Intervento del consigliere Gianfranco GilardiSignor Presidente, signori consiglieri. L’ordinamento giuridico fondato
sulla Costituzione repubblicana annovera tra i suoi presupposti la discutibilità
degli atti giudiziari. Poich anche i giudici, nell’interpretazione ed
applicazione della legge, sono soggetti ad errori, non solo è stabilito
che ogni giudizio debba svolgersi nel contraddittorio delle parti, ma
contro la decisione che si assume sbagliata è prevista una serie ampia
e articolata di rimedi processuali, ed è pure previsto che gli errori,
quando dovuti a negligenza inescusabile o a dolosa violazione della legge,
diano origine a responsabilità personale del giudice. In un sistema democratico
la discutibilità degli atti giudiziari significa inoltre che (neppure)
l’esercizio delle funzioni giurisdizionali può sottrarsi alla critica
ed alla discussione. La discussione pubblica sull’esercizio delle funzioni
giurisdizionali, col mettere in luce anche inerzie, abusi o deviazioni,
è anzi servita a rafforzare il senso delle istituzioni ed a far crescere
l’indipendenza reale della magistratura. Ma nella Costituzione sta scritto
anche, con altrettanta chiarezza, che il giudice è soggetto solo alla
legge: non agli ordini o alle pressioni di altri poteri, esterni o interni
alla magistratura, ma solo alla legge, alla quale egli ha persino il dovere
di disobbedire quando la legge contrasta con la Costituzione. Ed è proprio
la certezza che il giudice sia soggetto solo alla legge la garanzia che
la giurisdizione possa svolgersi in modo imparziale a tutela e nei confronti
di tutti senza distinzione. Istituzionale imparzialità che non viene meno
in ragione delle possibili diversità di opzioni culturali, ideologiche
o politiche dei singoli magistrati, poich, i principi costituzionali
del giudice naturale, dell’assunzione per concorso, dall’esclusione di
ogni differenziazione tra i magistrati che non sia quella fondata nella
diversità delle funzioni esercitate non avrebbero alcun senso se il Costituente
non assumesse il pluralismo ideale e culturale come connotazione intrinseca
del modello di giurisdizione vigente in Italia . I singoli atti giudiziari
possono costituire oggetto di discussione. Gli errori e gli abusi nell’applicazione
della legge possono e debbono essere denunciati e - quando sia fondata
su fatti specifici e su critiche motivate - la discussione è utile alla
democrazia perch concorre a mantenere nell’ambito della legalità lo stesso
esercizio della giurisdizione. Ma, come ha ricordato il Capo dello Stato
con ferme ed alte parole, l’autonomia del giudice e l’esercizio indipendente
della giurisdizione debbono restare valori intangibili, pena la perdita
del principio di separazione dei poteri e dei caratteri costitutivi dello
Stato di diritto. I giudici non possono rifiutarsi di applicare le leggi
del Parlamento, anche quando non le condividano e fatto salvo, ove ne
ricorrano i presupposti, il dovere di impugnarle davanti alla Corte Costituzionale.
