Il modello sociale europeo e il processo costituente

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Tratterò il tema del “modello sociale europeo” alla luce dei primi orientamenti della Convenzione in una prospettiva pi che altro “giuslavoristica”: per la dottrina prevalente (da T. Treu a R. Blanpain) si dovrebbe giudicare questo modello sul lato sostanziale avendo attenzione ai diritti del welfare e del lavoro e sul lato del metodo regolativo alle procedure connesse al cosiddetto “dialogo sociale” che, come vedremo, vanno ben oltre il tradizionale campo della contrattazione collettiva. Secondo un indirizzo che va diffondendosi anche la garanzia dell’accesso ai servizi di interesse generale va compreso nel campo d’indagine.
Ora non può negarsi che fra i due “mali radicali” che affliggono ab origine la costruzione europea, la sua “frigidità sociale“ (come disse Federico Mancini) ed il suo deficit democratico (o comunque la sua incerta “forma di governo”), il complesso processo di ristrutturazione dell’ architettura dell’Unione, cui può darsi un inizio politico con l’ormai celebre discorso a Berlino del ministro degli esteri tedesco J.. Fischer ed un inizio istituzionale con la decisione di avviare i lavori di scrittura di un Bill of rights europeo (anticipata dal rapporto Simitis), si sia incentrato pi sul secondo che sul primo.
Purtroppo il modello sociale europeo ha conosciuto in questi ultimi anni (gli anni del dibattito sulla costituzione) progressi piuttosto limitati, anche se incoraggianti (per il rilievo politico il vertice di Lisbona e per l’aspetto normativo-ideale la stesura della Carta, nonch qualche preziosa acquisizione giurisprudenziale). Pi trascurabile, invece, l’imponente incremento della produzione cartacea con i vari rapporti della Commissione, spesso generici e ridondanti, cui recentemente si è aggiunta la decisione del Giugno scorso di istituire un Vertice sociale trilaterale per la crescita e l’occupazione prima dei vertici europei di primavera.
Il Trattato di Nizza- dal punto di vista del rafforzamento del modello- ha portato a risultati molto modesti che si possono riassumere nell’istituzione nel titolo VII del TCE di sei nuovi settori di intervento:la sicurezza e protezione sociale dei lavoratori,la protezione in caso di risoluzione del contratto di lavoro, la rappresentanza e difesa collettiva compreso la cogestione, le condizioni di impiego dei cittadini dei paesi terzi, la lotta contro l’esclusione sociale e la modernizzazione dei regimi di protezione sociale. Le novità sono però sopratutto di facciata: per l’esclusione sociale e la modernizzazione della protezione sociale (si deve anche sottolineare come il termine modernizzazione sia molto ambiguo e, quindi, fonte di apprensioni fondate) manca la possibilità di adottare direttive concernenti le prescrizioni minime (è da escludere che per questa via, come ha pi volte richiesto il Parlamento europeo e studiosi come P. Schmitter o J. M. Ferry, si possa arrivare ad un basic income dell’ Unione in quanto tale); per i residui quattro settori di nuova introduzione vale la regola dell’unanimità ed è stata aggiunta la clausola per cui non si deve compromettere la facoltà degli stati membri di definire i principi fondamentali del loro sistema di sicurezza sociale. Come ciò si possa conciliare con l’adozione di direttive concernenti prescrizioni minime non è dato sapere; si sono istituite, poi, procedure di coooperazione non tendenti all’armonizzazione legislativa, che saranno, prevedibilmente fonte di ulteriore incremento nella produzione di rapporti che inevitabilmente tendono ad essere ripetitivi e ridondanti (sull’occupazione, sull’esclusione sociale, sulla protezione sociale, sulle relazioni sindacali, rapporti per i Vertici trilaterali ecc.) essendo basati sulle medesime rilevazioni empiriche.
