è fin troppo evidente la necessità di demistificare il
cosiddetto genere neutro del diritto, che tendenzialmente disconosce
l'esistenza di un genere diverso da quello maschile, o, se lo
individua, lo fa per attribuire alle donne il ruolo di madre o di
moglie, un tale progetto (che pure in qualche forma ha trovato concreta
realizzazione e comunque ha segnato per molte, negli anni successivi,
il modo di intendere la professione) si è scontrato con il rifiuto
dell'idea di un sistema di norme diverso e parallelo rispetto a quello
maschile, per l'incompatibilità dell'"ordine femminile" con le
codificazioni, l'impossibilità di vedere, in un astorico e non
connotato femminile, l'unico valore di riferimento. Proprio da quello
scontro, da quel dissidio è nato il Collettivo donne e diritto, come ho
già detto.

E di diritto sessuato si è parlato anche in
un'accezione parzialmente diversa: al linguaggio dei diritti infatti si
può contrapporre il modello dell'interdipendenza, della connessione,
mettendo al centro della riflessione l'individuo concreto, sessuato,
definito dalle relazioni in cui è inserito: insomma l'essere in
relazione, e la responsabilità come misura della relazione (Elisabeth
Wolgast, "La grammatica della giustizia" Editori Riuniti, 1991).

In questa stessa ottica si è parlato, abbiamo
parlato, di "diritto leggero", di elasticità dello spazio giuridico nel
momento della produzione e discrezionalità nel momento
dell'interpretazione, in contrasto con la proliferazione dello
strumento legislativo quale regolatore di conflitti sociali e, a
maggior ragione, di quelli che traggono origine dalla differenza
sessuale; con l'idea che il terreno giudiziario possa essere un luogo
privilegiato di risoluzione dei conflitti.

Una completa esplicitazione di questo pensiero, una
risposta alla domanda se sia possibile "uno sguardo ravvicinato" della
giustizia verso donne e uomini - attraverso i criteri dell'equità
intesa come giustizia del caso concreto, del ritrarsi del diritto dalla
sfera della soggettività piuttosto che invaderla in funzione di tutela
- la ritroviamo, non a caso, nel lavoro di un altro gruppo di donne
giuriste, formato da magistrate ed avvocate (ancora una volta:
magistrate ed avvocate che trovano facilmente un terreno di incontro...):
il "Gruppo giuriste Virginia Woolf B" di Roma ("Per un diritto leggero.
Esperienze di giustizia e criterio di equità", documento introduttivo
presentato all'incontro del Centro Viginia Woolf, "Per un diritto
leggero" , Roma, 8 giugno 1995, pubblicato in "Democrazia e diritto",
"La legge e il corpo", 1996 n.1).

La domanda cruciale che si erano poste le amiche
romane, e che ci siamo poste noi tante volte, era: come può interagire
la categoria della differenza in un sistema di pensiero fondato sul
principio di uguaglianza?

Avevamo tentato un risposta.

I modi e le forme per affermare l'esistenza del
genere femminile forte e contemporaneamente difendere le posizioni
soggettive deboli non sono identificabili nella produzione legislativa
in via esclusiva: le politiche della parità, come tutte le posizioni
che si sono affidate in via prioritaria alla tutela delle leggi, hanno
mistificato e confuso la debolezza delle singole con la debolezza del
genere, invocando, in sostanza, un'uguaglianza omologante.

Si tratta di comprendere che nessuna libertà ed
uguaglianza possono esistere in un mondo senza libertà femminile, e che
nessuna libertà femminile può darsi in un mondo senza libertà ed
uguaglianza, costruendo con la pratica politica fra donne prima e con
gli uomini poi libertà femminile, fuori dai meccanismi giuridici ed
istituzionali. Il diritto non perde il suo carattere sessuato al
maschile se singole norme introducono correttivi che prendono atto
dell'esistenza in fatto della discriminazione sessuale.

