Ministero della Giustizia
Ministero del lavoro e della previdenza sociale
COMMISSIONE PER LO STUDIO E LA REVISIONE DELLA NORMATIVA PROCESSUALE DEL LAVORO
(D.M. 28.11.2006)
Presidente Raffaele Foglia
RELAZIONE GENERALE
Roma, 21 maggio 2007
Premessa
Sulla crisi del processo del lavoro, tra gli aspetti più allarmanti della crisi della giustizia civile, e sulle sue ragioni di fondo, si dibatte, da anni, concordandosi sulla molteplicità delle sue origini - da quelle socio-economiche, a quelle culturali, dall' accresciuto accesso alla giustizia, alle ragioni politico-normative, ai difetti strutturali del sistema giudiziario ecc.- senza escludere fenomeni che documentano, talora, un "abuso" del processo del lavoro, come dimostrano recenti esperienze (si pensi all'esorbitante numero di controversie dei dipendenti delle Poste Italiane, in materia di contratti a termine, e a quelle, nondimeno, a carattere alluvionale, concernenti le integrazioni al trattamento minimo delle pensioni, l'indebito previdenziale, i prepensionamenti nel settore degli autoferrotranviari, per citarne solo alcune) che hanno ulteriormente messo a dura prova la gestione, già sofferente, di un processo che il legislatore del 1973 voleva particolarmente celere, e che, tra l'altro, non ha potuto fruire dei benefici connessi all'introduzione del giudice di pace e del "giudice unico".
Al contempo, il confronto con la situazione esistente in altri Paesi dell'Unione europea, e le severe censure mosse più volte all'Italia dalla Corte di Strasburgo per l'eccessiva durata dei nostri processi, rendono ancor più evidenti - anche al di fuori del nostro Paese - le disfunzioni ed i ritardi del nostro sistema il quale si pone, ormai, in aperta violazione del nuovo articolo 111 della Carta Fondamentale che ha costituzionalizzato il principio della ragionevole durata del processo.
Ulteriori motivi di sofferenza derivano da più parti, in particolare:
a) dall'attribuzione alla giurisdizione del giudice del lavoro delle controversie sul pubblico impiego;
b) dall'incremento delle controversie di massa e di quelle "seriali";
c) dall'insoddisfacente esperienza conciliativa e/o arbitrale quale strumento di deflazione dei carichi di lavoro giudiziario;
d) dalla introduzione di nuovi tipi contrattuali, non privi di ambiguità definitorie, e per questo responsabili di incrementare ulteriormente il contenzioso;
e) dalla perdurante in operatività di "filtri" (ad. es. quello individuato nei procedimenti di certificazione) ancora incapaci di deflazionare il carico di lavoro giudiziario;
A tutte queste cause, vanno aggiunti i persistenti vuoti di organico (non solo dei magistrati, calcolati dal CSM in oltre 1.000 unità al dicembre 2006) ma anche del personale amministrativo) ed i ritardi che si registrano (anche presso il Consiglio Superiore della Magistratura) nell'attribuzione di funzioni e sedi (anche per coloro che, da mesi sono in attesa di riprendere le funzioni giudiziarie, una volta cessato il collocamento fuori ruolo), ovvero nella copertura di posizioni direttive particolarmente cruciali, ragioni tutte che contribuiscono ad accrescere la precarietà dell'intero sistema giudiziario ed anche nella giustizia del lavoro.
La situazione di collasso si riassume in dati statistici assai significativi che fotografano una situazione, presso le giurisdizioni di merito, che manifesta ancora modesti segni di recupero[1]
Tale situazione non risparmia neanche i livelli massimi della giurisdizione (è sufficiente ricordare come rispetto al 1990, nel quale la Cassazione civile "produsse poco più di 12.000 sentenze di cui 5.000 di lavoro, alla fine del corrente anno 2006 - a parità di giudici "addetti" - si raggiungerà il record di circa 30.000 decisioni, di cui almeno 10.000 di lavoro.
Non meno allarmante è la situazione in ordine alla durata dei giudizi in primo e secondo grado,[2] nonché sui tempi "biblici" di fissazione delle udienze di discussione (situazione che, peraltro, presenta termini vistosamente differenziati a seconda della localizzazione geografica degli uffici giudiziari).
Già nel maggio 2001, nel consegnare i risultati della prima Commissione di riforma istituita nel 2001, fu sottolineato con forza che "fra tante polemiche, su un punto esisteva un accordo pressochè unanime, e cioè la ferma convinzione che occorre prima di tutto creare le condizioni (organizzative e materiali) affinchè l'impianto processuale delineato dalla legge n. 533 del 1973 sia rimesso in grado realmente di funzionare, nella convinzione (allora come ora) che esso rappresenta ancora oggi uno dei migliori modelli di garanzie giurisdizionali anche in confronto ai sistemi vigenti nei Paesi europei a democrazia più avanzata.
E' bene sottolineare che su questa valutazione di fondo esiste un larghissimo consenso da parte di chi, autorevolmente, ha affrontato, a vario titolo, il problema dei possibili interventi sul processo del lavoro[3]
L'iniziativa del 2001 seguiva di un paio di anni all'altra - avviata dal Ministro del lavoro pro-tempore (T.Treu) mirata, in particolare sulle controversie previdenziali.
Nel corso di tutta la XIV legislatura i lavori della Commissione sono stati accantonati, ma nonostante questo lungo silenzio, le riflessioni maturate al suo interno hanno trovato riscontri confortanti in varie sedi culturali e professionali (cfr. da ultimo, l'incontro organizzato dal c.s.m. il 21 marzo 2006 con la partecipazione di circa 100 giudici del lavoro): e in sede parlamentare (cfr. i disegni di legge n. 3777/2003 della Camera dei deputati/firmatari, tra gli altri l'on. A. Finocchiaro, n. 106/2006 della Camera, e n. 2144/2003 del Senato/ firmatario, tra gli altri, il sen. Treu, e n. 1047/2006 Salvi-Treu) i quali hanno recepito, in gran parte, il testo licenziato dalla Commissione.
La Commissione di studio, voluta dai Ministri della Giustizia e del Lavoro (D.M. 28 novembre 2006 ), e insediata il 20 dicembre 2006, è stata costituita proprio allo scopo di suggerire, previa individuazione delle ragioni della crisi attuale, le soluzioni più appropriate elaborando uno o più schemi di proposte normative.
L'intervento riformatore è stato dettato dalla constatazione che la lunghezza del processo del lavoro si pone con accenti di particolare gravità allorché la controversia ha ad oggetto aspetti essenziali del rapporto di lavoro che toccano la persona del lavoratore o la corretta funzionalità dell'impresa, aspetti che vengono sempre più in evidenza di fronte alle nuove realtà produttive, in un contesto sovranazionale, nel quale le esigenze di flessibilità indotte da una concorrenza sempre più agguerrita ed i fenomeni di esternalizzazione delle imprese reclamano nuovi ed efficaci strumenti di tutela specie in materia di trasferimento dei lavoratori, di licenziamento, di apposizione del termine al contratto di lavoro e di cessione di rami d'azienda.
Di qui l'esigenza di riformare la normativa processuale del lavoro per adeguarla all'incremento delle controversie conseguente all'evoluzione dei rapporti sociali e alla attribuzione alla giurisdizione ordinaria delle cause relative al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti; dalla necessità di stimolare l'efficacia deflattiva del tentativo obbligatorio di conciliazione e di rivitalizzare, per quanto possibile, i meccanismi arbitrali di risoluzione del contenzioso lavoristico, alternativi alla giurisdizione statuale; dalla necessità di individuare meccanismi processuali di urgenza per la definizione delle controversie di lavoro nelle materie più sensibili come quelle appena indicate.
Del resto, un forte richiamo alla effettività delle tutele perviene non solo dalle sentenze di condanna della Corte di Strasburgo (per violazione dell'articolo 6 della Convenzione Europea sui diritti dell'uomo) ma anche dall'ordinamento comunitario il quale, pur senza direttamente intervenire ancora sui sistemi processuali nazionali, reclama - sia attraverso le sue norme (a cominciare dagli articoli 10, e 67 del Trattato, per non trascurare i principi enunciati nella Carta dei diritti fondamentali di Nizza, in termini di effettività della giustizia), sia attraverso la giurisprudenza sempre più incisiva della Corte di Giustizia - interventi adeguati e concretamente operativi, capaci di reale forza persuasiva o dissuasiva, per assicurare l'attuazione dei diritti armonizzati per tutti i cittadini dell'Unione europea.
Non si tratta di raccomandazioni di stile, ma di disposizioni dotate di forza precettiva immediata la cui inosservanza potrebbe essere sanzionata, attraverso una procedura di infrazione, come violazione degli obblighi di conformazione alle norme comunitarie.
Come noto, il processo del lavoro è luogo privilegiato di applicazione della normativa comunitaria nella quale la politica sociale ha conquistato - specie con gli ultimi Trattati di Amsterdam e con la Carta dei diritti fondamentali - una posizione di indubbia centralità.
Sul piano dell'efficienza del sistema, il nostro processo del lavoro - pur ispirato a livelli di garanzia formale più avanzati - mostra ritardi e carenze non più tollerabili una volta che la nostra giurisdizione, chiamata a confrontarsi sui nuovi piani della cooperazione giudiziaria transfrontaliera, è inserita in un circuito di competenze in ambito comunitario, secondo le regole della Convenzione di Bruxelles, ulteriormente valorizzate dal recente Regolamento del Consiglio n. 44/2001 (in vigore dal marzo 2002).
Del resto, con la diffusione delle imprese e servizi transnazionali, e la crescente mobilità dei lavoratori in territori in ambito comunitario, la domanda di giustizia, nel nostro Paese, promana, sempre più frequentemente, da nuovi utenti nei cui confronti la risposta giudiziaria rischia di compromettere le propensioni, anche economiche, verso il nostro Paese, a favore delle realtà esterne.
Il punto di partenza - unanimemente condiviso nella Commissione - consiste in alcune opzioni fondamentali di principio che hanno ispirato la ricerca dei possibili rimedi per recuperare la funzionalità del processo del lavoro. Tali opzioni si possono così sintetizzare:
a) la conferma del modello processuale introdotto dal legislatore del 1973 (n. 533) e la validità - almeno tendenziale dei tria bona di chiovendiana memoria (oralità, concentrazione, immediatezza);
b) la preferenza verso una specializzazione assicurata da giudici professionali (togati) in tutti i livelli del giudizio;
c) la consapevolezza di realtà "processuali" assai diversificate tra Uffici giudiziari del nord rispetto a quelli del centro-sud;
d) l'opportunità di tradurre in norme di legge di alcune "prassi virtuose" registrate presso non pochi uffici giudiziari;
e) alcuni interventi "drastici" sui tempi del processo nelle sue varie articolazioni (v. ad es. la riduzione dei tempi lunghi previsti per le impugnazioni; la valorizzazione di tecniche di "revisio per saltum" in cassazione; e la soppressione, in casi circoscritti, di un grado di merito).