Il manifesto “Per un’europa sociale” del 2000, redatto da gruppo di autorevoli giuslavoristi tra i quali U. Muckerberger, B.Veneziani, B.Bergusson., si è così visto costretto a ribadire le stesse richieste del 1996 e parla di “malaise” dopo Nizza, analoga alla “malaise” dopo Amsterdam. Il trattato di Nizza è giudicato insufficiente se non irrilevante per non aver dato un rilievo giuridico vincolante alla Carta e per avere omesso qualsiasi iniziativa di valorizzazione (anche promozionale) del potere sindacale in europa..In particolare si stigmatizza il mantenimento dei tab per l’azione comunitaria: il diritto di associazione, lo sciopero e le retribuzioni.
Anche la dichiarazione sul futuro dell’Unione annessa al Trattato di Nizza verte sulle questioni “pi tipicamente istituzionali” connesse all’allargamento: se ha senso parlare di lapsus per i documenti ufficiali, allora dovrebbe avere un qualche significato l’omissione dei sindacati dai settori dell’opinione pubblica europea da coinvolgere nel dibattito sul futuro del vecchio continente.
N è cambiato di molto lo scenario negli immediati passi istituzionali dell’Unione. Nel White paper sulla governance l’apprezzabile sforzo- sul quale tornerò- della Commissione di ricercare anche nuove sedi della partecipazione democratica poco o nulla dice sui modi di disciplina, in specifico, degli aspetti sociali (quasi mai l’associazionismo che si vorrebbe integrare nel dibattito democratico è anche quello legato al lavoro): coraggiose, invece, anche se molto generiche, le aperture verso un municipalismo “attivo”, diretto interlocutore degli organi dell’Unione, che potrebbero trovare una loro articolazione pragramatica nella garanzia di alcuni diritti sociali (che la Carta finalmente designa come diritti fondamentali), ove si incardinasse pienamente una competenza comunitaria (reddito minimo e formazione permanente e continua).Il quadro non cambia con la dichiarazione di Laeken ( anche letterariamente un testo di notevole respiro): delle 56 domande nessuna (salvo quelle sul valore della Carta) sembrano dirette ad investire le questioni sociali .L’idea di una “pi precisa ripartizione” delle competenze e quella di una semplificazione e razionalizzazione degli attuali Trattati, che sembrano rappresentare il “collante” delle domande rivolte alla Convenzione, non alludono, certamente, ad una prospettiva di “rivoluzione” dei criteri di regolazione in un campo nel quale i poteri degli stati affondano ancora salde radici, semmai il contrario.
Comunque è totalmente assente nella dichiarazione. di Laeken l’indicazione (cui invece accenna il White paper) per cui la riscrittura delle regole fondamentali si debba misurare anche con lo spazio politico della cosiddetta “ sussidiarietà orizzontale”, ivi compreso la pi tipica delle forme di mediazione della rappresentanza di interessi,l’autonomia sindacale.
Per quanto riguarda le posizioni semi-ufficiali della Convenzione, abbiamo ad oggi lo schema di Giscard, la comunicazione di Prodi (prenderò in esame solo l’intervento ufficiale in quanto lo studio di “fattibilità” , si è precisato, non impegna neppure la Commissione) e i risultati dei gruppi di lavoro.

Per quanto riguarda lo “scheletro” di Giscard (la cui seconda parte concernente le politiche dell’Unione è in bianco) pur nella sua sommarietà -a metà tra il pure contenitore e un indice che finisce con il presentare numerose indicazioni di merito- vanno sottolineate preoccupanti carenze.
Innanzitutto all’art. 2 Giscard sembra rimettere in questione la Carta di Nizza offrendo un elenco dei valori dell’Unione (che sembra non suggerito a mero titolo esemplificativo) diverso da quello sancito nel preambolo della Carta (preambolo che ha un valore ancor pi alto delle singole norme in quanto ne riassume il significato generale). Nel preambolo i valori (saggiamente definiti come indivisibili) sono dignità umana, libertà, uguaglianza,, solidarietà, nonch democrazia e stato di diritto: all’ art. 2 dello “ scheletro” spariscono uguaglianza e solidarietà, mentre figurano tolleranza e rispetto degli obblighi e del diritto internazionale. Non vi è dubbio che la componente “sociale” dei valori comuni sia stata diluita. Se la Carta venisse effettivamente integrata all’art. 6 nel Testo costituzionale, si avrebbe l’effetto comico per cui i valori “ comuni” elencati all’art. 2 sarebbero diversi da quelli menzionati all’art. 6: chi dovesse revocare in dubbio che si tratti veramente di “ valori” condivisi avrebbe una qualche ragione in pi, anche di ordine letterale.