Abbiamo detto in passato: le scorciatoie
istituzionali, specie quelle consistenti in regolamentazioni di mera
tutela, sono di scarsa utilità e prive di ritorno in termini di
libertà.

E allora parliamo oggi, ancora una volta, di quote:
mi interessa che una donna diriga un ufficio o possa svolgere politica
associativa in un qualche organismo di rappresentanza se così si
esprime la sua identità, la sua libertà femminile che è anche la mia.
Ma non mi interessano le quote se così si aggiungono le donne agli
uomini come se fossero uomini e non donne.

Il dibattito è, ancora una volta, quello relativo a politiche della parità e politiche della differenza.

Le prime si sono tradotte in leggi o proposte di
legge basate tutte sul presupposto che il genere femminile è debole e
necessita di tutela perché sia garantita l'uguaglianza, e
sull'ulteriore presupposto di fatto (mai teorizzato, ma verificatosi
nella realtà) che la politica delle donne è solo politica per le donne,
da ghettizzarsi in commissioni femminili o comunque rinchiudersi in
spazi specifici.

Le politiche della differenza - rivendicando che la
politica delle donne è metodo e cultura che dall'affermazione del due
cerca la relazione con l'altra/o - hanno contestato il ricorso alla
legge, auspicato il "porsi sopra la legge", l'apertura di vuoti
normativi, producendo una misura femminile del mondo. Hanno affermato
che non si diventa soggetti di diritto e di libertà attraverso la
tutela offerta da una legge; che la libertà femminile non viene
dall'essere ammesse nella società maschile né da una rivendicazione nei
suoi confronti, ma dall'autorità, che si può ricevere solo da una fonte
femminile. "La società in cui la differenza femminile può esprimersi
liberamente è la società dove la singola si confronta con il mondo
essendo preceduta e assistita dall'autorità sociale del suo sesso"
(Libreria delle donne di Milano, "Non credere di avere dei diritti",
cit.).

Non sto dunque dicendo che non ha senso che delle
donne assumano posizioni dirigenti, negli uffici o
nell'associazionismo: il senso ce l'ha, eccome, sempre che siano donne
che "hanno una capacità di espressione significativa di loro stesse",
come scriveva Lidia Ravera, dieci anni più tardi (nel fascicolo
"Politica, l'amante incompresa" della rivista DWF - donnawomanfemme -
Cooperativa Utopia, 1997): "Ai vertici l'assenza del femminile è
imbarazzante, fa pensare a un difetto di fabbricazione nella piramide
sociale..." ed auspicava l'ingresso massiccio del femminile, "non di
donne e basta. Le ‘donne e basta' vadano dove vogliono, staranno sempre
sotto. Le donne che conservano una capacità di espressione
significativa di loro stesse hanno imparato a partire da sé, a pensare
in grande, ad esercitare l'attenzione, l'autoanalisi costante e
implacabile, la palpazione anche reciproca di stati d'animo, umori,
terrori."

Scriveva Carla Lonzi, l'anima e la mente del gruppo
"Rivolta femminile", nel lontano 1977, con la sua prosa poetica e
tagliente, ciò che può anche significare esser rappresentate da una
"pseudo-esperta del femminile": "hai avuto dall'uomo l'identità e non
la lasci / riversi su di me il tuo conflitto e mi sei ostile / attenti
alla mia integrità / vorresti mettermi sul piedistallo / vorresti
tenermi sotto tutela / .../non sai chi sono e ti fai mia mediatrice /
quello che ho da dire lo dico da sola /.../ chi ha detto che hai giovato
alla mia causa? / io ho giovato alla tua carriera".

Io, pescando dai miti delle donne e dalla cultura
ebraica, distinguo fra Eva e Lilith, colei che non volle giacere sotto
Adamo...

