Parere sul decreto legislativo concernente gli illeciti disciplinari dei magistrati

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Parere_DISCIPLINARE

Parere sul decreto legislativo concernente
gli illeciti disciplinari dei magistrati

Schema di decreto
legislativo recante "Disciplina degli illeciti disciplinari
dei magistrati e delle relative sanzioni e della procedura per la
loro applicazione, nonch modifica della disciplina in tema di
incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento
d'ufficio dei magsitrati, in attuazione degli art. 1, co. 1, lette F)
e dell'art. 2, co. 6 e 7, della L. 25 luglio 2005, n. 150
"

PARTE PRIMA: Gli
illeciti disciplinari

§ 1. Premessa
- Lo schema di decreto legislativo consta di 33 articoli divisi in
quattro capi, rispettivamente dedicati a: I) normativa di diritto
sostanziale sulla responsabilità disciplinare, II)
procedimento disciplinare, alle incompatibilità, III) dispensa
dal servizio e trasferimento d'ufficio, IV) disposizioni finali ed
ambito di applicazione.
Il primo capo, relativo
alla disciplina di diritto sostanziale,è diviso in due
sezioni, una dedicata agli illeciti disciplinari (artt. 1-5) e
l'altra dedicata alle sanzioni disciplinari (artt. 614).
La prima sezione, in
attuazione della legge delega, fissa la disciplina sostanziale
procedendo alla tipizzazione degli illeciti disciplinari dei
magistrati secondo le linee tracciate dalla legge delega, in molti
casi ricalcando letteralmente i principi da quest'ultima enunziati,
distinguendo le condotte inerenti l'esercizio delle funzioni
giudiziarie da quelle estranee ad esse, con la previsione di norme di
chiusura per garantire completezza alla normativa.
Al riguardo debbono
essere preliminarmente richiamati i rilievi già avanzati dal
C.S.M. con il parere formulato il 15.7.04 a proposito del secondo
"maxiemendamento" al d.d.l. di riforma dell'ordinamento
giudiziario, i quali per il carattere in molti casi ripetitivo della
bozza di decreto legislativo, mantengono tutta la loro attualità.
Deve, pertanto, rimarcarsi che la tipizzazione dell'illecito, se da
un canto costituisce un momento di garanzia in un sistema di
responsabilità disciplinare perch attua il principio
nullum crimen sine lege, dall'altro deve consentire una
sufficiente determinazione delle fattispecie disciplinari, nel
contempo evitando puntigliose e troppo rigide tipizzazioni che
riducono il necessario spazio valutativo al giudice disciplinare e,
in qualche modo, sono destinate a condizionare anche il comportamento
dei magistrati.
§ 2. Doveri
del magistrato (art. 1 dello schema di d.lgs, in relazione all'art.
2, c. 6, lett. b, nn. 1-2-3 della legge delega)
-
L'art. 1
dello schema di d.lgs. è dedicato ai "doveri del
magistrato" e prevede una sorta di catalogo dei doveri
fondamentali cui devono attenersi i magistrati. Si tratta di principi
e valori deontologici essenziali per chi esercita la funzione
giudiziaria la cui inclusione nella norma è doverosa e ovvia
al tempo stesso.
Nel primo comma vengono
richiamati doveri quali quelli di imparzialità, correttezza,
diligenza, laboriosità, riserbo, equilibrio nonch di
rispetto della dignità della persona, che costituiscono
principi fondamentali da osservare nell'esercizio delle funzioni di
magistrato. Al riguardo lo schema di decreto ricalca pressoch
integralmente il testo legislativo; tuttavia, sarebbe auspicabile una
migliore formulazione dei concetti di "correttezza" e
"riserbo", precisando che comunque deve essere fatto salvo
il diritto di manifestare il proprio pensiero, di cui il magistrato
gode al pari di ogni altro cittadino, secondo l'affermazione fattane
dalla Corte costituzionale (sentenza n. 100/81).
Deve notarsi che fra i
doveri del magistrato nell'esercizio delle funzioni risulta omesso
ogni riferimento all'indipendenza che è dovere fondamentale.
Una riaffermazione di tale principio costituzionale rafforzerebbe il
carattere doveroso delle regole di comportamento fissate per il
magistrato, atteso che l'indipendenza non è un privilegio ma
un dovere e, correlativamente, costituisce un diritto ed una garanzia
per i cittadini.
Il secondo comma
individua i doveri che il magistrato deve osservare anche fuori
dell'esercizio delle proprie funzioni
, precisando che non deve
tenere comportamenti, ancorch legittimi, che compromettano la
credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato
o il prestigio dell'istituzione giudiziaria.
§ 3. La
condotta disciplinarmente rilevante (artt. 1, c. 3, e 2 della bozza
di d lgs.)
- Il c. 3 dell'art. 1 afferma che le violazioni
dei c. 1 e 2 costituiscono illecito disciplinare perseguibile nelle
ipotesi previste dai successivi artt. 3, 4 e 5. La disposizione
intende dare attuazione al principio di tassatività degli
illeciti disciplinari e pi in generale al principio di
legalità nel giudizio disciplinare, secondo cui i magistrati
non possono essere sottoposti a procedimento e a sanzione
disciplinare se non nei casi e nelle forme previste dalla legge.
Deve comunque notarsi
che, sia per quanto riguarda i doveri nell'esercizio delle funzioni
che per quelli da osservare fuori dell'esercizio delle stesse, i
valori e principi richiamati corrispondono sostanzialmente a quelli
affermati (seppure non con valore normativo) nel c.d. codice
deontologico elaborato dall'ANM ed alla giurisprudenza della sezione
disciplinare del Consiglio.
Il successivo art. 2
dello schema di decreto prevede una sorta di principio di offensività
nell'illecito disciplinare in quanto, sotto la rubrica "condotta
disciplinarmente irrilevante
", esclude la configurabilità
dell'illecito disciplinare quando la condotta non incide
negativamente, in concreto, sulla credibilità, il prestigio e
il decoro del magistrato o sul
prestigio
dell'istituzione giudiziaria. Tale disposizione persegue l'obiettivo
di temperare gli effetti dell'introduzione combinata della
tipizzazione e dell'obbligatorietà dell'azione disciplinare
(per assicurare la "ragionevolezza del sistema sanzionatorio",
secondo la relazione di accompagnamento), ma non è prevista
dalla legge delega, n  giustifica da mera necessità
di integrazione o coordinamento.
Al riguardo deve
osservarsi che mentre la rubrica dell'art. 2 fa riferimento alla
irrilevanza della condotta, in modo da far ritenere che l'indicazione
riguardi i profili e le caratteristiche oggettive del comportamento
del magistrato, il testo della norma sembra improntato invece a dare
attuazione al principio di offensività laddove prevede che,
qualora la condotta non leda in concreto la credibilità e il
prestigio del singolo magistrato o dell'ordine giudiziario, non
sussiste l'illecito.
Seguendo l'indicazione
testuale della norma potrebbe ritenersi che essa sia applicabile
anche ad una condotta disciplinarmente rilevante, anche grave,
qualora non conosciuta e che potrebbe non riverberarsi all'esterno al
punto da non incidere negativamente sulla credibilità e il
prestigio del magistrato. L'accentuazione sulla inidoneità in
concreto ad incidere negativamente sui valori richiamati potrebbe far
assumere un rilievo preponderante, se non esclusivo, alla risonanza
degli eventi rispetto alla oggettiva gravità degli stessi.
Di contro, una lieve
violazione formale dei doveri d'ufficio (soprattutto se
esteriorizzata da campagne denigratorie) potrebbe rendere impossibile
l'applicazione del criterio di ragionevole irrilevanza cui il