All’art. 3 tra gli obiettivi dell’Unione (anche se l’indicazione sembra questa volta non tassativa visto l’uso del termine “ quali”) è esclusa la parità tra uomini e donne, pur presente all’art. 2 del Tce: sappiamo quanto l’esistenza di un principio di eguaglianza e non discriminazione, anche solo di genere, abbia giocato in senso universalistico nella storia del diritto comunitario, soprattutto in campo sociale.
Sul fronte della cosiddetta “sussidarietà orizzontale” non può non allarmare l’assenza del principio del dialogo sociale da qualsiasi casella, n tale principio può essere inferito dalla pur lodevole inclusione del “principio della democrazia partecipativa”. Non è chiaro altresì perch in questa parte del Trattato fondamentale non si sia sancito il metodo aperto di coordinamento come procedura di valore costituzionale.
Rimane poi il dubbio, del quale la Commissione si è fatta giustamente portatrice, se il criterio della ripartizione rigida di competenze (per materie e non per funzioni o obiettivi) sia per il decollo del “modello sociale europeo” la migliore scelta: le principali iniziative in questa materia hanno, notoriamente, avuto come base non il capitolo sull’occupazione, ma la norma “elastica” che consente l’adozione di misure per evitare forme di social dumping tra stati e storture nel funzionamento del mercato unico. Quel riflesso “benefico” che le politiche di costruzione del mercato unico hanno provocato e continuano a provocare sul piano della garanzia di “trattamenti minimi” sia lavoristici che previdenziali potrebbe essere sterilizzato da una “riscrittura restrittiva“ degli attuali artt. 95 e 308.
Veniamo ora alla comunicazione di Prodi. A parte le formule generali come la proposta di fare della triade “pace,libertà solidarietà” il motto dell’Unione, l’intervento è piuttosto divagante sulle questioni social, solo poche righe. Tra le politiche economiche si suggerisce un mero coordinamento(tali politiche anche per la Commissione resteranno di competenza nazionale); si chiede, ancora, un riscontro nel testo fondamentale del metodo del coordinamento aperto. Non vi è, però, nessun tentativo di sovvertire gli sbarramenti dell’attuale art. 137( nello studio di fattibilità essi vengono tutti ribaditi).
Il baricentro di quello che con una certa esagerazione è stato definito una sorta di “controprogetto quasi—federale”- dell’Unione rimane il riassetto tra i poteri dell’Unione, non il contenuto delle sue politiche.
E’, poi,sintomatico, che n Giscard nel suo scheletro, n Prodi nel suo intervento sentano la necessità di assicurare i cittadini sul fatto che il diritto di accesso ai servizi di interesse generale rientrano nell’offerta di “socialità” e di eguaglianza che l’Unione garantisce.
Per quanto riguarda i risultati dei gruppi di lavoro, non è certo un caso che quello sulle politiche sociali sia rimasta la Cenerentola dei gruppi (anzi, visto il debole mandato per questa materia di Laeken, pare già un miracolo che sia stato aggiunto).