Già dieci anni fa, in uno scritto apparso su
"Questione Giustizia" (n.4 del 1993: "Pratica politica delle donne e
istituzione giustizia"), Laura Curcio, Bianca La Monica, Rita Errico
(ancora una volta torna fra noi...) ed io abbiamo scritto di tutti questi
temi. Abbiamo parlato del nostro silenzio all'interno dell'istituzione
giudiziaria, del fatto che non avevamo mai portato all'interno del
dibattito politico della corrente l'identità collettiva delle donne, la
nostra specificità di donne/magistrate democratiche, così come si era
venuta formando, per noi milanesi, prima nel Gruppo donne del Palazzo
di Giustizia e poi nel Collettivo donne e diritto. Abbiamo lì anche
trattato un altro tema, cui oggi non possiamo non accennare, e che
richiama, ancora una volta, la differenza fra Lilith ed Eva, di donne e
"donne e basta". Perché parlando di donne, organizzazione degli uffici
e funzioni giurisdizionali non possiamo tacere del fatto che esiste una
associazione formalmente costituita, l'Associazione Donne Magistrato
Italiane (ADMI), cui non ci siamo mai iscritte e che abbiamo fin dalla
sua nascita fortemente criticato. é stata quanto meno inconsueta,
rispetto alla pratica politica delle donne, la costituzione di un
organismo rappresentativo, con uno statuto già confezionato, senza
alcun previo confronto con le magistrate, che si richiama al valore
della differenza sessuale ed alla specificità femminile e propone un
approccio alla professione consapevole della diversa relazione fra
donne quasi fossero ornamenti di facciata che abbelliscono
un'impostazione dell'agire molto distante dalla pratica politica delle
donne, come si è poi dimostrato in tutta la successiva attività
dell'associazione; che rifiuta ogni connotazione politica pur volendo
proporre modifiche legislative di parità e studiare tutti i problemi
che riguardano la condizione femminile, come se occuparsi di donne non
significasse fare politica...; che per statuto accetta incontrollati
finanziamenti e prevede la possibilità di esclusione di socie con
delibere a voto segreto e per casi non predeterminati (e la chiamiamo
pratica politica di donne?).

Dall'ADMI poi è arrivato, nel 1992, un programma di
azioni positive ed una proposta di modifica dello statuto
dell'Associazione Nazionale Magistrati (il c.d. "progetto Governatori")
che ci ha visto dissenzienti.

Parlarne oggi, a distanza di 12 anni, ha ancora un
senso, significa mettere i piedi nel piatto, perché certo i tempi sono
cambiati: entri in un'aula penale e trovi tutte donne, collegio
giudicante, avvocate, stenotipista e segretaria, le donne in
magistratura tendono a diventare la maggioranza: ma sono governate
ancora, salvo rare eccezioni, dagli uomini, come dimostrano i dati che
ci ha fornito Giuliana Civinini.

E questo è vissuto male e ritenuto sbagliato, come
emerge evidente dalla lettura delle risposte al questionario, che ci ha
aiutato a comprendere Francesca, e dallo scambio di posta elettronica
che ha preceduto questo convegno sulla mailing list di emmedi.

Le donne dell'ADMI proposero allora di rimuovere la
discriminazione indiretta che la magistrata- madre subisce nella
realizzazione piena della sua professionalità ed al tempo stesso della
sua funzione familiare attraverso la prelazione assoluta nella scelta
della prima sede o nei trasferimenti senza tenere in alcun conto il
dibattito delle donne in tema di ruoli all'interno della famiglia e di
distribuzione del lavoro di cura tra i sessi, sul rifiuto di
regolamentazioni di mera tutela. E così ancora oggi si dice che di
questo dovremmo parlare, che finché non vi sono modificazioni culturali
che incidono sulla percezione di sé e del proprio ruolo anche
all'interno della famiglia non ci sono azioni positive che tengano.