legislatore ha inteso ispirarsi. Meglio sarebbe attenersi anche al
criterio di oggettiva valutazione della condotta in s
considerata relativamente all'osservanza dei doveri del magistrato e
non solo al prestigio ed alla credibilità.
La giurisprudenza della
Sezione disciplinare del Consiglio offre elementi di riflessione in
questa direzione laddove concentra la sua attenzione sulla intrinseca
rilevanza oggettiva del fatto rapportata con altri elementi di
valutazione. In tema, ad esempio, di ritardo nel deposito dei
provvedimenti la giurisprudenza della Sezione, accolta anche dalle
Sezioni unite civili della Suprema Corte di cassazione, ritiene che
anche non occasionali episodi di ritardo nel deposito di
provvedimenti e sentenze, che possono potenzialmente incidere
negativamente sul prestigio del magistrato, possono essere ritenuti
non disciplinarmente rilevanti ove trovino causa nell'impegno
particolare del magistrato nell'attività di ufficio, ove
caratterizzato da alta laboriosità e da insufficienza di
strutture di supporto. Mentre la stessa giurisprudenza è nel
senso che a fronte di una grave violazione dei doveri del magistrato
è irrilevante che egli, per i pi vari motivi, abbia
continuato a godere dell'apprezzamento sociale.
§ 4. Illeciti
disciplinari compiuti dal magistrato nell'esercizio delle funzioni
(art. 3 dello schema di d.1gs, in relazione all'art. 2, c. 6, lett. b
e c della legge delega
) - L'art. 3 dello schema di
decreto elenca le ipotesi di illecito disciplinare relative a
condotte tenute nell'esercizio delle funzioni giudiziarie. Come già
rilevato, lo schema di decreto ricalca ampiamente i termini, anche
testuali, della legge n. 150 del 2005; pare, dunque, opportuno
richiamare in questa sede
solo quei punti dello schema che pongono problemi di autonomo
rilievo.
§ 4.1
Violazioni attinenti i doveri fondamentali e, in particolare, il
dovere di imparzialità
- Le prime tre
ipotesi descritte nelle lettere a), b) e c) possono farsi risalire a
violazioni del dovere di imparzialità intesa come valore
cardine della funzione giudiziaria. La prima di queste ipotesi,
relativa ai "comportamenti che, violando i doveri di cui
all'art. 1, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle
parti
", nel riprendere testualmente il disposto della legge
delega potrebbe destare equivoci, in quanto si potrebbe verificare
che l'errore dovuto a negligenza e il ritardo dovuto a difetto di
rendimento, pur di significato oggettivamente modesti, potrebbero dar
luogo a danno o vantaggio per una delle parti, a prescindere da ogni
intenzionalità del magistrato, il che violerebbe il principio
della proporzionalità tra il comportamento e la sanzione
irrogata, atteso che per questo tipo di violazioni l'art. 13 prevede
la sanzione minima della censura.
Analogamente pare che la
violazione del dovere di imparzialità non può
prescindere da profili in qualche misura intenzionali.
§ 4.2
Violazioni del dovere di correttezza
- Il secondo gruppo
di comportamenti, riportati dalle lettere d), e) ed f) dell'art. 3,
può farsi risalire alla violazione del dovere di correttezza.
La prima ipotesi che apre la previsione normativa in esame,
rappresentata da "i comportamenti abitualmente o gravemente
scorretti nei confronti delle parti, dei loro difensori, dei
testimoni o di chiunque abbia rapporti con il magistrato nell'ambito
dell'ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o
di collaboratori
'; evidenzia quelle carenze di determinatezza
evidenziate in premessa. Si tratta di una disposizione con tutta
evidenza di carattere strategico in quanto paradigmatica
dell'attività svolta nell'assolvimento della funzione
giurisdizionale stessa.
La genericità
della formulazione adottata - testualmente ripresa dal testo della
legge delega e che avrebbe dovuto essere superato in sede di
redazione del decreto legislativo - appare foriera di ricadute
disciplinari di comportamenti di carattere temperamentale o
caratteriale che pi propriamente rileverebbero ai fini della
valutazione di professionalità del magistrato, ma che sono
estranei alla deontologia professionale perch non pervengono
alla violazione dei doveri di correttezza interpersonale. Con una
precisazione sicuramente consentita dalla formulazione del
principio-base della legge delega, sarebbe quindi meglio limitare la
previsione ai comportamenti gravemente scorretti, lasciando
all'interprete di individuare eventualmente nell'abitualità
uno dei possibili fattori della gravità.
Sarebbe inoltre utile
porre in rilievo, nella maniera pi appropriata, che la
violazione del dovere di correttezza si ha principalmente nei casi in
cui il comportamento del magistrato viola il rispetto dovuto alla
dignità della persona, nell'esercizio delle funzioni
giudiziarie.
§ 4.3
Violazioni del dovere di diligenza
- Gran parte delle
ipotesi previste dalla lettera g) alla lettera p) attengono alla
violazione del dovere di diligenza.
La fattispecie della
"grave violazione di legge determinata da ignoranza o
negligenza inescusabile
" deve essere letta assieme alla
disposizione del c. 2 dello stesso art. 3, per la quale "l'attività
di interpretazione di norme di diritto in conformità dell'art.
12 delle disposizioni sulla legge in generale non dà mai luogo
a responsabilità disciplinare
". Da tale lettura
discende che tutto ciò che è interpretazione della
legge, intesa in senso sostanziale e non formale, non può
essere violazione di legge e non può quindi dar luogo a
responsabilità disciplinare. Ciò ovviamente non esclude
che l'attività di interpretazione ed applicazione del diritto
sia un'attività il cui carattere di discrezionalità sia
senza limiti, ma comporta che la definizione normativa (ai fini
disciplinari) della violazione di legge deve comprendere nel campo
dell'interpretazione tutta l'area della discutibilità,
riservando il campo della violazione di legge disciplinarmente
rilevante solo all'area di ciò che è fuori
dall'interpretazione.
Conferma a questa
impostazione è data dall'utilizzo dell'aggettivo "grave",
che sembra alludere non tanto all'importanza della norma violata e
all'entità della lesione prodotta, quanto la gravità
dell'errore e cioè anche al suo carattere macroscopico,
riconoscibile come tale senza possibilità di dubbi o
discussioni. In questo senso, la qualificazione "grave" si
ricollega alla "ignoranza o negligenza inescusabile"
(lett. g), nel senso che sarà da considerarsi grave quella
violazione di tale natura ed entità da poter essere spiegata
solo in quanto frutto di grave negligenza e non come risultato di una
consapevole scelta interpretativa.
Valutazioni di carattere
analogo possono essere effettuate a proposito del "travisamento
dei fatti determinato da negligenza inescusabile
" (lett. h),
dal quale dovrebbe essere esclusa la fisiologica attività
valutativa del fatto.
La fattispecie della
"emissione di provvedimenti privi di motivazione, ovvero la
cui motivazione consiste nella sola affermazione della sussistenza
dei presupposti di legge senza indicazione degli elementi di fatto
dai quali tale sussistenza risulti, quando la motivazione è
richiesta dalla legge
" (lett. 1),è inserita dalla
relazione di accompagnamento tra i casi in cui il magistrato compie
attività tipiche della propria funzione in violazione delle
"norme sostanziali o processuali che avrebbe dovuto osservare,