A parte il gruppo sul valore giuridico della Carta, in una panoramica generale c’è da dire che quello sulla governance economica è sostanzialmente fallito e il gruppo sulla sussidiarietà si è occupato di altro rispetto alle questioni sociali. Il gruppo sullo “ spazio di libertà,sicurezza e giustizia” non ha, inoltre, brillato per sensibilità nei confronti di soggetti che già lavorano legalmente all’interno della Comunità : per le politiche dell’immigrazione (già nel primo pilastro) ha escluso che si possa arrivare ad una definizione comune dei diritti minimi degli immigrati residenti, stabilendo una responsabilità uniforme a carico di tutti gli stati (prospettando la solita vaga politica di incentivazione e di sostegno agli stati senza obbligo di armonizzazione), mentre si è dato atto di una allarmante e sinistra convergenza sulla predisposizione immediata di misure di lotta all’immigrazione clandestina anche attraverso sanzioni penali, vista l’inefficacia delle politiche di un singolo stato ( in sostanza si tornerebbe indietro anche rispetto a Nizza)
Il gruppo sulle competenze complementari ha raccomandato che il metodo di coordinamento aperto sia menzionato nel testo fondamentale :dall’elaborato del gruppo nel suo insieme emerge, comunque, una forte spinta a circoscrivere il pi possibile i poteri degli organi dell’Unione ove non vi siano competenze consolidate comunitarie o “ in comproprietà “e a mantenere l’art. 308 in spazi limitatissimi.

Veniamo ora al gruppo sulle politiche sociali, ancora senza una relazione conclusiva ufficiale.

I quesiti sottoposti al gruppo sono in verità molto radicali: riguardano la definizione dei valori e degli obiettivi, la questione delle competenze e delle procedure di applicazione, il problema del coordinamento tra politiche sociali ed economiche, la questione del partenariato sociale e del coordinamento aperto, i servizi di interesse generale.
La discussione sui valori ripeto, è senza senso perch c’è già la scelta della Carta, anche se ha appassionato molto i partecipanti al gruppo che hanno dimostrato di avere grandi incertezze su quali siano i valori sociali dell’Unione.
A parte giuste precisazioni sugli obiettivi dell’Unione che dovrebbero menzionare almeno tutti quelli già ricompresi nei Trattati, il gruppo – a stare al progetto preliminare di relazione- ha espresso una volontà molto conservatrice e decisamente “minimalista”. Non emerge un accordo n sull’ampliamento delle competenze ( che sono giudicate sufficienti) n una decisa indicazione della generalizzazione della procedura della codecisione e della maggioranza qualificata.
Vi è un atteggiamento piuttosto favorevole alla sanzione costituzionale del metodo del coordinamento aperto, vaghe proposizioni sui beni di interesse pubblico e l’affermazione della centralità del partenariato sociale. Il coordinamento tra politiche sociali e economiche andrebbe affidato al Consiglio ed affermato come necessità dalla Costituzione (anche attraverso una figura costituzionale di raccordo).
Quest’ultima è una proposta interessante, ma l’impressione è che sia molto difficile superare il quadro attuale degli artt. 136 e 137: forse solo qualche settore fra quelli ora esclusi potrebbero passare in regime di codecisione.
Insomma il quadro che emerge dalle conclusioni dei gruppi è piuttosto negativo; si rischia attraverso vie talvolta non esplicite (v. gli spunti dei gruppi sulle competenze complementari e sulla sussidiarietà) addirittura un dimagrimento del settore sociale, rinforzando il potere degli stati, anche in via preventiva, di reagire a supposti sconfinamenti nei loro territori e quindi paralizzando misure tempestive dell’Unione per dare soluzione ad urgenti problemi di carattere sociale.