Nel corso dei propri lavori la Commissione ha seguito - per tenerne debitamente conto - le soluzioni raggiunte dalla Commissione ministeriale per riforma del processo civile, rispetto il cui testo - approvato dal Consiglio dei ministri nel marzo 2007 - presenta significative consonanze con le scelte operate sul processo del lavoro.
Sono stati altresì tenuti nel debito conto i risultati delle audizioni svolte dalle Commissioni riunite del Senato aventi ad oggetto i disegni di legge nn. 1047/2006/S e 1163/2006 i cui contenuti rispecchiano molte delle riflessioni maturate dalla Commissione del 2001.
La nuova Commissione ha individuato più linee di intervento sulle quali è pervenuta ad una serie di proposte di seguito indicate.
I. LICENZIAMENTI, TRASFERIMENTI E LEGITTIMITA' DEL TERMINE
Il diritto alla conservazione del rapporto di lavoro è diritto fondamentale della persona ai sensi dell'articolo 2 della Costituzione, in quanto attinente alla conservazione del luogo, id est dell'inserimento nella formazione sociale, dove si svolge la sua personalità. Da ultimo la Carta dei Diritti fondamentali dell'Unione Europea, firmata a Nizza il 7 dicembre 2000, ha reso più visibile il valore fondamentale della tutela contro ogni licenziamento ingiustificato (articolo 30, Carta dei Diritti).
L'estrema deteriorabilità del bene protetto - il posto di lavoro - stante il carattere dinamico, e non statico, connaturato all'organizzazione del lavoro, ha rivelato, nel tempo, l'enorme difficoltà insita nell'attuazione di una tutela specifica, reintegratoria, a distanza di mesi o anni dal licenziamento, dall'estromissione dal luogo di lavoro.
Al pari degli altri settori della giustizia, per i quali importanti modifiche sono state recentemente introdotte, il contenzioso del lavoro attraversa, non da poco, una crisi determinata essenzialmente dal progressivo allungamento dei tempi di definizione dei processi, crisi ancor più evidente per la peculiarità del rito introdotto dal legislatore del 1973, informato a principi di oralità e celerità.
La domanda di giustizia in tale settore ha spesso determinato un eccessivo ricorso alla tutela atipica urgente.
L'urgenza del recupero di funzionalità del processo del lavoro suggerisce, pertanto, un intervento normativo con riferimento alle controversie che trattano i momenti più delicati e patologici del rapporto di lavoro. Il bilanciamento degli opposti interessi - del lavoratore alla conservazione del posto, del datore di lavoro all'organizzazione del lavoro - consiglia, nella specie, di ridisegnare la tutela reintegratoria contro il licenziamento ingiustificato e la verifica del passaggio diretto alle dipendenze di società cessionarie nelle forme di un'azione tipica urgente a cognizione sommaria, sì da imprimere a siffatte azioni una durata ragionevole.
L'articolato propone:
1) Piccoli aggiustamenti sostanziali funzionali ad un più spedito iter processuale;
2) modifiche di natura procedurale;
A differenza di quanto previsto dal ddll. n. 1047 del 2006, la disciplina proposta si applica esclusivamente alle ipotesi di tutela c.d. reale (coincidente con l'area di applicazione dell'art 18 della legge n.300 del 1970) anche con riferimento ai casi di previo accertamento giudiziale della natura subordinata del rapporto.
La procedura d'urgenza è estesa all'accertamento della legittimità del termine apposto al contratto di lavoro, e con opportuni adattamenti, alle controversie in materia di trasferimenti di cui agli articoli 2103 e 2112 del codice civile.
L'esperienza giurisprudenziale degli ultimi anni ha dimostrato che il meccanismo traslativo dettato dall'art. 2112 c.c., nato con la specifica funzione di tutelare il dipendente nelle ipotesi di cessioni di aziende (o rami di esse) e (perseguendo tale scopo) in deroga al principio generale della necessità del consenso del soggetto ceduto (art. 1406 c.c.), può prestare il fianco a veri e propri abusi. L'imprenditore che voglia liberarsi di forza-lavoro ritenuta eccedente, può inventare, infatti, un trasferimento d'azienda, aggirando la regola della necessaria giustificazione del licenziamento oppure eludendo le garanzie di consultazione sindacale in caso di licenziamento collettivo con il rischio, per i dipendenti, di essere ceduti ad altro imprenditore meno affidabile da un punto di vista economico, offrendo meno garanzie di solvibilità, e/o da un punto di vista giuridico, rientrando - ad esempio - nell'area della tutela obbligatoria e non in quella reale. La necessità di una particolare attenzione a tale fenomeno, attualmente assai diffuso, è dimostrata, altresì, dalla normativa comunitaria, avendo la materia formato oggetto di tre direttive particolarmente importanti (direttiva 1977/187, abrogata, 1998/50 e 2001/23).
Con il ricomprendere anche la materia dei trasferimenti d'azienda nell'ambito del nuovo procedimento si realizza in sostanza una tutela avanzata rispetto a quelli che sono normalmente, per i lavoratori coinvolti, gli esiti negativi della vicenda traslativa.
Nonostante il rilievo avanzato da alcuni autorevoli esponenti della Commissione concernente l'opportunità di escludere dal campo di applicazione della proposta normativa i datori di lavoro pubblico c.d. privatizzati, in considerazione della apprezzabile difficoltà di approntare, nei tempi rapidi imposti dalla procedura, una difesa efficace, il proposito di assecondare gli intenti legislativi volti alla tendenziale uniformità della disciplina del settore pubblico e di quello privato ha suggerito di non differenziare gli strumenti processuali.
La modifica della normativa sostanziale concerne la decadenza, nel quando e nel quomodo, dell'impugnativa del licenziamento: il termine, innalzato a 120 giorni, diventa anche termine di decadenza dall'azione giudiziale. Il medesimo termine decorre da qualsiasi altro atto o fatto che manifesti l'inequivoca intenzione del datore di lavoro di porre fine al rapporto di lavoro (art. 7). In tal modo si è dato risposta alle giuste esigenza di evitare un uso strumentale del ritardo nella introduzione del giudizio.
E' sembrato opportuno prescrivere anche un riscontro certo per le dimissioni, prescrivendone la forma "ad substantiam" e l'indicazione di una data certa.
Il procedimento si svolge con una cognizione libera da formalità, in contraddittorio delle parti, e si conclude con la conoscenza tendenzialmente completa delle questioni, di fatto e di diritto, controverse. Resta ferma peraltro la possibilità di agire nelle forme di cui all'articolo 414 c.p.c., sicché non ha ragion d'essere la preoccupazione che alla libera scelta del rito da parte del ricorrente sia stata sostituita l'imposizione del giudizio sommario.
L'onere della prova, con riferimento al numero dei dipendenti occupati in azienda ed ai motivi che hanno determinato il provvedimento espulsivo, grava sul datore di lavoro che ha di fatto la conoscenza dei relativi dati.
Quanto alla prova delle ragioni giustificatrici del licenziamento non vi è nel progetto alcun elemento che consenta di affermare l'esistenza di un onere probatorio, sostanzialmente attenuato, perché assolvibile in termini di mera verosimiglianza.
Ad ogni modo, ogni dubbio in proposito dovrebbe ritenersi risolto ove si consideri che il progetto ribadisce l'applicabilità, anche nello specifico procedimento in questione, della norma sull'onere della prova della giusta causa e del giustificato motivo stabilita nell'articolo cinque della legge 604 del 1966.
La tipicità dell'azione e la tassatività dei casi prevede lo strumento del mutamento del rito: il giudice provvederà a disporre la prosecuzione del processo secondo le forme ordinarie quando la domanda sia stata proposta irritualmente (se proposta erroneamente con forma sommaria, dispone la regolarizzazione a norma degli stessi articoli).
Elemento qualificante dell'azione sommaria disegnata dal progetto di riforma è senza dubbio l'idoneità dell'ordinanza a divenire irrevocabile in mancanza di reclamo, caratteristica che si uniforma, peraltro, alla novella introdotta - per i provvedimenti cautelari adottati ex art. 700 c.p.c. - dall'art. 2, c. 3, lett. e)-bis del decreto legge 14 marzo 2005, n.35 convertito dalla legge 14 maggio 2005, n.80.
L'azione tipica introdotta è peculiare anche quanto al regime delle impugnazioni:
a) l'ordinanza emessa dal Tribunale, in funzione di giudice del lavoro, è reclamabile al collegio (la cui composizione deve escludere il giudice che ha emesso il provvedimento);
b) l'ordinanza emessa dal collegio, in sede di reclamo, è opponibile solo con ricorso, nelle forme di cui all'articolo 414 codice di rito, dinanzi alla Corte d'Appello.
c) La sentenza della Corte d'Appello è ricorribile in Cassazione.
Appare chiaro che gli obiettivi perseguiti non potrebbero esser realizzati mediante il ricorso al provvedimento ex art. 700 c.p.c., Il provvedimento d'urgenza si caratterizza per il presupposto della minaccia di un pregiudizio imminente ed irreparabile, oggetto ovviamente di prova da parte di chi ne invochi la concessione. Il progetto non richiede esplicitamente tale pregiudizio, perché esprime una valutazione legislativa a- priori circa la sua presenza nei casi per i quali è previsto il ricorso alla specifica procedura. Si tratta di una valutazione ampiamente conforme a standards socialmente accettati, sicché non vi è motivo di immaginare obiezioni di costituzionalità. Inoltre il contenuto del provvedimento non è definibile a priori. Il legislatore si limita ad indicare il risultato (assicurazione provvisoria degli effetti della decisione di merito) ed affida al giudice l'individuazione del mezzo per raggiungerlo. Nel caso dell' l'ordinanza prevista dal progetto il contenuto della pronunzia coincide interamente con l' attribuzione o negazione del bene richiesto.. La conferma viene d'altra parte dall'articolo 5 del progetto che in sostanza parifica l'ordinanza alla sentenza di reintegra ex articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n.300. Quindi un' eventuale adattamento dell'art. 700 c.p.c. alla specifica materia qui considerata, con eliminazione del requisito del pregiudizio non risponderebbe pienamente allo scopo.
A garanzia dell'attuazione effettiva del capo del provvedimento (ordinanza o sentenza) di condanna alla reintegra, è prevista una forte misura coercitiva di carattere pecuniario, individuata sul modello francese delle astreintes, connotata dalla irripetibilità delle somme (corrisposte o da corrispondere) in caso di successiva sentenza (d'appello) dichiarativa della legittimità del licenziamento. Per evitare ingiustificati arricchimenti del lavoratore, in caso di successiva sentenza dichiarativa della legittimità del licenziamento, il lavoratore può trattenere solo una somma corrispondente alla retribuzione per il periodo intercorso tra il provvedimento di condanna e la sentenza di riforma.