Ma n l’esecutivo n alcun altro potere possono contrastare il dovere
dei giudici di interpretare le leggi quando ne fanno applicazione, fatto
salvo il diritto delle parti di impugnare nel processo, con i rimedi previsti
dall’ordinamento, le decisioni ritenute sbagliate e le interpretazioni
che non siano condivise. Ancora una volta, invece, i magistrati che per
ragioni del loro ufficio debbono occuparsi di processi in cui sono coinvolti
determinati esponenti politici vengono additati all’opinione pubblica
come complici di un disegno che avrebbe piegato a fini di parte l’esercizio
dell’azione penale e della giurisdizione. Con giudizi sommari e senza
appello, intere pagine processuali che hanno visto quotidianamente esposti
i magistrati su difficili versanti del controllo di legalità, vengono
definite "colpi di stato per via giudiziaria". Le richieste formulate
dagli organi inquirenti ed i provvedimenti adottati da collegi giudicanti
nel normale esercizio dell’attività interpretativa vengono qualificati
come atti di eversione dell’ordinamento giuridico, e nei confronti dei
magistrati che danno interpretazioni non gradite, si sollecitano arresti
ed aperture di procedimenti. Gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni
giurisdizionali vengono definiti azioni di "guerra civile" ed i tribunali
equiparati a "plotoni di esecuzione"; e le sentenze di riforma emesse
dal giudice dell’impugnazione vengono invocate di per s come fonte di
responsabilità giuridica e morale nei confronti del giudice che ha pronunciato
la sentenza riformata. In tale contesto di attacchi ripetuti all’attività
processuale, non vengono colpiti solo l’onore professionale e la dignità
personale di singoli magistrati, ma è messo a rischio l’esercizio stesso
della giurisdizione e la possibilità di continuare a svolgerla in modo
libero, sereno e indipendente. Quando la critica ai giudici trascende
nell’accusa di esercizio della giurisdizione per fini di parte, e l’accusa
viene sollevata in modo esplicito da membri del Governo e dallo stesso
Presidente del Consiglio; e quando al naturale sistema dei controlli processuali,
previsto per correggere gli errori nell’interpretazione ed applicazione
della legge, si sostituisce un circuito parallelo in cui gli inquirenti
vengono trasformati in inquisiti ed i giudici naturali in rei da processare,
è concreto il rischio di alterazione dei caratteri fondamentali dello
Stato di diritto come è concreto il rischio che i singoli magistrati possano
restar condizionati dal timore di trovarsi esposti a reazioni e ritorsioni
in ragione dei provvedimenti adottati. Il ripetersi di quegli attacchi,
saldandosi a un senso diffuso di insoddisfazione per lo stato della giustizia,
rischia di acuire la distanza tra i cittadini ed il corpo giudiziario,
che finisce per essere identificato, agli occhi dell’opinione pubblica,
come il principale responsabili dei "mali" e dei difetti del sistema giudiziario.
Del resto, quale fiducia nelle istituzioni potranno avere i comuni cittadini
quando i magistrati vengono quotidianamente offesi, in ragione ed a causa
delle loro funzioni, da componenti del Parlamento, membri del Governo,
inquisiti, difensori di inquisiti? Quale credibilità potrà pi avere la
funzione giudiziaria quando i giudici vengono criticati non sulla base
di analisi motivate di ciò che sta scritto nei loro provvedimenti, ma
in virt di pregiudizi politici o del rifiuto stesso della giurisdizione?
E quale fiducia nei giudici e nella giustizia potrà conservare una collettività
a cui viene ossessivamente ripetuto che l’azione penale è uno strumento
in mano a magistrati faziosi, che accusano, giudicano e condannano senza
prove o sulla base di prove false? Nessuna democrazia può reggere a lungo
il peso di un simile sospetto sui suoi magistrati.. Anche per questo ho
apprezzato le parole pronunciate dal Capo dello Stato quale supremo garante
degli immodificabili valori costituzionali. Come sarebbe contraria alla
democrazia una magistratura che concepisse il processo come strumento
di lotta politica e di oppressione, allo stesso modo è da respingere l’idea
di una politica che considerasse i giudici come avversari da combattere
e neutralizzare. Il Consiglio continuerà ad esercitare, senza subire pressioni
o condizionamenti, il suo ruolo di garante dell’indipendenza di tutti
i magistrati che attendono quotidianamente al proprio lavoro tra mille
difficoltà e con grande senso di responsabilità istituzionale. Ma, come
ha ricordato il Presidente della Repubblica, il compito di garantire la
giurisdizione investe le responsabilità di ogni funzione dello Stato;
e senza il recupero di un clima di compostezza e di serena e corretta
dialettica istituzionale, senza una politica che rimetta al centro della
propria attenzione i diritti delle persone ed i bisogni di coloro che
ne sono i titolari insoddisfatti, sarà pi difficile risolvere i problemi
della giustizia, le sue lentezze e i suoi ritardi, come sarà pi difficile
per lo stesso Consiglio assicurare, per quanto direttamente ad esso compete,
la correttezza e l’integrità della giurisdizione.Intervento del consigliere Sergio MattoneQuesto dibattito costituisce dal mio punto di vista un’occasione per
porre alcuni punti fermi e per dissipare alcuni possibili equivoci sui
rapporti che devono intercorrere tra la magistratura, da un lato, e gli
altri poteri e la società, dall’altro. Nonostante la giurisdizione sia
oggi soggetta ad attacchi particolarmente virulenti, va ribadito anzitutto
che non può porsi comunque in discussione il diritto di critica ai provvedimenti
giudiziari e, pi in generale, all’operato della magistratura: se nell’elaborazione
della proposta di risoluzione avessi percepito un arretramento su questo
fronte, ad essa non avrei dato di certo il mio pur modesto avallo, in
quanto non da ora considero l’esercizio del diritto di critica nei confronti
di ogni istituzione un momento irrinunciabile dell’ ordinamento democratico.