dimostrando, tra l'altro, un'intollerabile negligenza e
superficialità nell'effettuare analisi e valutazioni sul piano
del fatto e del diritto". Sembrerebbe, pertanto, che
l'intenzione del legislatore delegato sia quella di colpire non tanto
la fattispecie della "motivazione apparente", quanto la
mancanza di motivazione nascente da valutazione dei fatti e delle
ragioni di diritto.
Tale, intento, non è
desumibile dalla formulazione della norma (che anche qui ricalca
testualmente la legge delega), la quale sembra fermarsi al dato
formale della motivazione testuale. Rimarrebbero, pertanto, colpiti
quei provvedimenti (come le convalide degli arresti in flagranza o,
per i giudici civili, i decreti ingiuntivi) che per prassi constano
di una succinta motivazione, pur nascendo da una attenta disamina del
fatto.
§
4.4 Violazione del dovere di laboriosità - Le
violazioni del dovere di laboriosità sono individuate dalle
ipotesi di cui alle lettere da q) a t); la prima ipotesi attiene al
reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli
atti relativi all'esercizio delle funzioni
, con la presunzione
negativa che esclude la gravità nel caso di ritardo non
eccedente il triplo dei termini previsti dalla legge. Le altre
ipotesi descrivono una vasta casistica di condotte rilevanti sulle
quali non vi sono osservazioni significative.
§ 4.5
Violazione dell'obbligo di riserbo
- La violazione
dell'obbligo di riserbo è condensata nelle fattispecie
previste dalla lett. u) alla lett. bb). La divulgazione di atti del
procedimento coperti dal segreto o di cui sia vietata la
pubblicazione è prevista come ipotesi di illecito disciplinare
insieme alla violazione dell'obbligo di riservatezza sugli affari in
corso di trattazione o sugli affari definiti, quando è idonea
a ledere indebitamente i diritti altrui.
Le disposizioni in
questione affermano con assolutezza il principio di riserbo e non
prendono in considerazione i casi in cui il magistrato effettua
dichiarazioni in risposta ad attacchi mediatici oppure per soddisfare
l'esigenza della corretta informazione della opinione pubblica. Tale
esigenza è stata sottolineata in passato dal C.S.M., il quale
ha affermato che è diritto di ciascun magistrato difendere il
proprio prestigio e la propria credibilità in presenza di
denigrazioni diffamatorie che attengano all'esercizio delle funzioni
giudiziarie al fine di garantire una corretta e compiuta informazione
ai cittadini (risoluzioni del 18.4.90, del 19.5.93 e dell' 1.12.94).
Meriterebbe quindi uno spazio la possibilità di fornire
precisazioni e correzioni, fatto salvo evidentemente il segreto
d'ufficio, al fine di ristabilire la verità dei fatti. In
altre parole, ferma restando la affermazione dell'obbligo di riserbo
del magistrato, sarebbe opportuna una formulazione pi attenta
delle disposizioni, che tenga conto delle contrapposte esigenze della
riservatezza e della corretta informazione del pubblico.
Le ipotesi successive
previste dalle lettere da v) a bb) riproducono esattamente la legge
delega e rappresentano una sorta di decalogo delle condotte
disciplinarmente rilevanti in tema di rapporti dei magistrati con i
mass-media. Vengono infatti ad avere rilievo disciplinare le
dichiarazioni o le interviste che riguardino soggetti a qualsiasi
titolo coinvolti in affari in trattazione ovvero trattati e non
ancora definiti con provvedimento non pi ordinariamente
impugnabile. Inoltre vengono vietati i rapporti con gli organi di
informazione al di fuori delle modalità previste dalla legge
delega in favore dei soli Procuratori della Repubblica. Cosò
ancora è vietato sollecitare la pubblicità di notizie
attinenti la propria attività d'ufficio ovvero costituire e
utilizzare canali informativi personali riservati o privilegiati.
Infine non è permesso rilasciare dichiarazioni ed interviste
in violazione dei criteri di equilibrio e di misura.
Al riguardo, come già
segnalato nel parere del 15.7.04, nel fissare queste fattispecie
disciplinarmente rilevante avrebbe dovuto tenersi in considerazione
la sfera delle libertà e dei diritti riconosciuti a tutti i
cittadini, anche se magistrati (cfr. Corte Cost. sent. n. 100 del 7.5.81), in modo da non
porre in antitesi il dovere deontologico con l'espressione di facoltà
costituzionalmente riconosciute al cittadino.
§
4.6 Violazioni intenzionali di doveri funzionali
- Le
ipotesi di cui alle lettere cc) e ff) sono accomunate dal carattere
fuorviante del comportamento del magistrato, che dà luogo ad
un provvedimento consapevolmente alterato nel suo obiettivo
giurisdizionale, perch affetto o da inequivocabile
contraddittorietà (cc), abnormità o da carenza assoluta
di potere (ff).
La prima fattispecie, che
nel testo proposto ricalca integralmente la legge delega, punisce
l'adozione intenzionale di un provvedimento che manifesti
precostituita ed inequivocabile contraddizione sul piano logico,
contenutistico e argomentativo tra il dispositivo e la motivazione.
Essa colpisce una vera e propria deviazione della funzione
giudiziaria e, pertanto, il suo accertamento presuppone lo sviamento
della attività di interpretazione della norma e l'accertamento
dell'intenzionalità del comportamento.
La seconda fattispecie
prevede l'illecito disciplinare nel caso di adozione di
provvedimenti al di fuori di ogni previsione processuale ovvero sulla
base di un errore macroscopico o di grave e inescusabile diligenza
ovvero di atti e provvedimenti che costituiscono esercizio di una
potestà riservata dalla legge ad organi legislativi o
amministrativi ovvero ad altri organi costituzionali
. Tale
formulazione tenta di dare corpo alla previsione della legge delega
che si riferisce ai "provvedimenti abnormi". Tuttavia
l'espressione provvedimenti al di fuori di ogni previsione
processuale è adattabile ai provvedimenti atipici che cioè
non hanno una chiara riferibilità con una previsione
normativa, mentre l'abnormità del provvedimento si ricava
dall'estraneità dell'atto da qualsiasi riferimento processuale
che determina una stasi del procedimento. Meglio sarebbe quindi
prevedere una definizione che consenta di escludere la semplice
atipicità del provvedimento dalle ipotesi disciplinarmente
rilevanti.
In quest'ultimo caso
sarebbe stata opportuna una ulteriore precisazione definitoria, per
la fissazione di chiari limiti concettuali, precisando, ad esempio,
che non sussiste illecito ove il preteso sconfinamento di potere sia
conseguenza o di una coerente operazione interpretativa della norma
legge, o di una carente formulazione di quest'ultima. In ogni caso
deve farsi notare che l'usurpazione del potere legislativo non è
ipotizzabile allorch il giudice decida un caso singolo e
concreto con effetti limitati alle parti del processo, posto che la
caratteristica della legge è quella di regolare categorie
generali ed astratte di casi con efficacia erga omnes.
§
4.7 Residue fattispecie. La norma di chiusura
- Le
fattispecie sub dd) e gg) riprendono testualmente 1'enunziazione
della prima parte del n. 8 e del n. 10 dell'art. 2, c. 6, lett. c)
della legge delega. Pi complessa si presenta, invece, la
ricostruzione della fattispecie sub ee), che intende riprendere il
principio enunziato dalla seconda parte del n. 8) suddetto.
La disposizione in
questione intende colpire l'omessa comunicazione al CSM delle
situazioni di incompatibilità previste dagli artt. 18 e 19
ord. giud. nuovo testo (introdotto dal