La riforma del provvedimento dichiarativo dell'illegittimità del trasferimento comporta, invece, un obbligo di restituzione delle somme già percepite
Per attuare l'astreinte è data al lavoratore la procedura cautelare dell'art. 669 sexies e seguenti codice di procedura civile, con la quale richiedere al giudice, dell'ordinanza o della sentenza di reintegra, la liquidazione delle somme dovute per i giorni di ritardo.
La relativa ordinanza è immediatamente eseguibile e reclamabile o al Collegio del tribunale o al Collegio di appello (a seconda del provvedimento reclamato).
La caratteristica urgente e sommaria del procedimento porta alla eliminazione del tentativo di conciliazione e della relativa procedura extra giudiziale, essendo questa in contrasto con i tempi ristretti della novella.
Sul piano ordinamentale si prevede, per rafforzare la celerità dell'azione, che il giudice tratti con priorità tali cause, ipotizzandosi altresì, in subjecta materia, l'adozione di idonei provvedimenti organizzativi da parte dei responsabili degli uffici.
La Commissione ha proceduto, infine, ad un intervento di carattere sistematico della disciplina del licenziamento discriminatorio anche alla luce delle più recenti acquisizioni giurisprudenziali, esplicitando altresì l'applicabilità della medesima disciplina anche ai dirigenti e introducendo, in applicazione di quanto disposto in meteria dalle direttive comunitarie, l'inversione dell'onere della prova in merito alla sussistenza della discriminazione (cfr. infra relazione del IV gruppo Atti e licenziamenti discriminatori ed onere della prova).
L'estensione alle sanzioni disciplinari espulsive delle garanzie procedimentali dettate dall'articolo 7 commi 6 e 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300 concernenti, in particolare la sospensione dell'efficacia del licenziamento disciplinare per tutta la durata della procedura conciliativa, ed anche alla fine del giudizio (ove la mancata attivazione del collegio di conciliazione sia imputabile al datore di lavoro, ha registrato il fermo dissenso della maggioranza dei membri della Commissione, favorevoli alla soluzione - risalente alla giurisprudenza della Corte costituzionale ed anche della Corte di cassazione - che limita l'effetto sospensivo dell'efficacia dei provvedimenti disciplinari, per la tutta durata del provvedimento conciliativo, arbitrale, o giudiziario, alle sole sanzioni conservative.
II. CONTROVERSIE DI PREVIDENZA ED ASSISTENZA OBBLIGATORIE
Come già avvertito in occasione dei lavori della precedente Commissione del 2001, la prospettazione di possibili rimedi alla crisi in cui versa il processo previdenziale presuppone l'individuazione e la consapevolezza delle concause nel limite di quanto, nel più ampio contesto dei fattori di crisi del processo del lavoro, in generale, possa ritenersi peculiare di detto processo.
Tale esigenza di preventiva individuazione delle ragioni della crisi attuale rinvia a questioni di ampio e, forse, decisivo rilievo (idonei assetti di diritto sostanziale; procedure di prevenzione di incertezze interpretative delle regole siccome normate; adeguamento di strutture ed organici; ecc.), che trascendono, però, la disciplina processuale, e delle quali, dunque, la Commissione, stanti i limiti del mandato ricevuto, ha tenuto conto solo di riflesso.
L'aspetto cruciale del contenzioso previdenziale complessivamente considerato è la differenziazione, per così dire, "tipologica" delle controversie.
Tali controversie, infatti, possono avere ad oggetto: a) questioni di mero diritto (controversie c.d. interpretative), b) questioni di qualificazione di rapporti, c) questioni di accertamento tecnico, con netta prevalenza degli accertamenti di carattere medico-legale. Parte cospicua di dette controversie vede, inoltre, coinvolti anche enti diversi dall'INPS e dall'INAIL, le Casse professionali, i Fondi pensione, ecc., i cui ordinamenti sono caratterizzati da regole particolari rispetto a quelle valide per i due suddetti massimi Istituti previdenziali. Tale diversificazione "interna" al settore determina l'esigenza di approcci calibrati ad hoc e, dunque, la prospettazione di rimedi opportunamente differenziati.
Altrettanto cruciale può dirsi il radicamento geografico del contenzioso, concentrandosi in due sole regioni d'Italia, la Campania e la Puglia, il 50 per cento del contenzioso previdenziale nazionale e, con il Lazio, la Calabria e la Sicilia, in sole 5 regioni l'80 per cento del complessivo contenzioso in materia, in cui, talvolta, lo smaltimento dell'esorbitante e ponderoso numero di ricorsi è stato positivamente risolto solo con l'adozione di prassi virtuose (v., in particolare, la positiva esperienza della sezione lavoro presso il Tribunale di Reggio Calabria)
Quanto alla legislazione di riferimento va rilevato che il legislatore degli ultimi anni non si è sempre mantenuto coerente alle impostazioni che ha caratterizzato la riforma del 1973 (v., in particolare, la legge n. 326 del 2003), e comunque ha introdotto o esteso al settore ulteriori strumenti, cui ha attribuito la concorrente finalità deflattivo-acceleratoria delle controversie.
Dunque, in questa stessa prospettiva, la Commissione ha dovuto tener conto di non poche novità normative: la procedura esattoriale (d.lgs. n. 46 del 1999); la conciliazione monocratica e la diffida accertativa (artt. 11 e 12, d.lgs. n. 124 del 2004); le fattispecie di decadenza sostanziale (art. 6, legge n. 166 del 1991, art. 42, legge n. 326 del 2003); gli accordi e atti di conciliazione sindacale con effetto anche sui diritti di natura contributiva (art. 1, comma 1207, legge n. 296 del 2006, legge finanziaria 2007).
Anche con tale normativa che, invero, può risultare contraddittoria - vedi la sottovalutazione dei rimedi amministrativi, di cui alla legge n. 326 del 2003 - o controproducente - nel caso delle decadenze sostanziali, per l'effetto moltiplicatore del contenzioso - o discutibilmente destinata ad incidere su diritti indisponibili - nei casi della conciliazione monocratica, di cui al d.lgs. n. 124 del 2004 e, oggi, della conciliazione sindacale, di cui all'art. 1, comma 1207 della citata legge finanziaria 2007 - la Commissione ha cercato di confrontarsi.
Anche le controversie pensionistiche del settore pubblico idealmente sarebbero potute rientrare nell'intervento normativo, tuttavia la diversità di giurisdizione e ragioni di ordine pratico, sulle quali non è necessario in questa sede soffermarsi, hanno indotto la Commissione a non considerare tale pur importante segmento della materia, pur esprimendo l'opportunità di prendere in considerazione, in un prossimo futuro, l'introduzione di regole comuni, nell'attuale mantenimento, auspicabilmente non definitivo, del riparto di giurisdizione.
Nell'opera di necessario confronto con la legislazione vigente, la Commissione, nel prendere atto degli interventi normativi più recenti - l'art. 1, comma 469, della legge finanziaria 2007 (che prevede la prossima emanazione di uno o più regolamenti diretti "al riordino, alla semplificazione e alla razionalizzazione degli organismi preposti alla definizione dei ricorsi in materia pensionistica") e il d.P.R. n. 282 del 2006 ( che interviene sull'ordinamento del Comitato di verifica per le cause di servizio, ex art. 10. d.P.R. n. 461 del 2001) - rimarca il carattere cruciale di un'opera di razionalizzazione, semplificazione, armonizzazione della normativa che disciplina le procedure del contenzioso amministrativo, i servizi ispettivi, e l'utilità del permanere di suddivisioni e sovrapposizioni di compiti che, per alcune materie, caratterizzano i rapporti tra DPL e AUSL.
Criteri di valutazione. La prospettazione e la graduazione dei rimedi è stata calibrata muovendo da pregiudiziali scelte di valore, oggetto di ampia discussione, tra le quali, per la loro significatività, la fedeltà ai principi della riforma del 1973, la rapidità del servizio di giustizia, considerando cumulativamente, a tal proposito, e non frazionatamente, fase amministrativa e fase giudiziale della controversia; il livello dei costi, economici e non, dell'intervento riformatore e delle diseconomie prodotte dall'attuale stato del contenzioso; il grado di semplicità e facilità applicativa dei rimedi prospettabili; la formulazione di uno schema normativo snello, facilmente veicolabile anche in procedimenti legislativi già pendenti in Parlamento, strutturato in forma di criteri di delegazione quanto alla fase contenzioso-amministrativa e di novella alle disposizioni del codice di rito e delle leggi speciali che regolano il processo previdenziale.
In particolare, la categoria di controversie che, come emerso nel corso dei lavori della precedente Commissione e delle specifiche audizioni di esperti appositamente invitati in rappresentanza degli enti pubblici di previdenza e dell'Avvocatura dello Stato, continua a presentare gravissime carenze e, per l'incessante aumento delle pendenze, richiede interventi coraggiosi, è quella riguardante l'invalidità civile e le prestazioni pensionistiche già gestite dai Ministeri dell'Interno e del Tesoro, per le quali è emersa una pressoché totale assenza di ogni fase contenziosa amministrativa.
Per operare efficacemente su questi terreni, la Commissione ha ritenuto indispensabile - almeno per quanto riguarda le controversie dipendenti da accertamenti medico-legali, costituenti più del 20 per cento dell'insieme, su scala nazionale, o addirittura il 70/80 per cento in alcune aree centro-meridionali - una forte valorizzazione e maggiore impegnatività della fase contenziosa amministrativa, possibilmente unificata, accentuandone i connotati di terzietà, di rispetto del contraddittorio, con possibilità di assistenza tecnico-legale, con potenziamento qualitativo dell'istruttoria dei ricorsi amministrativi; con la presenza, negli organi decidenti, di rappresentanti delle parti interessate; con la costituzione di organi collegiali composti in maniera da assicurare specifiche competenze professionali medico-legali e obiettività di giudizio.
Non è stato, tuttavia, possibile pervenire - all'interno della Commissione - ad indicazioni unitarie, preferendosi affidare alle scelte che saranno adottate in sede politica due progetti (sostanzialmente) alternativi, pur ispirati dalla medesima finalità e dall'accettazione dei medesimi valori.
I. Il primo intervento, per così dire "soft", pur restando rigorosamente all'interno del disegno della legge n. 533 del 1973, parte dall'esigenza che il contenzioso amministrativo acquisisca maggiore affidabilità e maggiore semplicità, affinché le relative regole e procedure non debbano, esse stesse, rappresentare occasione di vertenzialità ed è ispirato dall'idea di un abbattimento dei costi dell'intervento riformatore sulla fase processuale. In tale prospettiva, lo schema normativo innovatore è incentrato sul potenziamento del procedimento amministrativo con la presenza negli organi decidenti di rappresentanti delle parti interessate, la costituzione di organi collegiali composti in maniera da assicurare specifiche competenze professionali medico-legali e obiettività di giudizio, con la garanzia del contraddittorio e l'assistenza tecnico-legale. La fase giurisdizionale è accelerata, nella prospettiva da cui muove tale prima ipotesi, con l'indicazione specifica, nell'atto introduttivo del giudizio, dei quesiti da sottoporre al consulente nominato d'ufficio; con la nomina, con il decreto di cui all'art.415, secondo comma, c.p.c., del consulente tecnico d'ufficio il quale, esperite le operazioni peritali, comunica la propria relazione ai difensori delle parti e, entro 15 giorni, esperisce il tentativo di conciliazione della lite, redigendo apposito verbale, che comunica alla cancelleria del Tribunale e alle parti.