L'altra proposta del "progetto Governatori" era la
riserva di quote nella composizione del Comitato direttivo centrale
dell'ANMI. Ed ancora oggi di quote parliamo: ma se devo scegliere se
esser governata da Condoleeza Rice o, che ne so, Walter Veltroni,
oppure - azzardo - Romano Prodi, io preferisco Walter Veltroni/Romano
Prodi; provate voi a trasporre paragoni similari in tema di
organizzazione dell'ufficio...

Siamo insomma ancora al punto di cui ho già parlato:
è una presenza femminile consapevole, è la presenza di una donna che
faticosamente si pensa come individualità svincolata dai ruoli già
dati, di una donna che pratica la dialettica della vita con la cultura,
l'incontro delle storie con la storia, a segnare la differenza, a
connotare di genere la rappresentanza.

Qualcosa di tutto questo è entrato nella cultura
comune: le giovani magari non se ne accorgono neppure. Qualcosa è stato
fagocitato, omologato.

La riserva di quote di per sé non nuoce ma significa
poco. Certo potrebbe funzionare da stimolo, eliminare alcuni problemi
di "sgomitamento" che magari inducono ad una rinuncia a priori.

Ci sono delle costanti, dei principi acquisiti, lo
dimostra il confronto con l'indagine statistica sulle donne in
magistratura effettuata da Valerio Pocar nel 1991 e gli esiti del
questionario di oggi. Le donne intendono l'esercizio della funzione
giurisdizionale come servizio pubblico e non come esercizio di potere
(si era allora usata la definizione "operatore sociale dotato di potere
istituzionale"), non hanno tempo per assumere incarichi perché si
dedicano molto al proprio lavoro (esattamente perché è un servizio!) e
si occupano degli altri nella loro vita privata (ma perché non
riusciamo a mollare? E perché non lo fanno anche gli uomini?), la
carriera era ed è vista come occasione di azione concreta, ci riteniamo
- e siamo - capaci di organizzare il lavoro nostro ed altrui ma non
chiediamo posti di dirigente perché lo consideriamo non un onore ma un
onere, un impegno che per esser responsabilmente svolto non può non
significare più tempo dedicato al lavoro; e forse perché altri sono i
criteri di scelta dei dirigenti.

Ed allora perché non adottare appunto altri criteri?
La scelta da parte dei componenti dell'ufficio stesso, la rotazione, la
valorizzazione delle capacità organizzative piuttosto che delle
conoscenze teoriche, la consapevolezza che un buon giudice non è
necessariamente un buon dirigente (e questo vale per donne e uomini):
tante cose si stanno dicendo, proponendo.

E perché, in campo associativo, non attuare pratiche
politiche diverse invece che cercare di rendere più "attraente per le
donne" la esistente forma della politica (mi riferisco ad una email di
Rita Sanlorenzo)?

Le donne tendono a non assumersi incarichi direttivi
e semidirettivi, responsabilità associative o di corrente, anche perché
non vogliono farsi prendere tutti i tempi della vita, che non è fatta
solo di attività di cura, di attenzione (e quindi tempo) per le
relazioni, ma anche di piaceri per sé, che contribuiscono alla propria
identità. Perché non pensiamo tutti a prenderci tempo di vita?

Ed anche questo vale per donne e per uomini.

Prima di tutto vorrei spiegarvi i motivi del "taglio storico" che ho dato al mio intervento.

Non vuole essere un "amarcord", un "la meglio gioventù" al femminile.

Vuole testimoniare il fatto che se oggi siamo qui a
parlare di magistratura e differenza di genere è perché da una trentina
di anni ormai esiste un pensiero di donne, che forse non tutte
conoscono, ed in particolare un pensiero di giuriste. Alcune delle cose
dette in passato sono connotate dal tempo, altre sono state fagocitate
ed omologate, altre ancora sono pane quotidiano.

Credo che un incontro come quello di oggi debba
avere il segno di quel pensiero, insomma credo che, insieme all'analisi
dei questionari che ci ha fornito Francesca, questa mia sia una
premessa necessaria.

16 07 2007
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