seguente art. 30) e
"delle situazioni che possono dar luogo all'adozione dei
provvedimenti di cui agli artt. 2 e 3 del rAlgs. 31.5.46 n. 511, come
modificati dall'art. 12 del presente decreto
". Tale ultima
formulazione non corrisponde al principio enunziato dalla legge
delega, il quale (seconda parte del detto n. 8) intende sanzionare
l'omissione di segnalazione al CSM non di comportamenti
disciplinarmente rilevanti (come genericamente si legge nella
relazione di accompagnamento) ma (a) dei casi di incompatibilità
determinata da causa incolpevole (da cui può originare, dopo
la modifica dell'istituto, un procedimento di trasferimento di
ufficio in sede amministrativa) e (b) dei casi di "debolezza
di mente od infermità
" da cui, ai sensi dell'art. 3
del rAlgs. 511 del 1946, può derivare la dispensa del
magistrato e (secondo l'innovazione introdotta dalla lett. o)
dell'art. 2, c. 6 della legge), la eventuale sua destinazione nella
pubblica amministrazione. La formulazione del punto ee), invece, per
il richiamo all'art. 12 (che indica quali sono gli effetti della
sanzione della rimozione), risulta o incomprensibile (in quanto la
sanzione della rimozione ha carattere giurisdizionale e non ha senso
la segnalazione al CSM in sede amministrativa degli illeciti che ne
comportano l'irrogazione) o, quantomeno, frutto di un errore di
coordinamento, in quanto sono altre (artt. 28 e 30) le disposizioni
della bozza di decreto legislativo che prevedono la nuova
formulazione degli artt. 2 e 3.
La lett. a) dell'art. 2,
c. 6, della legge delega prevede che il legislatore delegato debba
garantire "comunque la necessaria completezza della
disciplina con adeguate norme di chiusura
". Tale principio è
attuato dall'art. 3 della bozza di decreto legislativo con
l'inserimento del punto hh), per il quale costituisce illecito
disciplinare, in aggiunta alle numerose fattispecie precedentemente
individuate "ogni altra violazione dei doveri di
imparzialità, laboriosità, correttezza e diligenza
".
Onde evitare che vengano frustrati gli obiettivi di certezza nascenti
dalla tipizzazione degli illeciti, questa norma deve essere intesa
nel senso che i "doveri" che in via residuale debbono
essere comunque adempiuti sono quelli affermati dalla legge e,
quindi, dalla fonte legislativa delegata. Considerato, pertanto, che
violerebbe il principio della tipizzazione il richiamo generico ad
ulteriori e non esplicitati "doveri di imparzialità,
laboriosità, correttezza e diligenza", sarebbe opportuno
che la fattispecie sub hh) fosse integrata con la locuzione
"[doveri] ... previsti dal presente decreto".
§ 5. -
Illeciti disciplinari compiuti dal magistrato fuori dall'esercizio
delle funzioni
- L'art. 4 dello schema di decreto elenca le
ipotesi di illecito disciplinare relative a condotte tenute fuori
dall'esercizio delle funzioni giudiziarie, che alterano la
credibilità del magistrato nel consesso sociale. Come già
rilevato, lo schema di decreto ricalca ampiamente i termini, anche
testuali, della legge n. 150 del 2005; anche in questo caso pare,
dunque, opportuno richiamare in questa sede solo quei punti dello
schema che pongono problemi di autonomo rilievo.
Mentre le ipotesi
descritte dalle lettere da a-b-c) ricalcano la casistica maturata in
argomento nella giurisprudenza disciplinare, la fattispecie sub d)
impone una precisazione.
La legge delega (art. 2,
c. 6, lett. d, n. 3) considera illecito disciplinare "lo
svolgimento di attività incompatibili con la funzione
giudiziaria o tali da recare concreto pregiudizio all'assolvimento
dei doveri indicati nella lettera b), nn. 1-2-3
". La
fattispecie sub d) rapporta le "attività
incompatibili" a quelle di cui all'art. 16, c. 1, ord. giud.
(ovvero all'assunzione di uffici pubblici, di impieghi o uffici
privati, all'esercizio di industrie, commerci e libere professioni),
senza tenere conto che alcune delle funzioni (quelle riconnesse agli
incarichi pubblici) ivi previste sulla base della vigente
legislazione hanno perso ogni carattere di incompatibilità e
possono essere espletate dal magistrato in regime di aspettativa
(art. 23 bis dAgs. 30.3.01 n. 165). Onde evitare incertezze, sarebbe
opportuno precisare che il richiamo all'art. 16 lascia salva
l'eventuale disciplina in deroga.
La fattispecie di cui
all'art. 4, lett. e) dello schema di decreto legislativo precisa la
fattispecie descritta dalla legge delega nel senso che per il
magistrato costituisce illecito ottenere prestiti o agevolazioni non
solo dalle parti (ed ai rispettivi difensori) dei processi pendenti
presso il proprio ufficio o altro ufficio del distretto, ma anche da
parti offese, testimoni o soggetti comunque coinvolti in detti
processi. Dato che la norma mira alla tutela della credibilità
del magistrato, dovrebbe essere sanzionata già la semplice
richiesta (e non solo la avvenuta concessione) dell'agevolazione e,
tantomeno, per testi e parti offese detta concessione dovrebbe essere
limitata (come invece fa la norma delegata) alla sussistenza di
"condizioni di eccezionale favore".
Quanto alla
manifestazione di consenso o dissenso in ordine a procedimenti in
corso di cui alla lettera f) la formulazione rappresenta una sintesi
fra valori contrapposti. Il valore che la previsione è qui
diretta a tutelare è soltanto la libertà di decisione
di chi esercita la funzione giudiziaria e non il suo "prestigio",
la sua tranquillità o il suo desiderio di non essere criticato
o discusso. In questo senso, a differenza della ipotesi di cui
all'art. 3 lettera v), la norma appresta un bilanciamento tra il
principio fondamentale della libertà di manifestazione del
pensiero e il principio dell'autonomia della funzione giudiziaria.
Quanto alle ipotesi sub
h) ed 1) si fa riferimento a categorie generiche quali l'iscrizione o
la partecipazione a centri politici che possono condizionare
l'immagine del magistrato. Mentre è legittima la previsione
del divieto di iscrizione ai partiti politici,è poco chiara
la definizione del coinvolgimento in attività di centri
politici diversi dai partiti, di modo che del concetto potrebbero
darsi interpretazioni oscillanti, condizionate da fattori esterni che
poco attengono alla credibilità del magistrato.
Per quanto riguarda la
norma di chiusura di cui alla lettera 1), che contiene il riferimento
all'apparenza come fattore ulteriormente qualificante i valori
di indipendenza, terzietà e imparzialità, onde evitare
confusioni di carattere concettuale sarebbe bene dare corpo alla
precisazione contenuta nella relazione di accompagnamento, ove è
fatto esplicito riferimento alla giurisprudenza disciplinare per la
quale il magistrato non solo deve essere imparziale, ma deve apparire
comunque tale in tutti i suoi atteggiamenti pubblici e privati.
§ 6. Illeciti
disciplinari conseguenti a reato
- L'art. 5 del decreto
individua gli illeciti disciplinari conseguenti al reato
riproducendo, sostanzialmente, la legge delega. Va segnalato però
che nella lettera d) di tale articolo si prevede una clausola di
chiusura secondo cui costituisce illecito disciplinare qualunque
fatto costituente reato idoneo a ledere l'immagine del
magistrato. Anche in questo caso si fa ricorso ad un criterio
generico come l'immagine del magistrato che non è, peraltro,
previsto dalla legge delega, la quale fa invece, riferimento ai
fatti-reato idonei a compromettere la credibilità del
magistrato.