II. La seconda soluzione, muovendo dalle proposte della Commissione Treu del 1998, dai disegni e progetti di leggi attualmente pendenti in Parlamento, e dal dibattito sviluppatosi nel corso dei lavori, si caratterizza, rispetto alla soluzione soft, per l'immodificabilità, nella fase giurisdizionale, delle posizioni assunte dalle parti nella fase contenziosa amministrativa; per la previsione di un termine massimo dalla data in cui è stato proposto il ricorso amministrativo entro il quale quest'ultimo dev'essere deciso, o, in ogni caso, concluso previa compiuta verbalizzazione delle posizioni assunte dalle parti nel corso del procedimento, nonché delle eventuali acquisizioni istruttorie; per l'impugnabilità delle decisioni assunte in esito al procedimento contenzioso amministrativo concernenti unicamente i requisiti medico-legali, davanti al Tribunale, in unico grado di merito. Per tale proposta, sin qui strutturata nella forma della delegazione legislativa, il rafforzamento della fase amministrativa e il potenziamento dell'istruttoria ivi espletata avrebbero immediate ricadute nella fase giurisdizionale potendo il giudice nominare il consulente tecnico solo ove non ritenga di aderire alle conclusioni peritali già acquisite in sede contenziosa amministrativa, così evitando l'incombente istruttorio con evidente abbattimento dei relativi oneri di spesa.
In attesa dell'emananda legge di delegazione con i criteri esposti, la Commissione ha formulato, per tale seconda proposta, modifiche di immediata applicazione, caratterizzate, nella fase contenziosa amministrativa, dall'esame del ricorso da parte di un collegio medico qualificato (composto da tre sanitari, designati dall'amministrazione competente, dal ricorrente o dall'istituto di patronato che lo assiste, dal responsabile della competente direzione del Ministero del lavoro e della previdenza sociale tra i medici specialisti in medicina legale, o in medicina del lavoro ovvero tra i sanitari appartenenti ai ruoli di un ente previdenziale diverso da quello che è parte della controversia) che coerentemente alle risultanze degli accertamenti, tenta la conciliazione della controversia e redige un verbale sottoscritto dalle parti, vincolante in caso di esito positivo. In caso di esito negativo, invece, il presidente del collegio redige una dettagliata relazione medico-legale nella quale dà atto degli accertamenti effettuati e delle conclusioni conseguite nonché dei motivi del dissenso. Il compenso dei componenti del collegio medico è a carico dell'amministrazione competente per l'erogazione della prestazione ed è determinato in conformità di convenzioni stipulate con la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri.
Seguono alcune modifiche alla fase giurisdizionale quali l'indicazione, già nel ricorso, dei quesiti da sottoporre al consulente medico-legale e l'allegazione dei documenti sanitari che si offrono in comunicazione; un termine breve per la nomina del consulente d'ufficio (entro 5 giorni dal deposito del ricorso); esplicita previsione normativa che il consulente, esperite le operazioni peritali e comunicata la propria relazione ai difensori delle parti, entro 15 giorni da tale comunicazione esperisca il tentativo di conciliazione del quale rediga apposito verbale, da depositare nella cancelleria del giudice e comunicare alle parti e, ove siano nominati più consulenti, l'indicazione, da parte del giudice, del consulente al quale affidare il tentativo di conciliazione.
L'intervento riformatore ipotizza, inoltre, con determinazione unanime della Commissione ispirata al risparmio di spesa in re ipsa, che immediatamente, anche per i processi in corso, l'INPS possa subentrare nelle funzioni del Ministero dell'Economia in materia di invalidità civile, ravvisando come un'anomalia la competenza "sanitaria" del Ministero dell'Economia, con una struttura centrale presso il Ministero e con strutture periferiche decentrate in sede provinciale ove vi è in ogni D.P.S. una struttura amministrativa che gestisce sanitari del Ministero convocati, di volta in volta, dai consulente tecnici nominati nei procedimenti giurisdizionali.
L'impatto di tale intervento normativo implicherebbe il disimpegno di strutture amministrative di gestione nell'ambito delle D.P.S. da utilizzare diversamente e il venir meno di oneri di spesa per un considerevole numero di sanitari "convenzionati" con le DPS, essendo l'INPS dotato di una struttura medico-legale, risparmiando, ancora una volta, al processo, e all'amministrazione della giustizia, in generale, un dispendio di attività di comunicazione, quali avvisi alle parti, memorie, avvisi ai consulenti di parte, e liberando, da attività defensionali, l'Avvocatura dello Stato.
Per tutte le altre controversie previdenziali la cui soluzione può coinvolgere aspetti tecnico-giuridici tout court, ovvero di notevole complessità, o ancora implicanti meri conteggi aritmetici, come per le numerose cause per interessi e svalutazione (per le quali una soluzione deflattiva già è stata introdotta con l'art. 44, n. 4, del d.l. n. 269 del 2003, che impone di inviare una raccomandata prima di iniziare contenzioso in materia di accessori, con relativo termine), la Commissione non ha ravvisato ragioni che ne giustificassero una pregiudiziale differenziazione, sul piano della disciplina processuale, rispetto alle controversie di lavoro in genere, siccome innovate con il progetto riformatore proposto per il processo del lavoro. Conseguentemente, per tali controversie e, comunque, per tutte le controversie previdenziali e assistenziali non implicanti accertamenti sanitari, adeguata soluzione preordinata ad esercitare una spinta deflattiva si è appalesata la conciliazione nei termini e con le modalità suggerite dalla novella proposta, pur non sottacendo il dibattito apertosi, nel corso dei lavori, per i profili di eventuale inammissibilità stante l'indisponibilità dei diritti in controversia.
Per le controversie seriali, in particolare le controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatorie riguardanti, anche potenzialmente, un numero consistente di soggetti e concernenti questioni analoghe, la Commissione, salva l'applicazione dell'art. 420 bis novellato, ha optato per la istituzionalizzazione di una soluzione precontenziosa, nel senso che le amministrazioni interessate sono tenute ad informare i Ministeri competenti e a promuovere incontri anche con gli istituti di patronato che abbiano fornito assistenza nelle medesime controversie, al fine di chiarire gli aspetti delle questioni in discussione ed individuare, per quanto possibile, ipotesi di soluzione. La ricaduta, sul processo, della possibilità di definizione, in sede centrale, dei grandi filoni di contenzioso previdenziale e assistenziale, è data dalla possibilità, per il giudice, nelle more di una soluzione, di rinviare la trattazione della causa, su concorde istanza di parte. Tale soluzione eviterebbe dispendiose attività processuali con evidente risparmio di spesa e di attività processuali.
Quanto alla decadenza introdotta nel 2003, in materia di invalidità civile - che ha interrotto un andamento virtuoso che aveva visto scendere il contenzioso previdenziale da 783.000 cause al 31.12.00 a 640.000 cause al 31.12.04, con "esplosione" del contenzioso in materia a causa dell'introduzione di una decadenza di soli sei mesi - all'unanimità la Commissione ha ritenuto di abrogare tale disposizione, ripristinando il regime decadenziale di cui all'art. 47 del decreto del Presidente della Repubblica 30 aprile 1970 n. 639, come modificato dall'art. 4, n. 1 del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384.
III. ARBITRATO E CONCILIAZIONE
E' tuttora valida l'osservazione che nel settore delle controversie di lavoro, conciliazione e arbitrato non hanno mai registrato quella diffusione ed adesione auspicabile fin dalla riforma introdotta dal legislatore del 1973, al fine di alleggerire il carico di lavoro dei magistrati addetti alla trattazione delle controversie di lavoro e, al contempo, di offrire, in un processo fortemente caratterizzato da una parte debole, strumenti efficaci e veloci di risoluzione delle controversie.
Tuttavia nel settore dei rapporti di lavoro gli strumenti alternativi di soluzione sono ormai, sul piano normativo, di applicazione generale essendo superata la esclusione della composizione negoziale della controversia nei rapporti di lavoro pubblico, riflesso dell' incompatibilità fra competenza del giudice amministrativo e soluzione transattiva del conflitto.
Nella prospettiva di un rilancio della soluzione alternativa a quella giudiziaria, il legislatore con la riforma introdotta con i decreti n. 80 e n. 387 del 1998, ha rilanciato gli istituti della conciliazione e dell'arbitrato, partendo proprio dal settore pubblico , novellando il codice di rito con le disposizioni recate dagli articoli 412-ter e 412-quater, e disegnando, ex novo, il tentativo obbligatorio di conciliazione con le disposizioni ora riprodotte nel decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 agli articoli 65 e 66.
Il segno più marcato di tale favore per la soluzione transattiva è stata la trasformazione della conciliazione, relegata dal legislatore del 1973 a strumento occasionale e marginale, in una fase indispensabile per l'accesso alla tutela giudiziaria, mediante la previsione dell'obbligatorietà.
Tale orientamento favorevole trova conferma anche nelle recenti iniziative di riforma del processo civile, dove l'importanza della soluzione conciliativa risulta fortemente accentuata. D'altra parte, deve esser tenuto in attenta considerazione il fatto che, nelle controversie di lavoro e anche in quelle relative agli istituti di sicurezza sociale, in taluni fra i più importanti paesi comunitari ( fra i quali ad. es. la Germania ) l'esito conciliativo costituisce il risultato più frequente dell'iniziativa contenziosa, così consentendo al giudice di concentrare la propria attenzione su un numero limitato di cause, pur di fronte ad una domanda di giustizia di dimensioni non certo ridotte.
Nonostante le difficoltà incontrate, più ragioni inducono quindi a un complessivo giudizio di favore per lo strumento conciliativo, valutazione non scalfita dallo scarso successo registrato dalla conciliazione delle controversie di lavoro pubblico. A spiegare il quale può, infatti, valere la considerazione che si tratta di questioni quasi sempre nuove e talvolta assai complesse, dove le stesse amministrazioni hanno avuto difficoltà ad elaborare indirizzi sicuri cui attenersi. A ciò devono aggiungersi, per molte di esse, specie se di piccola dimensione, le difficoltà organizzative nella concreta gestione della fase conciliativa delle controversie.
D'altra parte, il modello vigente per il lavoro privato, pur avendo dato risultati più confortanti, non è sembrato soddisfacente per la scarsa impegnatività dello strumento, e l'assoluta carenza di incentivi, positivi e negativi, per le parti in lite e per il ceto tecnico-forense.