Non sarà inutile ricordare, a questo proposito, che un rapporto nuovo
tra magistratura e società si è instaurato allorch, circa trent’anni
or sono, ha preso avvio - come ha scritto Pino Borrè - un processo di
disvelamento di miti antichi ed autorevoli che avvolgevano la giurisdizione
e che si è tradotto, in particolare, in una critica - allora considerata
da molti traumatica - ai provvedimenti giurisdizionali realizzata "all’interno"
del ceto professionale. Ma direi che in questo contesto non dovrebbe a
ben vedere parlarsi neppure dell’esercizio del diritto di critica in senso
proprio, se con tale espressione ci si intende riferire alla contestazione
delle tesi e delle ragioni che sorreggono un provvedimento giurisdizionale
od altra attività ricollegabile all’operato dei magistrati, ai quali si
imputino negligenze, comportamenti superficiali, cadute di professionalità,
carenze culturali e quant’altro. E tenterò di spiegare perch, dal mio
punto di vista, siamo fuori, sotto un duplice profilo, da questo ambito
discorsivo. In primo luogo, oggi è nel mirino piuttosto l’indipendenza
del giudice e specificamente la sua imparzialità, intesa come equidistanza
tra le parti: obiettivo, questo, che il giudice deve tendere a realizzare
a prescindere dalle sue convinzioni teoriche (di natura filosofica, politica,
religiosa, ecc.), che sono destinate, per così dire, ad essere abbandonate
in limine litis, ed in assenza del quale finirebbe per prevalere nel processo
la logica amico/nemico, che è quanto di pi snaturante si possa immaginare
per la giurisdizione, se è vero che essa deve fondarsi in via esclusiva
sulla soggezione del giudice soltanto alla legge (e dunque, come ancora
osservava Borrè, sulla disobbedienza a ciò che legge non è: disobbedienza
al "palazzo" di pasoliniana memoria, ai potentati economici, alla stessa
interpretazione degli altri giudici). Eppure, è proprio l’imparzialità
che si pone costantemente in discussione in questa fase mediante proclami
che, attraverso la loro reiterazione e la loro diffusione mediatica, tendono
ad instillare nella coscienza collettiva la persuasione che l’attività
giudiziaria, deragliando dai binari assegnatile, possa obbedire proprio
a criteri di schieramento politico, con il risultato di minare la legittimazione
della magistratura, che non può non rinvenire nel raccordo con la società
un suo momento di forza. . Questo indebito collegamento tra le opzioni
ideali del singolo magistrato ed il "prodotto" della sua attività diviene
poi la premessa per una decisa svalutazione del pluralismo associativo,
che si traduce di fatto nel tentativo di espungere dalla magistratura
i fermenti culturali che ne hanno caratterizzato la storia ed hanno alimentato
la sua indipendenza interna ed esterna: non può non sottolinearsi al riguardo
che le innovazioni che hanno sottratto il potere giudiziario alle pesanti
ipoteche che ne frenavano le potenzialità (dall’ effettiva applicazione
del principio del giudice naturale alla riduzione dei poteri dei dirigenti,
dalla rottura del modello meritocratico al rafforzamento del ruolo di
autogoverno) non hanno costituito graziose elargizioni da parte di un
legislatore illuminato, ma sono state anche il frutto dell’azione svolta,
certo non da sola, dalla magistratura associata, la cui vigorosa dialettica
interna ne ha consentito una complessiva crescita culturale. Ed è tanto
pi preoccupante, quindi, che torni oggi a manifestarsi una tendenza che
pare diretta al depotenziamento della sua carica ideale, tendenza la cui
espressione emblematica è rappresentata dal nuovo sistema elettorale del
Csm, che tende a relegare una fase pur così importante della vita istituzionale
in una dimensione meramente individualistica. Ma la discussione in atto
non investe in effetti il diritto di critica anche perch, in virt di
un inedito ribaltamento dei ruoli, che si gioca tutto al di fuori del
processo ed è sorretto dai rapporti di forza esistenti nei sistemi di