PARTE SECONDA: Le
sanzioni disciplinari

§ 1.
L'apparato sanzionatorio. Il concorso degli illeciti
- La
seconda sezione dello schema di d.lgs. (Delle sanzioni
disciplinari
, artt. 6-14), in attuazione dei principi enunziati
all'art. 2, c. 6, lettere f-g-h-i-1-m, della legge delega, fissa
l'apparato sanzionatorio della riforma della responsabilità
disciplinare.
La legge delega
introducendo l'applicazione del criterio tale crimen talis poena,
come conseguenza della tipizzazione degli illeciti, parallelamente,
affronta un problema nuovo in materia di responsabilità
disciplinare, quale quello della individuazione della sanzione da
irrogare nel caso di concorso degli illeciti.
La legge stessa affronta
il problema in termini generici, in quanto si limita ad affermare che
"quando, per il concorso di pi illeciti disciplinari,
si dovrebbero irrogare pi sanzioni meno gravi, si applichi
altra sanzione di maggiore gravità, sola o congiunta con
quella meno grave se compatibile
" (art. 2, c. 6, lett. g, n.
7). L'art. 6 dello schema di d.lgs., invece, dopo aver riportato le
sanzioni fissate dalla legge delega (ammonimento, censura, perdita
dell'anzianità, incapacità temporanea a esercitare un
incarico direttivo o semidirettivo, sospensione dalle funzioni da tre
mesi a due anni, rimozione, c. 1), affronta la materia del concorso
prendendo in esame due ipotesi (c. 2): a) la commissione di pi
illeciti disciplinari con una pluralità di azioni od omissioni
(concorso materiale: "... quando per il concorso di pi
illeciti disciplinari si debbano irrogare pi sanzioni

..."); b) la commissione di pi illeciti disciplinari con
una sola azione od omissione (concorso formale: "... quando
pi illeciti disciplinari, commessi in concorso tra loro, sono
puniti
... "). Circa la compatibilità delle sanzioni
da cumulare si rinvia al seguito a proposito della disciplina
generale delle sanzioni.
La distinzione
concettuale è opportuna e doverosa in un sistema ormai
tipizzato; tuttavia, qualche dubbio solleva la soluzione adottata sul
piano sanzionatorio. Infatti, per il concorso materiale è
presa in esame solamente l'ipotesi che debbano irrogarsi pi
sanzioni di gravità diversa (con la conseguenza della
applicazione della sola sanzione prevista per l'infrazione pi
grave) e non anche quella che debbano irrogarsi pi sanzioni
della stessa gravità. Per il concorso formale è,
invece, presa in considerazione solo l'ipotesi opposta, e cioè
che debbano applicarsi sanzioni della stessa gravità (con la
conseguenza dell'applicazione della sanzione immediatamente pi
grave, sola o congiunta con quella menograve se compatibile), mentre
non viene considerata l'ipotesi che debbano applicarsi sanzioni di
diversa gravità.
Di fronte alla già
rilevata genericità della norma della legge delega, avrebbe
potuto proporsi una disciplina sul piano tecnico meglio articolata,
distinguendosi quanto alla misura della sanzione l'ipotesi in cui la
condotta sia unica da quella in cui la condotta è plurima (in
ragione della diversa intensità dell'elemento soggettivo), ma
prevedendosi che la conseguenza sanzionatoria pi grave
(applicazione congiunta della sanzione maggiore e di quella minore)
fosse prevista per l'ipotesi di concorso materiale (in cui sono poste
in atto pi azioni) e non per l'ipotesi di concorso formale
(in cui l'azione posta in atto è unica).
Ancora priva di
regolamentazione sul piano sanzionatorio rimane, invece, l'ipotesi in
cui pi illeciti di eguale natura siano posti in essere in
tempi diversi, come avviene ad esempio nel caso di ricorrenti
incolpazioni di ritardo nel deposito dei provvedimenti a carico di
magistrati già sanzionati per lo stesso addebito, ove i
ritardi contestati successivamente derivano dall'avere l'incolpato
dovuto prioritariamente sanare i ritardi precedentemente contestati.
In questi casi, pur trovando origine le successive incolpazioni in
una medesima situazione soggettiva dell'incolpato, il giudice
disciplinare dovrà irrogare distinte sanzioni per fatti
oggettivamente tra di loro concatenati.
§
2. Le sanzioni
- Pochi sono i rilievi da effettuare
a proposito della configurazione della sanzioni, atteso che gli artt.
da 7 a 12 e l'art. 13 dello schema di d.lgs. ripetono pressoch
integralmente il testo dell'art. 2, c. 6, rispettivamente lettere g
(con esclusione del n. 7) e h-i-1 della legge delega.
In particolare avrebbe
dovuto essere precisato a livello normativo il contenuto del
"richiamo" e della "dichiarazione formale di biasimo"
in cui si sostanziano rispettivamente l'ammonimento la censura e che
debbono essere contenute nel dispositivo della decisione
disciplinare.
Nulla è,
parimenti, detto circa la "compatibilità" delle
sanzioni, nel senso che, ferma restando la grande divisione tra
sanzioni conservative, espulsive ed interdittive (queste ultime di
nuova introduzione: temporanea incapacità ad esercitare un
incarico direttivo o semidirettivo, art. 10, e sospensione dalle
funzioni, art. 11), non è detto se le misure della stessa
specie (ad esempio ammonimento e censura) siano tra di loro
cumulabili ai fini della sanzione dei reati commessi in concorso. In
proposito va rilevata una lacuna dello schema di d.lgs., atteso che
la legge delega nel far riferimento al cumulo delle sanzioni "se
compatibili", postula un intervento del legislatore delegato
chiarificatore.
Nel ricalcare il testo
della legge delega l'art. 13 dello schema di d.lgs. non apporta
alcuna razionalizzazione al catalogo delle sanzioni applicabili, nel
senso che permane la parziale asimmetria tra le fattispecie tipizzate
all'atto della descrizione degli illeciti e quelle corrispondenti
alle singole tipologie di sanzione. Pertanto, viene lasciato
all'interprete il compito di verificare - al fine di individuare la
sanzione irrogabile - in quale categoria si
colloca l'illecito
accertato, facendo venire meno l'automatismo auspicabile in una
materia cosò delicata quale il rapporto tra illecito e
sanzione.
§ 3. La
sanzione accessoria e la misura cautelare del trasferimento di
ufficio
- Nel prevedere la sanzione accessoria del
trasferimento di ufficio, l'art. 2, c. 6, lett. m) della legge delega
afferma che la sanzione stessa possa essere disposta se la permanenza
nella stessa sede o nello stesso ufficio del magistrato condannato ad
una sanzione diversa dall'ammonimento o dalla rimozione contrasti con
il buon andamento dell'amministrazione della giustizia. L'irrogazione
della sanzione accessoria è obbligatoria "quando
ricorre una delle violazioni previste dal n. 1) della lett. c), ad
eccezione dell'inosservanza dell'obbligo di astensione nei casi
previsti dalla legge e dell'inosservanza dell'obbligo di
comunicazione al CSM, dal n. 1 della lett. d), ovvero se è
inflitta la sanzione della sospensione dalle funzioni
".
L'art. 14, c. 1, dello
schema di d.lgs., che pure in larga parte riprende il testo della
legge delega, nel prevedere le fattispecie cui si applica la sanzione
accessoria, richiama quella prevista "dal n. 1) della lett. c)"
e relative eccezioni, ma tralascia quella prevista "dal n. 1
della lett. d)", ovvero "l'uso della qualità di
magistrato alfine di conseguire vantaggi ingiusti per s o per
altri
", trasfusa nell'art. 4, c. 1, lett. a) dello schema in
esame, che è fattispecie punita con la perdita dell'anzianità
e, quindi, ben pi grave di quella accolta.
L'art. 14, c. 2, in
attuazione dell'art. 2, c. 6, lett. n, prima parte, della legge
delega, introduce la nuova misura cautelare del "trasferimento
ad altra sede
" o della "destinazione ad altre
funzioni
" del magistrato incolpato, che può essere
richiesta dal Ministro o dal Procuratore generale presso la Corte di
cassazione nei casi di procedimento disciplinare per addebiti
punibili con sanzione diversa dall'ammonimento. Sui profili
processuali si rinvia alla parte terza, paragrafo 5.