Tutto ciò ha indotto la Commissione all'idea di proporre un meccanismo che miri a fare della fase conciliativa una fase precontenziosa, a giudizio formalmente già iniziato, ottenendo così, fra l'altro, che la conciliazione sia tentata su una controversia i cui termini sono ormai stabilmente fissati.
La novella conserva quindi l'obbligatorietà del tentativo di conciliazione giacché, mutuando le parole del Giudice delle Leggi, esso tende a soddisfare l'interesse generale sotto un duplice profilo: evitando, da un lato, che l'aumento delle controversie attribuite al giudice ordinario in materia di lavoro provochi un sovraccarico dell'apparato giudiziario, ostacolandone il funzionamento; favorendo, dall'altro, la composizione preventiva delle lite e assicurando alle posizioni sostanziali un soddisfacimento più immediato rispetto a quello conseguibile attraverso il processo (v. Corte Cost. 276/2000).
Alla regola generale dell'obbligatorietà vengono apportate talune limitate esclusioni.
Esse riguardano le controversie previdenziali limitatamente peraltro a quelle aventi ad oggetto accertamenti sanitari, in coerenza con le scelte fatte nel progetto riguardo a tale tipo di contenzioso. Sono inoltre esclusi i procedimenti sommari o d'urgenza (per i quali la tutela del diritto azionato è tanto più efficace quanto più è tempestivo l'intervento giudiziale), ivi comprese le controversie in materia di trasferimenti, licenziamenti e legittimità del termine apposto al contratto che, alla stregua della novella indicata dalla Commissione, sono assoggettabili ad una procedura sommaria tipica.
Non è stata invece mantenuta la speciale procedura conciliativa nelle controversie relative ai rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni. I dati statistici ufficiali denunziano, come già accennato, l'estrema modestia dei risultati ottenuti (ad. es., le conciliazioni negli anni 2002, 2003 e 2004 sono state rispettivamente 3936, 6132 e 5006, mentre negli stessi anni le richieste sono state rispettivamente 84.356, 91.135 e 176.104) a fronte della indiscutibile complessità della procedura tanto sul piano normativo che su quello organizzativo.
Preso atto di ciò si è ritenuto opportuno che anche tali controversie rientrassero nell'ambito delle regole generali sulle modalità di svolgimento del tentativo. Onde evitare remore alla soluzione conciliativa è rimasto fermo però l'esonero da responsabilità amministrativa da parte del dipendente che su incarico della amministrazione abbia transatto la lite.
L'eliminazione dello specifico procedimento conciliativo per tali controversie comporta il venir meno della possibilità di costituire il Collegio di conciliazione previsto a tale scopo. Ciò determina anche l'impossibilità di impugnare dinanzi ad esso le sanzioni disciplinari, come invece attualmente previsto, in assenza di procedure collettive di conciliazione e arbitrato, sulla base dell'art. 56 del t. u. 30 marzo 2001, n. 165, del quale infatti si propone l'abrogazione.
Va peraltro sottolineato per un verso l'esistenza del Contratto collettivo nazionale quadro in materia di procedure di conciliazione e arbitrato del 23 gennaio 2001, fra l'ARAN e le organizzazioni sindacali, per altro verso la possibilità dell'arbitrato in sede sindacale o presso le direzioni provinciali del lavoro, in base all'art. 412 quinquies del progetto.
Conciliazioni
La proposta si fonda, quanto alla disciplina della conciliazione, sui seguenti principi-base:
- la fase conciliativa è una fase precontenziosa a giudizio già iniziato (conciliazione endogiudiziale);
- la difesa tecnica è coinvolta nella fase precontenziosa;
- l'ingiustificata assenza del ricorrente o di entrambe le parti all'udienza fissata per la conciliazione comporta l'estinzione del processo, mentre l'assenza della parte convenuta può dar luogo all'emanazione di un'ordinanza provvisoria di pagamento totale o parziale delle somme domandate o a provvedimenti anticipatori della decisione di merito;
- la conciliazione è tentata dal giudice o dal conciliatore appositamente designato tra quelli iscritti in apposito Albo;
- se la conciliazione non riesce viene redatto verbale con l'indicazione succinta delle ipotesi di soluzione della controversia allo stato degli atti;
- se la conciliazione è raggiunta, il relativo processo verbale acquista efficacia di titolo esecutivo con decreto del giudice;
- in qualunque fase della conciliazione, ovvero in caso di esito negativo della conciliazione, le parti possono decidere di affidare allo stesso conciliatore, la decisione di risolvere in via arbitrale la controversie.
Il rifiuto di ragionevoli proposte conciliative determina significativi scostamenti dal principio della soccombenza per quel che riguarda il carico delle spese di lite.
resta salva la possibilità di conciliazione in sede sindacale o presso il competente ufficio pubblico, con effetti equivalenti a quella endoprocessuale, a determinate condizioni.
il tentativo di conciliazione è modellato in modo uniforme sia nelle controversie di lavoro privato che in quelle di lavoro pubblico.
Va, inoltre, rimarcato che l'autorevolezza del conciliatore deriverà dalla sua nomina, da parte del giudice, attingendo ad un Albo dei Conciliatori esperti in materie giuslavoristiche, tenuto dal Presidente del Tribunale. Quanto alla gratuità, o meno, dell'operato del conciliatore, è prevalsa l'idea della indennizzabilità, rinviando ad un decreto ministeriale ogni determinazione in ordine al quantum.
La novella, pertanto, non è senza oneri per lo Stato, essendo l'importo dell'indennità per il conciliatore fissato in euro 100, qualunque sia l'esito del tentativo di conciliazione, indennità elevata ad euro 150 ove il tentativo si concluda con la conciliazione, e ridotta ad euro 75,ove il tentativo non possa essere espletato per mancata presentazione delle parti o del convenuto.
Arbitrati
Pur nella consapevolezza del carattere controverso del tema, per le varie opzioni politico sindacali che lo caratterizzano, la Commissione ha ritenuto di proporre con l'arbitrato una alternativa alla decisione giurisdizionale in guisa tale da filtrare, in termini selettivi, il ricorso alla giustizia del lavoro, consentendole così intervenire nelle controversie di maggiore rango con la dovuta professionalità e tempestività, e da costituire una reale attrattiva per la celerità e la stabilità.
E' stata scartata peraltro l'idea di un ampliamento del ricorso all'arbitrato rituale con abrogazione del divieto di compromettibilità ad arbitri delle controversie di cui all'art.409 codice di procedura civile come anche quella di legittimare clausole compromissorie, trasfuse nel contratto collettivo e richiamate nel contratto individuale, che consentano la devoluzione ad arbitri anche quando abbiano ad oggetto diritti dei lavoratori derivanti da disposizioni inderogabili di legge o da contratti collettivi.
La soluzione,più moderata, adottata dalla Commissione contempla:
- - la possibilità di affidare il mandato in via arbitrale allo stesso conciliatore in ogni fase del tentativo di conciliazione, anche solo per una parte della controversia;
- - la possibilità di ricorso all'arbitrato dopo il fallimento del tentativo di conciliazione;
- - la necessità che la richiesta di deferimento ad arbitri risulti da atto scritto contenente, a pena di nullità, il termine entro il quale l'arbitro dovrà pronunciarsi, ed i criteri per la liquidazione dei compensi spettanti all'arbitro;
- - l'obbligo per l'arbitro del rispetto delle norme inderogabili di legge e del contratto collettivo;
- - l'impugnabilità del lodo, per qualsiasi vizio, davanti alla Corte d‘Appello, con previsione di un doppio termine, breve, dalla notifica, e lungo, dal deposito del lodo.
- - l'esecutività del lodo nonostante l'impugnazione;
- il mantenimento della concorrente disciplina arbitrale eventualmente prevista da accordi o contratti collettivi.
La conservazione della concorrente disciplina arbitrale, espressione dell'autonomia negoziale collettiva, è volta a favorire un sistema integrato dell'arbitrato nelle controversie di lavoro che si avvalga dell'apporto di importanti Accordi già perfezionati (ARAN, CONFAPI, CISPEL) taluni con disposizioni peculiari, qual è la soluzione adottata, fra gli altri, dall'accordo CONFAPI che consente di pervenire, nella medesima sede, ad un'interpretazione autentica sull'efficacia e validità di una clausola del contratto collettivo nazionale, che ha così introdotto un efficace strumento di prevenzione delle controversie seriali, ed anticipato analoghe soluzioni poi generalizzate dal legislatore. Peraltro le divergenze che, nei vari accordi, emergono in ordine all'ambito di impugnabilità dei lodi vengono risolte, con l'articolato proposto, riconducendo ad unità il regime delle impugnazioni sicché anche per l'arbitrato previsto dalla contrattazione collettiva si applica il regime di impugnazione introdotto con la novella, id est l'impugnabilità, per qualsiasi vizio, davanti alla Corte d'Appello.
IV. MISURE DI RAZIONALIZZAZIONE DEL PROCESSO DEL LAVORO IN GENERALE
Nell'affrontare la riforma del processo del lavoro è necessario prevedere interventi puntuali che abbiano come finalità la razionalizzazione della normativa esistente. L'eterogeneità delle materie trattate non consente di racchiudere le proposte formulate all'interno di un unico denominatore, in quanto la ratio sottesa ai diversi interventi proposti è diversa, anche se comunque rispondente a criteri di equità e di celerità dell'azione giudiziaria. Proprio tale disomogeneità di norme e di obiettivi perseguiti impone di analizzare puntualmente il testo dei singoli articoli.
Riduzione del termine di decadenza dall'impugnazione
Nell'ambito di istanze acceleratorie del processo (fatte proprie anche nel testo di riforma del processo civile di recente approvato dal Consiglio dei Ministri) si propone di ridurre a sei mesi in termine "lungo" (oggi fissato in un anno) per proporre l'appello, il ricorso per cassazione, la riassunzione della causa e la revocazione (nei casi previsti) avverso sentenze pronunciate in materia di lavoro, previdenza e assistenza obbligatoria.
Accertamento pregiudiziale sulla interpretazione di leggi, regolamenti, contratti ed accordi collettivi
L'esperienza di questi ultimi anni dimostra che, assai spesso, il contenzioso del lavoro registra accumuli vistosi a causa di persistenti contrasti interpretativi determinati non di rado da oscurità o ambiguità di disposizioni di legge, regolamenti, o di contratti collettivi, dalle quali deriva il fenomeno delle "cause seriali o di massa" che reclamano interventi rigorosi.
Ad un tale inconveniente non potrebbe provvedere il rimedio della revisio per saltum, già previsto dall'art. art. 360, u.c., sia perché esso esaurisce i propri effetti all'interno di una singola controversia, sia perché, essendo affidato esclusivamente alla concorde volontà delle parti, anziché all'iniziativa del giudice, è rimasto del tutto inutilizzato nella pratica.