comunicazione di massa, sul banco degli imputati non è pi il singolo
magistrato, come sino ad ora era accaduto, bensì la magistratura o, meglio,
una parte di essa, la cui composizione si modifica, peraltro, di giorno
in giorno: decisioni sgradite interpretazioni della legge difformi dalle
aspettative dei soggetti interessati, applicazioni delle sentenze della
Corte costituzionale secondo criteri puntualmente enunciati (seppur non
condivisi dalle parti), perfino valutazioni di comportamenti attinenti
al processo (quali l’assenza dell’imputato) che, ovviamente, sono state
sempre oggetto di verifica da parte dei magistrati, sono oggi considerate
talvolta non solo manifestazioni di orientamenti ideologici riferibili
ai singoli giudici, ma addirittura espressione di un pi generale disegno
collettivo; un disegno che, come una immensa ragnatela, avrebbe realizzato
da dieci anni a questa parte una vera e propria torsione del ruolo giurisdizionale
ed al quale parteciperebbero - a seconda dell’evolversi di certe vicende
processuali - ora i pubblici ministeri, ora i giudici delle indagini preliminari,
ora i magistrati di primo grado, ora quelli di appello (e prima o poi
verrà il turno della corte di cassazione). E’ davvero singolare che coloro
che sono investiti di compiti di rappresentanza politica e sarebbero tenuti
a tutelare i delicati equilibri istituzionali delineati dalla nostra Costituzione
non avvertano, essi per primi, il vulnus inferto a quegli assetti attraverso
la contestazione dell’esercizio dei poteri giurisdizionali che si svolga
- perch di questo si tratta - nel rispetto delle regole ed in piena autonomia;
quasi che ci si possa permettere il lusso di porre in discussione uno
dei cardini dello stato di diritto senza che ne derivi un gravissimo pregiudizio
per la sua stessa tenuta. Mi rendo conto che in questo dibattito non sono
mancate, almeno da parte mia, affermazioni che dovrebbero essere scontate,
ma il fatto stesso che si sia obbligati a ribadire taluni elementari principi
segnala che se ne è andata smarrendo la percezione: occorre, in realtà,
ripetere con forza che la tutela della giurisdizione (dell’autonomia dell’interprete
e, quindi, del pluralismo) non costituisce momento di protezione di una
categoria, così da porla al riparo dagli altri poteri, ma esige al contrario
che proprio questi poteri ne assimilino appieno i valori fondanti e siano
in prima linea nel difenderla quale strumento di realizzazione delle libertà
e dei diritti dei cittadini. In effetti - e concludo - una giurisdizione
per così dire "sfiduciata" costituisce, sì, un gravissimo problema per
i magistrati (la cui funzione è resa oltremodo pi difficile e rischia
di andare incontro a fenomeni di disaffezione), ma rappresenta soprattutto
un momento di allarmante indebolimento delle tutele individuali e collettive
ed è, pertanto, destinata ad alimentare un diffuso malessere sociale che
potrebbe tradursi, in mancanza di un’immediata inversione di tendenza,
in un processo di perdita di rappresentatività dello stesso sistema istituzionale.Intervento del consigliere Nello Rossi1. Una occasione di riflessione vera, reale, da non perdere. La magistratura
italiana è una realtà riflessiva che non smette di porsi interrogativi
razionali e di cercare soluzioni anche nei momenti di maggiore tensione
(e ne ha vissuti molti in questi anni). Perciò le domande che il Csm
deve porsi nel plenum straordinario di oggi vanno al di là dei pur giusti
contenuti della risoluzione. In particolare mi chiedo : in che cosa hanno
sbagliato in questi ultimi mesi politica e magistratura? Una politica
saggia e lungimirante dovrebbe sentire la "responsabilità" di assicurare
alla giustizia leggi chiare ed efficaci, mezzi adeguati, un clima di serenità
istituzionale. La magistratura, dal canto suo, non dovrebbe mai smettere
di guardare criticamente al suo interno per individuare carenze ed inefficienze
del servizio che rende ai cittadini e vedere la sua parte di responsabilità.