PARTE TERZA: Il
procedimento disciplinare

§ 1.
Titolarità ed esercizio dell'azione disciplinare.

In attuazione dei
principi dettati dall'art. 2, comma 7 lettera c) nn. 1 e 2, l'art. 15
della bozza di decreto delegato prevede che l'azione disciplinare è
promossa obbligatoriamente dal procuratore generale presso la corte
di cassazione, mentre il ministro della giustizia ha solo facoltà
di promuoverla, mediante richiesta di indagini al procuratore
generale. Al ministro, tuttavia, la nuova disciplina attribuisce una
serie di rilevanti poteri processuali, in quanto lo stesso può:
a) chiedere, nel corso
delle indagini, l'estensione ad altri fatti dell'azione disciplinare
promossa dal procuratore generale (art. 15, 3 comma della bozza
di decreto delegato);
b) chiedere
l'integrazione della contestazione formulata dal procuratore generale
o la modificazione della contestazione stessa nel caso di azione da
lui promossa, dopo aver ricevuto la comunicazione della richiesta di
fissazione dell'udienza di discussione orale del p.g. (art. 18, 3
comma);
c) proporre opposizione
in caso di richiesta di dichiarazione di non luogo a procedere, se ha
promosso l'azione disciplinare o ha chiesto l'integrazione della
contestazione (art. 18, 7 comma);
d) richiedere
direttamente la fissazione dell'udienza di discussione, sempre nel
caso in cui abbia promosso l'azione o abbia chiesto l'integrazione
della contestazione e il p.g. abbia chiesto di dichiarare non luogo a
procedere (art. 18, 8 comma);
e) partecipare, delegando
un magistrato dell'ispettorato, all'udienza (art. 18, 5 comma),
presentando memorie, esaminando i testi, consulenti e periti e
interrogando l'incolpato (art. 19, 1 comma);
f) proporre ricorso per
cassazione (art. 25, 1 comma) e chiedere la revisione (art. 26,
6 comma).
La disciplina dell'azione
disciplinare è completata dalla previsione dell'obbligo di
comunicazione ai titolari dell'azione di ogni fatto rilevante sotto
il profilo disciplinare a carico del c.s.m., dei consigli giudiziari,
dei dirigenti degli uffici, dei presidenti di sezione e dei
presidenti di collegio.
La nuova disciplina pone
tre ordini di problemi in relazione a) alla ricadute
dell'obbligatorietà dell'azione del p.g.; b) all'incidenza
dell'ampio obbligo di "rapporto" disciplinare a carico di
una pluralità di soggetti istituzionali; c) al concorso dei
poteri sostitutivi e/o concorrenti del ministro con quelli del p.g.
la) L'obbligatorietà
dell'azione disciplinare del p.g.

L'obbligatorietà
dell'azione disciplinare mira, in linea di principio, a garantire
l'eguaglianza di trattamento dei magistrati. E' tuttavia evidente che
un regime di obbligatorietà comporta: a) un effetto
incentivante delle denunce e degli esposti dei privati (attualmente
pervengono al c.s.m. e sono trattati dalla prima commissione
referente circa mille esposti ogni anno), che possono essere indotti
a vedere nel disciplinare un anomalo e improprio mezzo di gravame nei
confronti di provvedimenti non graditi, mentre un'ulteriore
dilatazione del numero delle notitiae deriva anche dalla
previsione dell'ampio obbligo di "rapporto"; b) un
conseguente aumento del carico di lavoro della procura generale e
della sezione disciplinare; c) un aumento del numero di magistrati
colpiti da azioni disciplinari, con conseguente effetto intimidatorio
e di spinta al conformismo giurisprudenziale e all'assunzione di un
ruolo meramente burocratico; d) un inevitabile aumento delle
richieste e delle pronunce di proscioglimento rispetto alle
affermazioni di responsabilità, con pregiudizio della
credibilità della stessa funzione disciplinare.
Di tali effetti negativi
dell'obbligatorietà si è ben reso conto il legislatore
delegato che, infatti, come si è già rilevato, sia pure
eccedendo manifestamente dalla delega e con formulazione tecnica non
ineccepibile, ha introdotto con Part. 2 una clausola generale di
irrilevanza disciplinare
delle condotte proprio allo scopo di limitare l'area del
disciplinarmente rilevante.
D'altra parte, al di là
dei pur gravi effetti negativi evidenziati, non può
tralasciarsi di rilevare che in nessun ordinamento conosciuto si
registra un numero di procedimenti disciplinari che, in caso di
entrata in vigore della nuova disciplina, supererebbe il migliaio
ogni anno. In tali ordinamenti, specialmente di quelli europei che
sono pi facilmente conoscibili, lo stesso attuale numero di
procedimenti disciplinari, pari a circa 150 l'anno, costituisce un
unicum che è difficile spiegare. La realtà
che in altri ordinamenti l'area del disciplinarmente rilevante,
inteso come violazione del "minimo etico ",è
molto bene delimitata rispetto a quella della valutazione di
professionalità e, in alcuni casi, rispetto a quella della
deontologia, che raccoglie i precetti, sprovvisti di sanzione, idonei
a far raggiungere i massimi livelli possibili di professionalità
e di credibilità dei magistrati.
Se, pertanto, in mancanza
di interventi che restituiscano al disciplinarmente rilevante il
ruolo proprio di sistema di sanzioni per violazioni del "minimo
etico
",è difficile trovare un accettabile punto di
equilibro tra i "benefici" e i "costi"
dell'obbligatorietà. Tale equilibrio sembra irraggiungibile
quando, come nel caso della nuova disciplina che si sta esaminando,
l'obbligatorietà si cala in una disciplina della tipizzazione
degli illeciti largamente lacunosa, che mantiene numerosi ipotesi di
illeciti generici e non determinati e viene accompagnata da un regime
di facoltatività dell'azione del ministro, che rischia di
sommare i "costi" del regime dell'obbligatorietà con
quelli della facoltatività.
Se invece si riuscisse a
migliorare la disciplina della tipizzazione degli illeciti, superando
le genericità e indeterminatezze concettuali segnalate nella
parte relativa ai profili di diritto sostanziale, meglio sarebbe
ritornare al regime della facoltatività dell'azione per
entrambi i titolari dell'azione disciplinare, in quanto non ne
deriverebbe, sostanzialmente, una diminuzione delle garanzie del
magistrato, assicurate dalla tipicità dell'illecito, ma
sarebbero evitati i "costi" dell'obbligatorietà, che
potrebbero finire per rendere ingestibile il sistema.
1b) L'obbligo di
rapporto disciplinare.