Sulla base delle prime esperienze applicative dell'art. 420bis - le quali hanno evidenziato difficoltà interpretative e aspetti critici, anche di livello costituzionale, nella sua formulazione attuale - la Commissione ha proposto le seguenti innovazioni: a) estensione della pregiudiziale interpretativa a disposizioni di legge, regolamenti, oltre che a clausole di contratti o accordi collettivi nazionali; b) previsione, in questi ultimi due casi, il coinvolgimento (conoscitivo, e, in prospettiva anche processuale) delle associazioni sindacali che hanno sottoscritto l'accordo o il contratto collettivo; c) limitazione al giudice di primo grado della possibilità di sollevare la questione pregiudiziale, purchè "rilevante e seria", come sottolineato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 199 del 2003; d) limitazione della possibilità di pronunciare accertamento pregiudiziale solo sull'interpretazione dei contratti ed accordi collettivi e non anche, come previsto nell'attuale formulazione dell'articolo 420 bis c.p.c., sull'efficacia e validità.
Alle controversie di pubblico impiego resta applicabile l'art.64 del t.u. n. 165 del 2001, i cui commi 4, 6, 7 e 8, continuano ad applicarsi, in quanto compatibili alle controversie di lavoro privato e previdenziale (secondo quanto disposto dall'art. 146bis delle disposizioni di attuazione del c.p.c..
Resta applicabile l'art. 146 disp. att. c.p.c. (secondo cui "Nel caso di cui all'art. 420bis del codice si applica, in quanto compatibile, l'art. 64, commi 4,6,7, e 8 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165").
Correzione dell'articolo 421 c.p.c.
La Commissione ravvisa l'opportunità di correggere un refuso presente al secondo comma dell'articolo 421 c.p.c., laddove si richiama il "comma sesto dell'articolo precedente" mentre, a causa dell'inserimento nel 2006 dell'articolo 420 bis, il riferimento corretto è al sesto comma dell'articolo 420.
Decisione a seguito di trattazione e motivazione in forma abbreviata
Il sempre maggiore interesse collegato all'analisi dei metodi di organizzazione degli uffici e di gestione del processo ha fatto emergere pratiche virtuose che hanno consentito di ridurre il grave arretrato, velocizzando la trattazione dei processi. In particolare, per quanto riguarda il processo del lavoro, si è distinta a livello nazionale l'esperienza della Sezione lavoro presso il Tribunale di Reggio Calabria, dove al 30 settembre 1999 risultavano pendenti 10.335 cause di lavoro, pendenza ridotta a 3.785 cause di lavoro al 30 giugno 2005, con un numero di processi definiti in tale anno superiore rispetto alle sopravvenienze dello stesso periodo; inoltre, mentre nel 1999 venivano pronunciate poco più di 990 sentenze l'anno, nel 2002 sono state pronunciate 4.757 sentenze (dati tratti dalla relazione "Organizzazione degli uffici e gestione del processo presso il Tribunale di Reggio Calabria" tenuta dalla dr.ssa Patrizia Morabito magistrato coordinatore della Sezione Lavoro del Tribunale di Reggio Calabria a Roma durante il corso di formazione centrale del C.S.M. 27 febbraio-1 marzo 2006).
Tra gli strumenti che hanno consentito il notevole incremento di produttività vi è stato(da quanto si legge nella citata relazione) l'ampio utilizzo della motivazione contestuale delle sentenze "mutuata dall'articolo 281 sexies c.p.c., che pur non essendo previsto espressamente per le sentenze di lavoro, ben può costituire norma di generale applicazione, e certamente conforme allo spirito del processo del lavoro, che prevede a pena di nullità l'immediata lettura almeno del dispositivo al termine dell'udienza".
Si è ritenuto altresì di estendere la motivazione contestuale, già prevista nel processo civile, al processo del lavoro, ma prevedendo che in questo ambito la decisione a seguito di trattazione divenga la regola consentendo solo come mera eccezione, nel caso di particolare complessità della controversia, che il giudice possa fissare nel dispositivo un termine non superiore a trenta giorni per il deposito della sentenza.
L'utilizzo di questo metodo consentirà di ridurre i tempi per la decisione concentrando il momento decisionale con quello motivazionale, nonché di evitare errori che possono commettersi quando si redige il dispositivo senza aver ricostruito tutti i passaggi della motivazione. Deve, infatti, segnalarsi come la Suprema Corte abbia affermato che, nel rito del lavoro, il principio della non integrabilità del dispositivo con la motivazione, in caso di insanabile contrasto fra le due parti della sentenza, non trova applicazione nel caso in cui venga data lettura in udienza sia della motivazione che del dispositivo in quanto, in tal caso, parte motiva e dispositiva concorrono "entrambe a cristallizzare la statuizione consentendo, mediante un'interpretazione complessiva, il passaggio in giudicato anche delle enunciazioni contenute nella motivazione" (cfr. Cass., Sez. L, sentenza n.-1673 del 29 gennaio 2004). Peraltro, l'apposita previsione di una norma che consenta l'immediata redazione della motivazione nell'ambito del rito del lavoro permetterà di superare le difficoltà ermeneutiche collegate all'applicazione dell'art. 281 sexies c.p.c., norma costruito in riferimento al rito ordinario, poco adattabile al modello del processo del lavoro.
La proposta avanzata, che prevede un mutamento di prospettiva disponendo che la regola sarà rappresentata dalla motivazione contestuale mentre la motivazione differita rappresenterà l'eccezione (nel caso di particolare difficoltà della controversia) è, inoltre, in linea con le più recenti modifiche legislative, in particolare con il rito societario previsto dal decreto legislativo 17 gennaio 2003, n.5.
Nell'ambito dell'esigenza di accelerazione e snellimento del lavoro del giudice si inserisce il secondo articolo proposto che prevede la possibilità di far ricorso alla motivazione in forma abbreviata mediante rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e alla concisa esposizione delle ragioni di diritto anche riportandosi a precedenti conformi; pure in questo caso non si tratta di una assoluta novità, in quanto la motivazione in forma abbreviata è già prevista dall'articolo 16, quinto comma, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n.5 in materia di rito societario.
Procedimento monitorio
La necessità di modificare le norme che disciplinano il procedimento monitorio sorge da tre ordini di considerazioni:
- l'esigenza di equiparare il trattamento processuale dei lavoratori subordinati, autonomi manuali, autonomi intellettuali per i quali non esiste una tariffa legalmente approvata a quello per i lavoratori autonomi per i quali la tariffa esiste;
- il rilievo, frutto non solo di intuizione, ma anche dell'esperienza comparata, che allargare il campo di applicazione del procedimento per decreto significa introdurre una notevolissima razionalizzazione. La grande efficienza dell'amministrazione della giustizia in Germania e in Austria deriva anche dalla circostanza che la stragrande maggioranza delle domande di tutela giurisdizionale per crediti pecuniari (in Austria addirittura anche quelli derivanti da fatto illecito!) è filtrata da un procedimento monitorio puro;
- il rilievo empirico che una percentuale molto rilevante dei procedimenti di lavoro si svolgono in contumacia; procedimenti i quali, data la disciplina di derivazione francese, per cui l'attore deve provare la propria pretesa per vincere la causa, comportano quasi sempre un inutile dispendio di attività. (Una ricerca svolta alcuni anni or sono alla pretura di Torino con finanziamento CNR aveva rilevato il 34% dei procedimenti di lavoro sono svolti nella contumacia del convenuto).
E' appena il caso di rilevare che la notevole percentuale di procedimenti in contumacia si ribalterebbe, con l'innovazione proposta, nella certezza che, per quanto riguarda quei procedimenti, non vi sarebbe opposizione. E basterebbe già questo dato di fatto, per concludere che l'innovazione darebbe luogo ad un guadagno netto di attività giurisdizionale. Senza contare che la chiamata in campo delle associazioni sindacali e professionali per il controllo dei conteggi condurrebbe ad una prima scrematura delle pretese e, in generale, con grande probabilità, anzi, con ragionevole certezza, ad una percentuale di opposizioni non superiore a quella, bassa, che si registra per i decreti ingiuntivi secondo la disciplina vigente.
Un inconveniente della soluzione proposta potrebbe essere ravvisato nella circostanza che essa può comportare una diminuzione dei redditi professionali degli avvocati dei lavoratori. Ma a questa diminuzione corrisponderebbe una grande semplificazione nel lavoro degli studi, che potrebbero meglio concentrarsi sulle cause in cui viene proposta l'opposizione e su quelle più delicate e complesse che devono seguire la via del processo in contraddittorio (licenziamenti, accertamenti dell'esistenza del rapporto, mansioni, qualifiche, interpretazione dei contratti collettivi ecc.)
La soluzione approvata dalla Commissione soddisfa le esigenze illustrate: con le norme proposte si rende "quasi puro" (richiedendo al ricorrente di offrire indizi idonei a far presumere esistenti i fatti costitutivi del proprio diritto) il procedimento avente ad oggetto crediti in denaro traenti origine da uno dei rapporti indicati dall'articolo 409 c.p.c. ovvero da rapporti di lavoro autonomo.
Calcolo di interessi e rivalutazioni
Con la modifica dell'articolo 150 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura civile, viene previsto che ai fini del calcolo della svalutazione monetaria, il giudice applicherà l'indice ISTAT, nonché gli interessi legali calcolati sul capitale via via rivalutato. In tal modo, viene trascritto in apposita norma, l'ordinamento così detto "intermedio" espresso dalle Sezioni Unite della Cassazione ( cfr. Sentenza 29 gennaio 2001, n.38) in ordine alla cumulabilità degli interessi legali con la rivalutazione monetaria.
Repressione della condotta antisindacale ed emersione del lavoro "nero"
Il lavoro "nero" è stimato in Italia nell'astronomico ammontare di oltre 3 milioni di unità lavorative. La "bonifica" del lavoro "nero" è stato un obiettivo perseguito dal legislatore per più vie, tanto di repressione amministrativa e penale, quanto di normazione "premiale" per i datori di lavoro che avessero deciso di "emergere" dalla clandestinità o di far emergere parte della loro organizzazione imprenditoriale.
