Il caso Welby

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Procura della Repubblica di Roma - 11 dicembre 2006 -

Pubblico Ministero - Atto di intervento in procedimento 

Welby c. Antea e altro  

(...) 1. I provvedimenti di urgenza, essendo volti ad impedire che la futura pronuncia del giudice possa risultare pregiudicata dal tempo necessario ad ottenerla, hanno carattere strumentale rispetto al successivo giudizio di merito, che è di cognizione - del tutto autonoma - del diritto controverso.

A tale riguardo si osserva che, come è noto, secondo un diffuso orientamento non sarebbe consentita, nell'ambito della tutela cautelare concessa dall'art. 700 cpc, tesa ad assicurare in via provvisoria l'effettività dell'eventuale futura decisione di merito, l'adozione di misure che, ove eseguite, verrebbero a provocare effetti definitivi e irreversibili (cfr. Trib. Torino 10 dicembre 2003; Corte d'appello Torino 29 novembre 2004).

Secondo il tradizionale orientamento della dottrina (cfr. Arieta; Proto Pisani), l'attuazione di provvedimenti d'urgenza con effetti irreversibili o comunque difficilmente eliminabili è in linea di principio sempre da evitare - a meno di non voler intravedere, come detto, in tale circostanza un limite invalicabile all'emanazione degli stessi - potendosi ammettere solamente quando, all'esito di accertamenti quanto più possibile approfonditi sul fumus boni iuris e il periculum in mora, nonché di valutazioni comparative sulle conseguenze della misura cautelare, il giudice ravvisi nell'adozione di una misura urgente di questo tipo l'unico strumento idoneo e necessario a scongiurare un pregiudizio irreparabile al diritto soggettivo cautelando.

Nella giurisprudenza di merito - scarsa è, evidentemente, quella di legittimità - si rinvengono posizioni contrastanti (v. Pret. Genova 12 gennaio 1989; contra Trib. Monza 21 maggio 1997; Trib. Roma 23 novembre 2000): la posizione favorevole è lucidamente argomentata da Trib. Milano 14 agosto 1995 (GI, 1996, I, 2, 354), secondo la quale «la risoluzione di un conflitto fra due interessi contrapposti può essere foriera di danni irreparabili; tali danni, peraltro, potrebbero conseguire anche al diniego della misura cautelare; nel conflitto fra contrapposti interessi di pari rango, la constatazione del carattere di definitività, che avrebbe il provvedimento di urgenza richiesto, non appare motivo sufficiente a giustificarne il rigetto, dovendosi ritenere che il legislatore preferisca che sia evitato un pregiudizio irreparabile ad un diritto la cui esistenza appaia probabile, anche al prezzo di provocare un danno irreversibile a un diritto che, in sede di concessione della misura cautelare, appaia invece improbabile».

La Corte di cassazione, nella recente sentenza n. 4082 del 25 febbraio 2005, ha avuto modo di chiarire - sia pure al fine di escludere l'ammissibilità del ricorso di legittimità, perché il contenuto dell'ordinanza, dalla quale scaturivano effetti irreversibili, non conferiva al provvedimento natura di sentenza - che la caratteristica dell'irreversibilità «si riscontra in tutti i casi in cui, per la natura del diritto sottoposto a cautela e il carattere anticipatorio della misura cautelare, questa e in sé sufficiente per soddisfare il soggetto che l'ha richiesta (come nei casi di autorizzazione al compimento di una determinata attività)».

Questa flebile progressiva apertura sembra avere trovato accoglienza da parte del legislatore che, nel contesto della recente riforma del processo civile (v. decreto legge 30 dicembre 2005, n. 273, convertito, con modificazioni, nella legge 51/2006), ha inserito, nell'articolo 669 octies del cpc un comma 8, secondo cui non vi è onere di instaurare il giudizio di merito, ma «ciascuna parte può instaurare il giudizio di merito», nel caso in cui siano stati emessi «provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito».

Da questa norma sembra potersi argomentare che il giudizio di merito, nel caso in cui siano stati emessi provvedimenti anticipatori, diviene meramente eventuale, con il che viene a cadere il principale argomento in base al quale veniva negata l'ammissibilità di misure irreversibili e, cioè, che avrebbero reso di fatto inutile il giudizio a cognizione piena.

Ciò premesso, si evidenzia, sulla base delle suddette argomentazioni, l'ammissibilità sotto questo profilo del giudizio cautelare nei termini proposti dal ricorrente.

 

2. Tale giudizio presuppone però, un ulteriore scrutinio di ammissibilità collegato all'esistenza di un diritto controverso da far valere nella fase cautelare.

In ordine a tale punto, il ricorrente deduce una situazione formale dove - come egli stesso sembra ammettere - non vi è contestazione del diritto a manifestare il suo dissenso al trattamento terapeutico in atto. Tale diritto viene dedotto nel ricorso come dato pacificamente accettato dalla struttura sanitaria e dal medico curante. Tuttavia, nella sostanza, tale diritto non viene di fatto realizzato perché viene prospettato che subito dopo il distacco del ventilatore polmonare, in adesione alla sua volontà, assumerebbe preminenza il rischio vita, che dà luogo a carico dei sanitari ad un obbligo di intervento con necessità di riprendere  il trattamento precedente.