Sarebbe necessario dar vita ad un circolo virtuoso tra una politica responsabile
ed una magistratura continuamente capace di analisi critica sul proprio
operato. Oggi, invece, si è innescato un terribile circolo vizioso. Una
larga parte della politica non assume responsabilità per il funzionamento
della giustizia ed anzi usa spregiudicatamente lentezze e disfunzioni
della macchina giudiziaria e del processo per attaccare la magistratura.
E francamente lo scopo perseguito non sembra essere quello di migliorare
la giustizia ma di piegarla. La magistratura, a sua volta, sentendosi
aggredita e denigrata , si chiude a riccio, in una difesa di principi
che il cittadino comune rischia di non comprendere perch nei suoi contatti
con i tribunali soffre il disagio di una giurisdizione inefficiente. La
ripresa di un "dialogo responsabile" sui temi della giurisdizione è l’unica
via d’uscita da una impasse che rischia di distruggere un bene essenziale
della collettività. E’ questo il senso vero e pi alto delle parole del
presidente Ciampi sulla giustizia che vanno comprese e non stiracchiate
da tutti i lati per estrarne solo i significati che pi ci piacciono.2. Due obiettivi. Indico questa prospettiva - politica - di una paziente
ripresa del dialogo istituzionale nonostante che io senta - come tutti
o come molti di noi - che il livello dell’attacco all’indipendenza è oggi
divenuto insopportabile. Se si trattasse solo dell’onore professionale
dei magistrati non ci sarebbe spazio per la ripresa del dialogo. Ci sarebbe
posto solo per la ripulsa, per l’indignazione. Ma noi siamo l’organo di
governo autonomo della magistratura ed abbiamo il dovere di fare tutto
ciò che è in nostro potere per raggiungere due obiettivi. Il primo obiettivo
è quello di garantire alla magistratura in qualsiasi congiuntura, anche
la pi difficile, un buon governo cioè condizioni di serenità e di indipendenza,
di trasparenza e di efficienza Il secondo obiettivo è far sì che la magistratura
fornisca ai cittadini la migliore giustizia possibile nelle condizioni
organizzative date. Per realizzare questi obiettivi abbiamo il dovere
di fare in fondo il nostro mestiere e di collaborare instancabilmente
con tutti.3. Ciò che il Consiglio può fare da solo: restituire serenità ai magistrati.