I risultati sono stati, sia sull'uno sia sull'altro versante, costantemente deludenti, e ciò in quanto: gli organi repressivi non hanno mezzi uomini strutture, procedure e talvolta neanche volontà sufficienti per contrastare capillarmente un fenomeno tanto diffuso, mentre le normative premiali non possono mai raggiungere la convenienza della (ancor poco rischiosa) evasione totale. E', inoltre, sempre mancata la legittimazione attiva alla repressione del lavoro "nero" di un ente collettivo esponenziale degli interessi dei lavoratori, non soggetto a quei condizionamenti ai quali invece non può sfuggire il singolo lavoratore immerso nella realtà drammatica del lavoro irregolare, ente non può che essere identificato nell'Organizzazione Sindacale, la quale certamente incontra nel lavoro "nero" un formidabile quanto ingiusto ostacolo alla sua azione di proselitismo e di organizzazione degli interessi collettivi: l'attività sindacale si ferma o diventa difficilissima se i lavoratori sono "invisibili" perché non regolarizzati, ma allora è evidente che il non regolarizzare i lavoratori costituisce un ostacolo (illegittimo) all'attività sindacale, e l'attività sindacale, per altro verso, è proprio uno dei beni tutelati dall'articolo 28 dello Statuto dei lavoratori, norma che reprime i comportamenti datoriali contrari alla "libertà sindacale, all'attività sindacale ed al diritto di sciopero". Date tali premesse non rappresenterebbe una forzatura concettuale ritenere che dare lavoro in "nero" possa integrare la fattispecie di comportamento antisindacale ma, anzi, il risultato di una meditata lettura della norma, mentre, per altro verso, proprio questa sembrerebbe la via più convincente per la lotta al lavoro "nero", primo nemico dell'organizzazione e dell'attività del Sindacato. Ciò in quanto il singolo lavoratore assunto in "nero" sarebbe troppo debole e troppo ricattato, solitamente, per poter denunziare la sua condizione al giudice o alla Autorità Amministrativa e dunque dovrebbe esser riconosciuta, accanto ad una legittimazione individuale, una legittimazione "collettiva", quella del sindacato, ossia dei lavoratori coalizzati.
Nell'ambito di tali premesse si muove la proposta di esplicito riconoscimento legislativo della applicabilità dell'articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori alla ipotesi di "lavoro nero". La proposta si "sposerebbe" perfettamente - quale misura repressiva finalizzata, però, ad una uscita concordata e definitiva dalla illegalità- con le previsioni legislative anche recentissime (cfr. legge finanziaria 2007) circa accordi sindacali di "emersione" del lavoro "nero" che condonano al datore di lavoro, che si impegna con quegli accordi a rientrare nella legalità, gran parte delle sanzioni e dei costi connessi con le violazioni di legge già consumate. Il meccanismo sinergico potrebbe essere il seguente: dopo che il sindacato abbia "scovato" il datore di lavoro "in nero" portandolo in giudizio con il procedimento dell'art. 28 legge 300/1970 per impedimento alla attività sindacale ed il giudice gli abbia ordinato di cessare dal comportamento e di "rimuovere gli effetti", la "rimozione" potrebbe consistere, appunto, nella stipula di un "accordo di emersione" con lo stesso sindacato denunziante.
Dal punto di vista della riforma del testo legislativo la Commissione suggerisce di introdurre un comma all'attuale formulazione dell'art. 28 dello Statuto dei Lavoratori
Lavoro dei detenuti
Con la sentenza del 27 ottobre 2006, n. 341, la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 69, comma 6, lett. a), della legge 354/75 (ordinamento penitenziario), nella parte in cui prevede che le controversie concernenti il lavoro carcerario siano decise dal magistrato di sorveglianza, secondo la procedura di cui all'art. 14 ter della stessa legge. In primo luogo, occorrerebbe chiarire se la sentenza impone semplicemente il rispetto di un rito che garantisca adeguatamente il principio del contraddittorio (con preferenza per il rito del lavoro, stante l'oggetto delle controversie), o se impone anche una diversa competenza in materia di lavoro carcerario.
La ricognizione del thema decidendum operata dalla Corte, ed un (sintetico) riferimento alla competenza, sembrerebbe andare in quest'ultima direzione: in effetti, la sentenza della Corte insiste soprattutto nell'insufficienza della procedura de plano, prevista dall'art. 14 ter 26 luglio 1975, n. 354, ad assicurare il rispetto del principio del contraddittorio, mentre l'altro elemento cardine della motivazione -la pari dignità del lavoro del detenuto e la sua finalizzazione al reinserimento sociale- non escluderebbe con la stessa forza logica la competenza del magistrato di sorveglianza, peraltro riconosciuta dalla prevalente giurisprudenza di legittimità. Ad ogni modo, il tema in esame impone di considerare sia il problema dell'inquadramento generale del lavoro carcerario, sia le implicazioni pratiche della nuova competenza del giudice del lavoro (traduzioni dei detenuti presso i tribunali civili, inadeguatezza delle strutture, aumento dei rischi per la sicurezza, aumento dei costi, incidenza sulla celerità del procedimento, ecc...).
Sul piano generale, devesi rilevare (con Corte cost. 1087/1988) che il lavoro carcerario mantiene elementi di perdurante diversità rispetto al lavoro alle dipendenze di terzi (trae origine da un obbligo legale e non da un contratto, costituisce oggetto di una specifica regolamentazione in relazione allo status libertatis del lavoratore ed alla qualità del datore di lavoro, è indirizzato alla realizzazione degli obiettivi del reinserimento sociale del detenuto, l'amministrazione datrice di lavoro non persegue l'utile, l'occupazione del detenuto non è regolata dal mercato).
Inoltre, accanto al classico "lavoro carcerario" (il lavoro alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria), sono fiorite nuove figure (lavoro alle dipendenze di imprese pubbliche e private da svolgersi all'interno od all'esterno del carcere, lavoro associato nell'ambito di cooperative, lavoro autonomo, lavoro a domicilio, ecc...).
L'adeguamento normativo, quindi, pone anche un problema definitorio in relazione all'oggetto della cognizione.
Il riferimento al lavoro carcerario (definizione soprattutto dottrinale) richiama una categoria piuttosto incerta ed eterogenea, comprensiva, come già detto, sia del lavoro intramurario sia del lavoro all'esterno del carcere, sia di forme di lavoro subordinato sia di forme di lavoro "parasubordinato", sia alle dipendenze dell'amministrazione carceraria sia alle dipendenze di terzi. I nuovi esiti della flessibilità potrebbero sminuire ulteriormente la valenza definitoria del sintagma, ed è per questo che nella proposta normativa si è optato per l'ampia locuzione: "rapporti di lavoro dei detenuti" cercando, per quanto possibile, di non indurre nuove incertezze. In ordine alla competenza, una volta assimilate le situazioni dei lavoratori detenuti a quelle dei lavoratori liberi, dovrebbero mantenersi gli stessi criteri di competenza per territorio, valendo per gli uni come per gli altri le medesime esigenze connesse all' accertamento dei fatti (luogo in cui è sorto il rapporto, in cui si trova l' "azienda" o viene effettuata la prestazione).
L'esigenza di evitare la moltiplicazione degli adempimenti organizzativi, gli aggravi di spesa legati alla traduzione dei detenuti ed i rischi sempre connessi a tale evento, potrebbe forse suggerire la competenza territoriale del Tribunale nel cui circondario si trova l'istituto in cui il lavoratore è detenuto in un certo momento processualmente significativo (es: deposito del ricorso); tuttavia, la possibilità (e la frequenza) dei trasferimenti dei detenuti da un istituto all'altro rischia di sortire gli stessi inconvenienti, se non addirittura di peggiorarli, lasciando per giunta senza garanzia le esigenze cui rispondono i criteri di competenza validi per ogni lavoratore. Sulla base delle considerazioni esposte la Commissione ha formulato una proposta che prevede l'estensione del solo rito del lavoro nei giudizi innanzi al magistrato di sorveglianza, sulle controversie relative al lavoro svolto dai detenuti in favore dell'amministrazione penitenziaria; mentre è prevista l'estensione della competenza del giudice del lavoro sui rapporti di lavoro dei detenuti con soggetti terzi datori di lavoro, pubblici o privati.
Atti e licenziamenti discriminatori ed onere della prova
La necessità di modificare l'attuale disciplina dell'onere della prova in materia di atti discriminatori sorge da una procedura di infrazione (n.2006/2441) ex articolo 226 del Trattato CE, con la quale la Commissione CE ha contestato all'Italia la non corretta applicazione della direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro.
Analizzando nello specifico i rilievi sollevati dall'esecutivo comunitario, la Commissione europea, per la parte di interesse, ha contestato l'inesatto recepimento, nella legislazione nazionale, dell'articolo 10 della direttiva citata laddove si prevede, in materia di onere della prova, che: "Gli stati membri prendono le misure necessarie, conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che, allorché le persone si ritengano lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della parità di trattamento espongono dinanzi ad un tribunale o ad un'altra autorità competente, fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta od indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio di parità di trattamento".
Secondo la Commissione CE nel recepimento di tale direttiva (avvenuto con il decreto legislativo 9 luglio 2003 n. 216) non sarebbe stato correttamente disciplinato l'onere della prova, in quanto l'articolo 4 comma 4, del decreto n.216/2003 , prevede che sia il ricorrente a dover dimostrare la sussistenza del comportamento discriminatorio a proprio danno, deducendo in giudizio, anche sulla base di dati statistici "elementi di fatto, in termini gravi precisi e concordanti che il giudice valuta ai sensi dell'articolo 2729, primo comma, del codice civile".
Secondo la Commissione europea la legislazione italiana chiedendo al ricorrente di dimostrare fatti gravi precisi e concordanti onde stabilire la presunzione di discriminazione, renderebbe troppo difficile all'attore adire la giurisdizione, mentre l'obiettivo dell'articolo 10, paragrafo 1, della direttiva consiste nell'esatto contrario, cioè nell'alleviare l'onere della prova a carico della vittima di comportamenti discriminatori, anche considerando, come si precisa nell'atto di messa in mora dello Stato italiano, che nell'ambito di altre normative italiane, esistono disposizioni che, in talune circostanze, trasferiscono efficacemente l'onere della prova come per l'articolo 4, comma 5, della legge 10 aprile 1991 n.125 sulle "azioni positive per la realizzazione della parità uomo donna (attuale articolo 40 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n.198 recante il codice delle pari opportunità tra uomo e donna ).
E' emerso che il problema potrebbe avere una portata più ampia di quella evidenziata dall'esecutivo comunitario, in quanto la direttiva 2000/78/CE si applica, ex articolo 3, anche al licenziamento discriminatorio. Il decreto contestato non contiene alcuna norma specifica sul punto, in quanto il licenziamento discriminatorio era già regolato, nel nostro ordinamento, con l'articolo 15 dello statuto dei lavoratori (l. 20 maggio 1970, n.300). Tuttavia, tale norma non prevede l'inversione dell'onere della prova (cfr. per tutte Cass. Sez. L., sent. N. 14753 del 15.11.2000): ma, non prevedere l'inversione dell'onere della prova per il licenziamento discriminatorio, che rappresenta il più grave tra gli atti di discriminazione, potrebbe comportare oltre ad un'eventuale procedura di infrazione comunitaria, anche profili di disparità di trattamento qualora la disposizione fosse prevista per le altre, meno gravi, discriminazioni.