Con riguardo al primo profilo, non sembra che sia pertanto in discussione il divieto del medico (correlato al diritto del paziente) di porre in essere un qualsiasi trattamento medico in presenza di un documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere (art. 32 del codice di deontologia medica), e ciò vale certamente, in ragione dell'ampio contenuto del diritto del paziente, anche per il trattamento medico in atto, allorché si chiede di desistere dai conseguenti atti diagnostici e curativi, non essendo possibile, come efficacemente argomentato dal ricorrente, alcun trattamento medico contro la volontà della persona. Non si ritiene, quindi, di dovere spendere ulteriori argomenti su tale aspetto, risultando oramai acquisito alla cultura giuridica il principio secondo cui l'intervento medico è legittimato dal consenso valido e consapevole espresso dal paziente, in forza degli articoli 13 e 32, secondo comma, della Costituzione, che tutelano non solo il diritto alla salute, ma anche il diritto di autodeterminarsi, lasciando a ciascuno il potere di scegliere autonomamente se effettuare, o meno, un determinato trattamento sanitario.

La tutela cautelare d'urgenza che qui si richiede non riguarda soltanto il suddetto profilo, che - si ribadisce - non appare contestato, bensì anche - se non soprattutto - quello successivo che involge un'altra questione, ossia il trattamento sanitario di urgenza, in presenza degli effetti connessi alla cessazione della terapia, per il quale la prospettazione dell'intervento ripristinatore della terapia medesima, in termini di automaticità non appare giustificata.

Come è noto, il criterio di interpretazione di un diritto, nei limiti del significato della norma, deve essere nel senso che il diritto si deve interpretare secondo il principio di massima effettività. Nel caso concreto per dare la massima effettività al diritto del paziente è necessario procedere alla sedazione richiesta, altrimenti il diritto diventerebbe solo astratto e il distacco dal respiratore senza sedazione violerebbe di fatto il rispetto del principio costituzionale della dignità della persona e del diritto di autodeterminazione.

In relazione a tale profilo si ribadisce la fondatezza del diritto e la sussistenza delle ragioni che richiedono l'intervento del Giudice nella fase qui considerata.

 

3. Ebbene, il ricorrente, come già anticipato, richiede, inoltre, al Giudice, mediante lo strumento processuale qui utilizzato, di rilasciare una sorta di autorizzazione preventiva che esoneri il medico dall'obbligo di intervenire di fronte al rischio morte, dovendo comunque rispettare la volontà già espressa dal paziente che quella situazione si era configurato ed aveva volontariamente e liberamente accettato.

Al di là delle problematiche di vario ordine che agitano la materia, non sembra che quest'ultima situazione prospettata rientri nell'ambito di applicazione dell'art. 700 cpc, poiché manca dell'imprescindibile requisito dell'attualità, in quanto le successive decisioni implicano valutazioni discrezionali che vanno assunte sul momento.

Difatti, da un lato, non si contesta né appare contestabile il diritto del ricorrente al rifiuto del trattamento terapeutico in atto; dall'altro, la situazione successiva a tale evento appare investire un'altra problematica, riguardante la responsabilità del medico in presenza di trattamenti di urgenza, dovendo egli valutare se sussista in concreto la necessità di salvare il paziente dal pericolo attuale di un danno grave alla persona e perciò agire anche in assenza o anche contro il consenso di questo. Nel fare ciò egli però dovrà verificare se il trattamento richiesto si pone in contrasto con la regola del divieto di accanimento terapeutico, basata sui principi costituzionali di tutela della dignità della persona e prevista nel codice deontologico medico. Si tratta, infatti,  di comportamento del medico espressamente disciplinato, come recita l'articolo 14: «Il medico deve astenersi dall'ostinazione in trattamenti, da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e o un miglioramento della qualità della vita».

Sul punto è eloquente quanto affermato dai Giudici della Corte di appello di Milano nel decreto del 26 novembre 1999, riguardante sì altra situazione di fatto ma con riflessi anche sulla questione che qui si discute. In quel provvedimento si precisava infatti che: «Nell'accezione più accreditata l'accanimento terapeutico si presenta come una cura inutile, "futile", sproporzionata, non appropriata rispetto ai prevedibili risultati, che può pertanto essere interrotta, perché incompatibile con i principi costituzionali, etici e morali di rispetto, di dignità della persona umana, solidarietà. Elemento significativo di una riflessione è l'art. 37 del codice deontologico del 1998 che prevede che «in caso di compromissione dello stato di coscienza, il medico deve proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile».

Sempre la Corte di appello di Milano in un passaggio successivo è ancora più esplicita, affermando che l'obbligo del medico alla cura costituisce un dovere che «si arresta in ipotesi di accanimento terapeutico, nell'accezione già delineata di trattamenti che non hanno la capacità di migliorare o di preservare la salute del paziente e, quindi, "futili", "non appropriati" in quanto esterni rispetto ai confini della medicina».

 

4. In questi termini, appare evidente che, sotto il profilo  dell'esistenza del diritto ad interrompere il trattamento terapeutico non voluto, con le modalità richieste, il ricorso è ammissibile e va accolto.

Per quanto riguarda, invece,  la possibilità di ordinare ai medici di non ripristinare la terapia, il ricorso è inammissibile, perché trattasi di una scelta discrezionale affidata al medico, anche se  di una scelta discrezionale tecnicamente vincolata, in merito all'utilità e alla necessità di ripristinare, in un momento successivo, la terapia,  sulla base di quanto indicato nell'articolo 37 del codice deontologico il quale prevede: «In caso di malattia a prognosi sicuramente infausta  o pervenute alla fase terminale, il medico deve limitare la sua opera all'assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutili sofferenze, fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità di vita».

17 10 2007
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