Nell’insieme degli orientamenti sin qui espressi non sembra che si possa risolvere o almeno attenuare la principale disfunzione che affligge il “ modello soc. eur” e ne ostacola il pieno decollo: l’attuale (e da quel che emerge anche futura) incoerente ripartizione delle competenze; quelle di politica economica (quindi la predisposizione dei mezzi) in capo agli stati ma con quelle monetarie requisite a livello sovranazionale, una sorta di comproprietà confusa in materia di welfare e sicurezza sociale (compresa la lotta all’esclusione) ed una comunitarizzazione strisciante della disciplina lavoristica indotta, soprattutto, dal mantenimento del mercato comune, con il rischio tuttavia- come feed back negativo- di una progressiva infiltrazione del diritto commerciale nel diritto sociale. Questa mancata saldatura tra i vari livelli di intervento rende difficilissimo passare da un modello di integrazione “ negativa” ad un modello “positivo” o per dirla con M. D’Antona da un’armonizzazione reattiva ad una armonizzazione coesiva. Gli stati rimangono gelosi dei loro modelli di welfare atteggiandosi a signori della solidarietà e quindi l’intervento dell’Unione non può che apparire- in questi limiti- che come un puntello secondario e privo di originalità. Inefficienze e ritardi connotano inevitabilmente le correzioni di rotta che vengono dall’Unione, con continue rincorse delle innovazioni produttive: basterà pensare alle decine di direttive sulla salute e sicurezza e sulla parità di trattamento di genere. Inoltre i vari piani (che la Convenzione sembra accingersi a mantenere divisi) mal si prestano ad essere colti e disciplinati separatamente (non c’è politica del mercato del lavoro e regolamentazione del rapporto di lavoro che non abbia un’incidenza sullo stato sociale, la sicurezza, l’esclusione e che non presenti un riflesso sui mezzi finanziari): la politica dell’Unione finisce con l’essere un’ idra a mille teste senza un orientamento generale: una macchina che necessita una revisione permanente (forse può essere usata la metafora della nave che viene riparata mentre sta navigando) .
A ciò si aggiunge il mancato varo di una effettiva negoziazione sociale a livello europeo anche per l’ incapacità- ancora una volta un costo spaventoso pagato agli inglesi- di scegliere un modello di associazione e di concertazione sindacale: il restraint imposto all’Unione sulla regolazione dei presupposti della contrattazione collettiva ( diritto di associazione e conflitto sindacale) è in realtà pi grave di quanto possa sembrare a prima vista portando molto spesso all’avvitamento su se stesse delle discipline che provengono dall’Unione per mancanza dei supporti sindacali su cui dovrebbero poggiare. Il sistema del coordinamento aperto, in mancanza di un oggetto negoziale obbligatoriamente in gioco almeno sulle prestazioni minime e nella indeterminatezza e fluidità dei soggetti collettivi coinvolti a forzare la volontà degli stati, non sembra potere arrivare, nonostante alcuni gruppi di lavoro della Convenzione vi insistano ossessivamente, ad uno sguardo di insieme che connetta politica economica e fiscale, politica sociale, diritto del lavoro.
L’invito della CES (questa volta, al contrario di quel che avvenne alla prima Convenzione, con osservazioni molto puntuali) all’intensificazione dell’integrazione istituzionale e politica contestualmente all’intensificazione degli obblighi di solidarietà ( come peraltro aveva anche richiesto L. Jospin con l’idea di un trattato sociale europeo da affiancare ad una Costituzione politica) sembrano destinati a rimanere lettera morta
Per il rilancio del mod.. soc. eur. in questa fase lo strumento principe è quindi l’inserimento della Carta nei trattati che avrebbe effetti simbolici e istituzionali oggi imprevedibili.La pi aperta dottrina costituzionale europea sembra su questa previsione convergere. Da P. Haberle a I.Pernice (ma anche A. Pace nel suo ultimo contributo sulla dichiarazione di Laeken) prevedono che l’inserimento del Bill of rights di Nizza in un Trattato fondamentale dovrebbe implicare- quantomeno in tendenza- la reinterpretazione delle Costituizioni nazionali come costituzioni “parziali”.
Quanto resisterebbero, allora, gli stati al principio “patere legem quam ipse fecisti” che li obbliga, come sottoscrittori della Carta, ad un rispetto in via solidale con l’Unione dei medesimi diritti? Certo l’inserimento della clausola che distingue nell’ambito delle prerogative individuali e collettive della Carta tra diritti in senso proprio e “ principi” ha colto tutti di sorpresa ed è inaccettabile, soprattutto sul piano culturale. In molti si aspettano che verrà rimossa dalla Corte europea, ma è lecito nell’immediato non darlo per scontato, visto che la norma è abbastanza precisa sul ruolo del supremo organo giurisdizionale comunitario.