Inoltre, la modifica imposta dalla Commissione Europea in relazione alla direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro, imporrebbe di modificare anche il decreto legislativo di recepimento della direttiva 2000/43/CE sulla parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica, in quanto anche quest'ultima direttiva prevede all'articolo 8 l'inversione dell'onere della prova ed decreto legislativo 9 luglio 2003, n.215, di recepimento della tale direttiva, "gemello" rispetto al decreto 215/2003, contiene all'articolo 4 comma 3, una norma sull'inversione dell'onere della prova, identica a quella contestata dalla Commissione europea. Inoltre, anche a prescindere dalla esistenza di una specifica procedura di infrazione, modificare l'articolo 4 del decreto legislativo n.216/2003, senza modificare l'identico articolo 4 del decreto legislativo n.215/2003 potrebbe esporre a censure di incostituzionalità.
Date tali premesse, si propone di inserire una norma che preveda l'inversione dell'onere della prova in presenza di qualunque atto di discriminazione, sostituendo a tutte le disposizioni settoriali un richiamo alla norma generale.
Quanto alla formulazione della norma sono possibili due opzioni: la prima riproduce la norma contenuta nel codice delle pari opportunità tra uomo e donna (decreto legislativo 11 aprile 2006 n.198, articolo 40); la seconda riproduce, in maniera più fedele il testo delle direttive richiamate. La Commissione ha optato per formulare la norma in modo da renderla il più possibile conforme al testo della direttiva. Quanto alla collocazione sistematica, si propone di inserire la norma potrebbe nell'ambito dello Statuto dei lavoratori dopo l'articolo 15, inoltre tutte le norme settoriali, dovranno essere sostituite prevedendo un richiamo alla nuova disposizione.
Modifica dell'articolo 96 legge fallimentare
La riforma della legge fallimentare, attuata con il decreto legislativo 9 Gennaio 2006, n. 2005, il quale ha dettato una nuova disciplina della formazione ed esecutività dello stato passivo nonché delle impugnazioni contro il relativo decreto dal punto di vista processuale ha introdotto due importanti novità:
a) da un lato l'effetto solo endoprocessuale attribuito dall'ultimo comma dell'art. 96 LF. tanto al decreto di esecutività dello stato passivo quanto alla sentenza che decide il procedimento di impugnazione;
b)dall'altro l'adozione, per quest'ultimo procedimento, di un rito camerale "ampliato e garantistico" prevedente l'assunzione in contraddittorio di mezzi di prova di ogni tipo.
Per quanto riguarda il primo aspetto, va ricordato che in precedenza si riteneva che la sentenza emessa nel procedimento di opposizione allo stato passivo avesse efficacia di giudicato, essendo pronunziata al termine di un normale giudizio di tipo ordinario, e ciò aveva un sicuro rilievo in tutte quelle cause in cui, pur trattandosi immediatamente di un credito di lavoro, si accertava però, in via preliminare, la sussistenza di un rapporto di lavoro. Un accertamento di questo genere consentiva pertanto successivamente, anche in sede extrafallimentare, al lavoratore di ottenere la ricostituzione di posizioni previdenziali, a suo tempo non accese per la irregolarità di contratti di lavoro (atipici o addirittura "in nero") in base ai quali era stata prestata l'opera e anche maturato il credito.
Con l'efficacia solo endoprocessuale anche della sentenza emessa nel giudizio di opposizione (ora impugnazione) disciplinato dall'art. 99 LF. questa preziosa possibilità andrebbe persa, ed occorre in proposito ripensare un po' l'intera problematica dei rapporti tra interessi dei lavoratori, contenzioso lavoristico, vicende concorsuali e procedimento fallimentare.
Il fatto è, invero, che l'interesse fondamentale dei lavoratori nelle insolvenze e nei procedimenti fallimentari non è tanto, quello del recupero dei crediti rimasti impagati, sia perché ad esso si fa fronte in buona parte ricorrendo al Fondo di Garanzia di cui alla Legge 297/82, sia perché esiste il privilegio di I° grado e la decorrenza di interessi e rivalutazioni fino al riparto finale, quanto piuttosto quello di veder riconosciuto, come premessa del credito, lo status stesso di lavoratore subordinato, e che significa poi poter accedere o meno, in futuro, ad un trattamento previdenziale pensionistico.
Il problema ed il fenomeno sociale da comprendere è questo: l'insolvenza dell'impresa ed il fallimento costituiscono, per così dire, il "pettine" al quale arrivano assai spesso tutti assieme, i nodi dei tanti rapporti irregolari costituiti dall'imprenditore ancora "in bonis": false collaborazioni a progetto, false associazioni in partecipazione, falsi contratti di inserimento, rapporti di somministrazione irregolari ecc. ecc.
E' insomma il caso, talvolta davvero drammatico, di lavoratori che avendo collaborato per molti anni sulla base di rapporti "atipici" rischiano, con il fallimento dell'impresa di non poter mai ottenere una posizione previdenziale adeguata per il lavoro effettivamente prestato.
Due possibilità concettuali si aprono per porre rimedio a questa palese grandissima ingiustizia:
A) accettare la logica del D.Lgs. 9 Gennaio 2006, n. 5 e cioè l'efficacia solo endofallimentare delle pronunzie dei giudici fallimentari, -che pertanto rispondono solo alla questione di quali crediti debbano essere ammessi al riparto, ma senza pervenire a nessun accertamento con valore di giudicato- e allora portare fuori dalla sede fallimentare, mantenendoli espressamente al giudice del lavoro tutti i giudizi relativi alla sussistenza del rapporto di lavoro subordinato (previa riqualificazione) dei rapporti di lavoro atipici irregolari. Scontando, però, allora, continui problemi di interferenza tra le due competenze e sedi visto che la sussistenza del rapporto è, inevitabilmente, il presupposto del credito del lavoratore;
B) affidarsi, invece, al nuovo procedimento camerale disciplinato dall'art. 99, della LF. come ora ridisciplinato dal D.Lgs. N. 5/2006 e prevedere una specifica eccezione all'efficacia solo endofallimentare delle pronunzie, allo scopo di dare una risposta, per così dire "veloce e compatta", nella stessa sede fallimentare a quel fondamentale interesse del lavoratore.
La Commissione ha approvato questa seconda forma di intervento proponendo di modificare, con l'aggiunta di un comma, l'art. 96 legge fallimentare, come modificato dal decreto legislativo 9 gennaio 2006 n.5.
Controversie tra socio e cooperativa
Con la modifica del secondo comma dell'articolo 5 della legge 30 aprile 2001, n.142 (nel testo vigente a seguito dall'entrata in vigore dell'articolo 9 della legge 14 febbraio 2003, n.30) si intende porre fine a difficoltà, interpretative ed applicative- testimoniate da una diffusa giurisprudenza di merito - derivanti dall'attribuzione alla competenza del tribunale ordinario delle sole controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica. La Commissione ha, quindi, proposto di modificare l'attuale formulazione della norma richiamata prevedendo che le controversie tra socio e cooperativa siano tutte di competenza del tribunale in funzione di giudice del lavoro.
Sentenze del giudice ordinario e giudizio di ottemperanza
Ai sensi dell'art. 33, c.3 della legge n. 1034 del 1971 (modificato dall'art. 10 della legge 21 luglio 2000, n. 205) possono essere oggetto del giudizio di ottemperanza le sentenze del giudice amministrativo di primo grado purchè non sospese dal giudice di appello.
Lo stesso non è possibile nel caso in cui oggetto di un giudizio di ottemperanza riguardi una sentenza del giudice ordinario (il che potrebbe verificarsi nel caso di controversie di pubblico impiego per il quale la giurisdizione dell'a.g.o. costituisce la regola, per effetto della "privatizzazione" operata dal t.u. n. 165 del 2001) che, pur avendo efficacia provvisoriamente esecutiva, non sia ancora passata in giudicato
La Corte costituzionale, con ordinanza n. 44 del 2006 ha ritenuto manifestamente infondata la questione sulla descritta disparità di trattamento, considerandola frutto di una discrezionalità del legislatore il quale "ha voluto dare concretezza al principio di esecutività delle sentenze di primo grado" e aggiungendo che "...sono differenti e, quindi, non comparabili le azioni esecutive davanti al giudice ordinario secondo le norme di procedura civile, trattandosi di sentenze o provvedimenti esecutivi che non richiedono l'esame di merito proprio del giudizio di ottemperanza. Pertanto non potrebbe parlarsi di disparità di trattamento fra l'ipotesi di esecuzione di sentenza amministrativa di primo grado, perseguita attraverso il giudizio di ottemperanza e l'ipotesi di esecuzione delle sentenze di primo grado del giudice ordinario.
La decisione lascia in disparte l'ipotesi delle sentenze rese dal giudice del lavoro in controversie di lavoro "pubblico" per le quali pure risulta utilizzato il giudizio di ottemperanza.
Per ovviare a tale alcuna si propone di modificare il primo comma dell'art.37 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 prevedendo che possa farsi ricorso al giudizio di ottemperanza anche nel caso di sentenza emessa dell'autorità giudiziaria ordinaria, dotata di esecutività ai sensi dell'art. 431 c.p.c., che abbia riconosciuto la lesione di un diritto civile o politico.
[1] In primo grado, a fronte di 1.104.553 cause pendenti nel 2000 (di cui 320.662 in materia di lavoro e 783.891 in materia previdenziale), si sono registrate a fine 2004, 956.643 cause (di cui 315.935 di lavoro e 640.708 di previdenza e assistenza). In grado di appello, a fronte di 135.765 cause pendenti nel 2000 (di cui 55.965 di lavoro e 79.800 di previdenza) si sono avute 135.351 a fine 2004 (di cui 51.969 di lavoro e 83.382 di previdenza e assistenza): cfr. ISTAT, statistiche sulle cause di lavoro, previdenza e assistenza in Italia, (bollettino del 16 maggio 2006).
[2] Nel 1994 occorrevano in media 518 giorni per giungere alla definizione delle controversie di lavoro primo grado e 658 giorni per le controversie di previdenza ed assistenza: a fine 2003 i "tempi" si sono allungati, rispettivamente, a 698 giorni e 843 giorni per ciascuna delle controversie indicate.
In appello, le durate medie complessive si sono lievemente ridotte: a fronte di 1.023 giorni per le cause di lavoro e 790 giorni per quelle previdenziali, nel 1994, nel 2003 si sono registrati 794 giorni per le cause di lavoro e 884 per quelle previdenziali. Cfr. La relazione del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione sull'Amministrazione della Giustizia nell'anno 2004, p.38, in cui si sottolineava che le controversie di lavoro e previdenza rappresentavano, nel 2004, il 43% del contenzioso civile in primo grado e il 46% del contenzioso civile d'appello, avvertendo come "a questo dato dev'esser fatto riferimento per determinare il numero dei magistrati da assegnare alle sezioni lavoro".
[3] A.VALLEBONA, Parola d'ordine: salvare il processo del lavoro, in Mass. giur. lav., 2007, 1ss.