La previsione di un
obbligo di rapporto disciplinare a carico di un'ampia categoria di
soggetti è una scelta del legislatore delegante, e quindi di
quello delegato, che non costituisce una conseguenza necessaria del
dovere di vigilanza. L'inevitabile enfatizzazione del ruolo di
controllo dei dirigenti (ma anche dei presidenti di sezione e dei
presidenti di collegio) ha invece un duplice effetto negativo: da un
lato rischia di introdurre nella vita degli uffici un generalizzato
clima di sfiducia e di diffidenza, dall'altro renderà
difficile che i dirigenti (o i collaboratori) possano conseguire quel
livello di autorevolezza che soltanto può riuscire a ottenere
la necessaria collaborazione di tutti i componenti dell'ufficio,
unica garanzia di un efficiente esercizio del servizio giudiziario.
lc) Il ruolo del
ministro.

L'attribuzione al
ministro, titolare di un'azione disciplinare facoltativa, non di un
autonomo potere di indagine (come pure la lettera della norma
costituzionale consentirebbe), ma di significativi poteri processuali
sostitutivi o concorrenti con quelli del procuratore generale, oltre
agli effetti negativi del concorso di due discipline della titolarità
dell'azione ispirati a logiche opposte, ma con cumulo degli effetti
negativi dell'uno e dell'altro sistema, provoca due ulteriori
inconvenienti.
Da un lato aumenta il
rischio del moltiplicarsi di divergenze e potenziali conflitti tra i
due titolari dell'azione disciplinare, con disorientamento dei
soggetti processuali e dell'opinione pubblica. Dall'altro si
attribuisce al ministro un ruolo di "accusatore" atipico
che, senza sottoporre integralmente la sua azione al controllo del
giudice (visto che le indagini sono attribuite al p.g.) interviene
solo in alcune fasi processuali potenziando in modo anomalo la
funzione di "accusa". Ne deriva un'evidente lesione del
principio della "parità delle armi" proprio di ogni
procedimento giurisdizionale, che deve svolgersi nel rispetto delle
garanzie sancite dall'art. 111 Cost., essendo l'incolpato costretto a
difendersi rispetto a strategie accusatorie imprevedibili e non
convergenti.
§ 2. Termini e
nullità.

Sia la legge delega che
la bozza di decreto delegato si limitano a disciplinare i termini
processuali e le conseguenze dell'inosservanza di tali termini, ma
non affrontano il diverso problema della prescrizione dell'illecito
disciplinare che pure sarebbe stato necessario affrontare. La
conseguenza è che l'illecito disciplinare dei magistrati
continua a rimanere imprescrittibile. Anche se il fenomeno, per
effetto del funzionamento dei termini processuali della decadenza e
quindi dell'estinzione del procedimento, può assumere contorni
pi limitati, resta pur sempre il disagio che deriva dal dover
svolgere procedimenti disciplinari a distanza di tempo rilevante, che
in alcuni casi, in concreto, ha superato perfino i venti anni.
L'art. 16 della bozza di
decreto delegato prevede che l'azione deve essere promossa dal p.g.
entro un anno dalla notizia del fatto, acquisita a seguito
dell'espletamento di sommarie indagini preliminari o di denuncia
circostanziata o di segnalazione del ministro. Mentre la legge delega
(art. 2, comma 7, lettera b) n. 1) prevede che tale termine sia
riferito al promovimento dell'azione disciplinare senza distinguere
tra azione del ministro e azione del p.g., l'art. 16, 1 comma
della bozza di decreto delegato limita l'applicazione del termine al
promovimento dell'azione da parte del p.g., il che, a parte la
mancanza di ragioni di una diversità di trattamento, anche
rispetto alla disciplina attuale che prevede solo un'autonomia dei
due termini, costituisce un chiaro eccesso di delega.
La specificazione della
nozione di "denuncia circostanziata" contenuta nell'ultima
parte del primo comma dell'art. 16 ("la denuncia è
circostanziata quando contiene tutti gli elementi costitutivi di una
fattispecie disciplinare"), non soddisfa pienamente l'esigenza
di ancorare il decorso del termine a un dato obbiettivo e facilmente
verificabile, trattandosi di nozione che implica l'accertamento di
problemi giuridici e di fatto a volte di soluzione non facile. Pi
utile sarebbe stata la previsione di un registro ove iscrivere o
annotare la notizia di illecito disciplinare, analogamente a quanto
avviene nel processo penale, con possibilità del passaggio da
un registro all'altro in ragione dell'esito degli accertamenti o
delle indagini svolte. D'altra parte una previsione di tale natura è
già presente nell'ordinamento (art. 17 del d.p.r. n. 198/2000)
in materia di procedimenti disciplinari, di decadenza e di dispensa,
dei giudici di pace, in quanto si prevede che ogni notizia non
manifestamente infondata concernente fatti di rilievo per
l'instaurazione degli anzidetti procedimenti deve essere iscritta a
cura del presidente della corte d'appello immediatamente in apposito
registro con indicazione degli estremi di essa e del giudice alla
quale si riferisce.
Altri termini riguardano
la comunicazione dell'inizio del procedimento e delle ulteriori
contestazioni all'incolpato, le richieste conclusive del procuratore
generale, la decisione della sezione disciplinare (che passa dagli
attuali due anni a un anno), delle sezioni unite penali della corte
di cassazione e del giudizio di rinvio. Mentre, tuttavia l'art. 16
comma 7, prevede che l'inosservanza dei termini previsti da tale
disposizione (per la promozione dell'azione disciplinare, la
comunicazione dell'avvio del procedimento, la definizione della fase
di indagini e la decisione della sezione disciplinare) comporta
l'estinzione del procedimento, se l'incolpato vi consente, analogo
effetto non è previsto per l'inosservanza dei termini per il
giudizio di cassazione e per quello di rinvio, mentre sarebbe
opportuno non lasciare all'interprete il compito di colmare la lacuna
con un'operazione di integrazione della lacuna normativa di dubbia
correttezza ermeneutica.
Una particolare
disciplina delle nullità prevista soltanto per gli
atti d'indagine compiuti senza previa comunicazione all'incolpato o
al suo difensore, quando tale comunicazione sia prevista dalla legge
(art. 16 comma 5). Tale nullità non può rilevarsi
se non è eccepita con dichiarazione scritta e motivata nel
termine di dieci giorni dalla data in cui l'interessato ha avuto
conoscenza del contenuto di tali atti. Si tratta di un termine
evidentemente molto breve, eccessivamente limitativo del diritto di
difesa.
§ 3. Rapporti
con il processo penale.