La risoluzione oggi proposta mira realizzare il primo di questi obiettivi
:restituire serenità ai magistrati. Per questo essa è un atto di denuncia
forte di una situazione non pi sostenibile ma è, al tempo stesso, un
messaggio di calma e di forza istituzionale che inviamo a tutti i magistrati
in sintonia con le parole del Capo dello Stato. Ai magistrati diciamo di
continuare ad amministrare giustizia come hanno fatto fino ad ora lasciando
fuori dalla porta le pressioni ed i clamori interessati di una parte della
politica. Come in altri momenti difficili - e ve ne sono stati - il Consiglio
non si farà deviare da una linea di rigorosa e puntale difesa della indipendenza
di giudizio dei magistrati e di salvaguardia di una libera e responsabile
interpretazione della legge. E se sarà necessario io credo che il Consiglio
non dovrà arretrare di fronte alla prospettiva di adottare forme di presenza
e di testimonianza molto forti e visibili, capaci di richiamare l’attenzione
dell’opinione pubblica sui temi della indipendenza Il testo della risoluzione
sottoscritta da 26 Consiglieri spiega le ragioni del silenzio dapprima
serbato dall’organo di autogoverno e successiva decisione di prendere
la parola. Sono oggi revocate in dubbio e violentemente contestate la
autonomia e la libertà a condizionamenti della attività di interpretazione
delle norme e dei fatti, che costituiscono il nucleo centrale e vitale
della giurisdizione. Siamo ormai a questo punto : che ogni dissenso rispetto
ad una impostazione del pubblico ministero o ad una decisione del giudice
fa gridare non solo all’errore ma all’errore colpevole, meritevole di
punizione. E del pari ogni sentenza di riforma (beninteso in senso pi
favorevole agli imputati eccellenti e nei processi che contano) si trasforma
nella prova del dolo, della malafede o della colpevole ignoranza dei
primi giudici. Dietro ai toni striduli di chi ha chiesto l’arresto dei
magistrati c’è questo meccanismo di pensiero, o meglio questo riflesso
condizionato. Un paese che si vanta di essere stato luogo di nascita del
diritto sembra aver dimenticato le regole fondamentali di uno Stato di
diritto. Di qui un pronunciamento del Csm che su questo terreno ribadisce
i principi ed i canoni dello Stato democratico di diritto.4. Ritessere un rapporto accettabile tra politica e giustizia. L’altro
obiettivo - ritessere un rapporto accettabile tra politica e giustizia
- non può essere realizzato dal solo Consiglio. Non credo che a questo
scopo basti un "tavolo" di incontro come ha proposto il Ministro Frattini.
Occorre molto di pi. Occorrono costante volontà e capacità di ascolto
da parte di tutti, rispetto delle prerogative di ciascuno. Mettendo al
bando coloro che impiegano tutte le loro energie per ostacolare un processo
di ricostruzione di un comune sentire sulla giustizia. Il sottosegretario
Taormina fa danni non solo perch, facendo la voce grossa, rischia di
intimidire qualche magistrato che non lo conosce personalmente e che non
ne apprezza come me la vitalità, l’energia, il dinamismo e la tempra di
combattente non sempre vittorioso nei processi. Egli fa danni perch ogni
sua sortita costituisce un macigno sulla via di un dialogo possibile tra
una magistratura non corporativa ed una politica responsabile. E’ questo
che gli addebito assi pi delle sue intemperanze verbali. C’è bisogno
di ritrovare un linguaggio comune che è quello del diritto, delle sue
regole fondamentali, non piegate alle esigenze di parte. Ciò vale anche
per il dialogo con il Ministro della giustizia. Nei giorni scorsi il Ministro
Castelli ha dichiarato che per alcuni consiglieri lui sbaglia sempre.
Non è vero. Se ha letto, ad esempio, ciò che abbiamo detto su di un tema
non secondario, la sua proposta di riforma del sistema elettorale del
Csm, il Ministro dovrà prendere atto che non sono mancati riconoscimenti
positivi del Consiglio su alcune scelte (ad esempio il mantenimento dell’unità
del corpo elettorale e le intenzioni di salvaguardare pluralismo e rappresentanza
delle minoranze) e sulle correzioni di alcune scelte (ad esempio l’abbandono
del sistema del voto singolo trasferibile) . . Nessuno ha interesse a
nascondere i motivi di dissenso che sono molti e gravi. Ma nessuno può
occultare i punti di accordo che razionalmente sono emersi e che smentiscono
ogni rozza rappresentazione del muro contro muro tra politica e giustizia.
In conclusione il plenum deve inviare all’esterno questi due messaggi.
Dire ai magistrati che non hanno nulla da temere se esercitano con indipendenza
le loro funzioni e che il Csm è presidio vigile e costante della loro
indipendenza. Sollecitare un dialogo con la politica, ma anche con l’avvocatura,
con la cultura universitaria su questioni di giustizia che non possono
pi essere eluse e meritano di essere affrontate in un clima diverso da
quello attuale.