Circa i rapporti tra
procedimento disciplinare e giudizio penale l'art.21, comma 2
n.2) lett.b) sancisce l'autorità di cosa giudicata nel
giudizio disciplinare, quanto all'accertamento della sussistenza del
fatto, della sua illiceità penale e dell'affermazione che
l'imputato lo ha commesso, oltre che della sentenza di condanna
irrevocabile, anche della sentenza irrevocabile prevista
dall'art.444, comma 2 c.p.p., in applicazione del principio
introdotto con l'art. 2 della legge n. 97 del 2001 che ha esteso
l'efficacia di giudicato nei procedimenti disciplinari davanti a
pubbliche autorità anche alle sentenze di patteggiamento.
Attiene ai rapporti tra
processo penale a disciplinare anche la previsione, contenuta
nell'art. 17, 4 comma, della non opponibilità del segreto
investigativo al p.g., salvo l'obbligo di segretezza degli atti, nel
caso in cui il Procuratore della Repubblica comunichi che la
divulgazione possa provocare grave pregiudizio alle indagini. In tal
caso il procedimento disciplinare si sospende per analogo periodo. La
norma, tuttavia, non appare condivisibile perch altera il
principio della prevalenza e delle priorità delle esigenze
della repressione penale rispetto a quella disciplinare, esigenze che
non appaiono adeguatamente tutelate dalla breve sospensione di un
anno, insufficiente in caso di indagini complesse. In tal modo è
evidente che l'esito delle indagini penali può essere
definitivamente pregiudicato dalla conoscenza degli atti che dopo
l'anno di sospensione tutte le parti processuali potranno conseguire.
§ 4. I
provvedimenti cautelare.

La disciplina dei
procedimenti cautelari si articola nelle disposizioni di cui agli
articoli 14 e da 22 a 24 della bozza di decreto delegato, mentre
Part. 25 si occupa dell'impugnazione dei provvedimenti di sospensione
obbligatoria e facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio. A questo
proposito deve essere segnalata una evidente lacuna in quanto non è
espressamente prevista l'impugnazione del trasferimento d'ufficio
cautelare, di cui all'art. 14 ultimo comma. Tale misura va a
collocarsi nell'ambito della revisione dell'istituto del
trasferimento di ufficio, che mantiene la sua natura di provvedimento
amministrativo solo per le ipotesi in cui il magistrato sia
incompatibile con la sede per causa incolpevole, mentre per le
ipotesi in cui sia da collegare ad un comportamento intenzionale del
magistrato, assume carattere di sanzione da irrogare all'esito del
procedimento disciplinare.
A differenza che per la
sospensione cautelare dal servizio prevista dagli artt. 22 e 23 dello
schema di d.lgs., per la misura cautelare in esame non è
prevista una procedura di irrogazione. Sarebbero, pertanto, opportuni
o uno spostamento della sedes materiae nella parte del decreto
legislativo dedicata agli aspetti processuali o, quantomeno, un
coordinamento con la procedura prevista per la sospensione cautelare.
Il che, tra l'altro,
avrebbe evitato la lacuna segnalata nella disciplina dei mezzi di
impugnazioni, dovuta a evidente difetto di coordinamento.
Quanto alla sospensione
deve essere segnalata una rilevante differenza della disciplina
processuale, in quanto, mentre per la sospensione facoltativa l'art.
23, 2 comma prevede il rito camerale partecipato, l'art. 22
nulla dice e, pertanto, dovrebbe ritenersi che sia applicabile la
procedura de plano. La scelta, anche se non contrasta
palesemente con alcun principio costituzionale (essendo compatibili
con il principio costituzionale dell'inviolabilità del diritto
di difesa, modelli processuali a contraddittorio eventuale e
differito che adottino lo schema della decisione de plano in
prima battuta, seguita da una fase a contraddittorio pieno, attivata
dalla parte che intenda insorgere rispetto al decisum: v. da
ultimo Corte cost.,5 dicembre 2003, n. 352) non sembra del tutto
opportuna, in quanto, nell'ipotesi di sospensione obbligatoria, se è
molto ristretto l'ambito di valutazione del fumus, resta pur
sempre un ampio margine di discrezionalità nell'apprezzamento
del periculum, e, pertanto, bene sarebbe che la decisione sul
punto fosse preceduta da una fase a contraddittorio di merito pieno,
non apparendo sufficiente il contraddittorio posticipato nel giudizio
di impugnazione che si svolge con i noti limiti del giudizio di
cassazione.
L'art. 24, che disciplina
la cessazione degli effetti della sospensione cautelare, appare
largamente eccedente i limiti della legge delega che, all'art. 2,
comma 7 lettera m) n. 1 afferma che la reintegrazione nella
situazione anteriore alla sospensione consiste nel diritto a tornare
nel posto in precedenza occupato, ovvero, nel caso in cui tale posto
non sia vacante, nella scelta fra i posti disponibili, prevedendo
altresò un diritto di prelazione su altri eventuali
concorrenti a condizione che si tratti posto analogo a quello
originariamente ricoperto e che la scelta avvenga entro un anno dalla
cessazione di efficacia della misura cautelare. La norma della bozza
del decreto delegato, invece, aggiunge una possibilità di
vedersi attribuito, con concorso virtuale, "funzioni di livello
pari a quelle pi elevate assegnate ai magistrati che lo
seguivano nel ruolo al momento della sospensione cautelare, ad
eccezione delle funzioni direttive superiori giudicanti e requirenti
di legittimità e delle funzioni direttive superiori apicali di
legittimità". Non solo, inoltre, la legge delega non
prevedeva questa modalità di reintegrazione, ma anche tale
modalità estranea alla disciplina della restituito
contenuta nelle leggi n. 350 del 2003 e 66 del 2004, richiamate al
primo comma dell'art. 24.
§ 5. Chiusura
delle indagini.

La fase delle indagini,
disciplinata dalle norme del vigente codice di procedura penale, in
quanto compatibili e con l'esplicita esclusione dei poteri coercitivi
nei confronti dell'incolpato, delle persone informate dei fatti e
degli interpreti, si chiude con il deposito degli atti presso la
segreteria della sezione disciplinare e, alternativamente, con la
richiesta di non luogo a procedere o con la richiesta di fissazione
dell'udienza di discussione orale.
Il ministro che abbia
promosso l'azione disciplinare ovvero abbia chiesto l'integrazione
della contestazione ha rilevanti poteri in relazione alle
determinazioni assunte dal p.g. all'esito delle indagini. In merito,
tuttavia la bozza di decreto delegato (art. 18, commi 6-8) detta una
disciplina di difficile comprensione e, comunque, difforme da quella
contenuta nella legge delega (art. 2, comma 7, lettera e), nn. 2-8).
Infatti, mentre la legge delega distingueva tra l'ipotesi di
richiesta del p.g. di declaratoria di non doversi procedere (n. 2) e
richiesta di non luogo a procedere per insussistenza dell'addebito
(n. 6), prevedendo nel primo caso un potere del ministro di proporre
opposizione, da decidere in camera di consiglio, e nel secondo il
potere, insindacabile, di chiedere la fissazione della discussione
orale, la bozza di decreto delegato non distingue tra le due ipotesi,
riconducibili agli schemi della richiesta di proscioglimento per
motivi processuali ovvero a quello della richiesta di proscioglimento
per motivi di merito, pur mantenendo ferma l'alternativa tra
opposizione e richiesta di fissazione dell'udienza di discussione,
con la conseguenza che non è pi facile comprendere la
portata dei due istituti dell'opposizione e della richiesta
(insindacabile) di fissazione dell'udienza di discussione.
§ 6. La
discussione. Carattere inquisitorio del procedimento.

Non ostante che il 4
comma dell'art. 19 della bozza di decreto delegato ribadisca il
rinvio, anche per la disciplina del dibattimento, al codice di
procedura penale vigente, con i consueti limiti della compatibilità
e dell'esclusione dei poteri coercitivi, il procedimento appare in
realtà ben lontano dal modello accusatorio, che, sia pure con
rilevanti limiti, può sostanzialmente

18 01 2006
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