Tuttavia la sua incidenza, nel campo del diritto del lavoro, già ampiamente “comunitarizzato”, dovrebbe essere minima. Certo è anche deludente che il sistema di tutela giurisdizionale europeo non sarà (come quasi certo) rafforzato (il ricorso per amparo, proposto da moltissime ONG alla Convenzione, avrebbe avuto anche un grande valore simbolico ponendo un nesso diretto tra Corte, cittadino e possesso dei diritti fondamentali).
Tuttavia l’incorporazione della Carta nel Trattato fondamentale consentirebbe di poter superare quella che correttamente M. Luciani ha definito una protezione “ di riflesso” dei diritti socio-economici, non come prerogative soggettive in s e per s perfette ed esigibili ma come effetto indotto, come epifenomeno, della costruzione e del mantenimento di un mercato unico.
Inoltre quanto sarebbe possibile arginare un circolo virtuoso giurisprudenziale tra giudici nazionali, Corti nazionali e le due Corti europee nel dare senso e significato comune alle norme della Carta?
Molto dipenderà dalla committenza sociale, da come sindacati, associazioni, partiti di sinistra, ONG sapranno far decollare una sfera pubblica europea che esprime un’attesa comune di giustizia sociale. Sarebbe vitale da un lato l’elaborazione di piattaforme giurisprudenziali europee (il sindacato è ancora molto lontano da questa impostazione visto che persino l’europeista CGIL si attarda in ipotesi di riforma della subordinazione che non si connettono in alcun modo al dibattito nel resto d’europa), e dall’altro lato che i giudici nazionali effettivamente si identifichino con la loro funzione di organi comunitari e di interpreti di un diritto sopranazionale, che usino del loro terribile potere di disapplicazione del diritto interno in contrasto con quello di matrice europea.
Occorrerà quindi fare ancora moltissimo su questo fronte. La situazione che probabilmente uscirà dalla futura CIG sarà ancora in equilibrio, ma pi sarà salda la cornice istituzionale sovranazionale pi la Corte di giustizia, le Corti costituzionali nazionali e i giudici ordinari saranno spinti allo scambio e alla fusione dei loro orizzonti giurisprudenziali.

Questo riguarda il presente ed il futuro. Tuttavia nonostante, i limiti che abbiamo visto sin qui e la ritrosia degli stati nel dismettere il ruolo di dispensatori di sussidi, nel disegnare i termini di una possibile nuova architettura garantistica propriamente europea, in questi anni si è fatto molto, spesso addirittura dei miracoli.
Se leggiamo nel loro complesso le norme della Carta, alcune direttive già approvate o in corso di approvazione e, soprattutto, le sentenze della Corte (alcune negli ultimi anni sul principio di non discriminazione dei lavoratori precari veramente coraggiose) sembrano emergere linee regolative di una notevole originalità e fortemente innovative.
Assemblando le tre componenti del mosaico- direttive-sentenze e Carta- il modello che faticosamente sta delineandosi è quello di un aggiornamento progressivo dei sistemi di welfare che accantoni la centralità – recependo la letteratura socialdemocratica sull’argomento da U. Beck a A.Giddens, da R. Dahrendorf a C. Offe - del lavoro subordinato di tipo tradizionale, integrando saggiamente l’eliminazione delle forme di discriminazione nel contratto - nella prospettiva di una riforma della subordinazione di carattere complessivo per la quale oggi forse i tempi (v.le molte sentenze della Corte che allentano la definizione di lavoro subordinato facendola coincidere con il concetto di inserimento nel ciclo produttivo) non sono ancora maturi- con interventi promozionali contro le esclusioni nel mercato(v. il basic incombe, il diritto alla formazione permanente, la direttiva sui congedi parentali).
Nel suo insieme l’Unione sembra –forse al di là di una opzione rigorosa e malgrado le politiche e gli orientamenti dei governi- avere fatto tesoro delle indicazioni del rapporto Supiot sul futuro del diritto del lavoro in europa del 1999 nel quale si difende una strategia garantistica per “cerchi concentrici,”che mira ad estendere a tutte le forme di attività produttiva umana un paniere di diritti fondamentali (in attuazione del “ diritto a lavorare”- secondo A.Supiot, M. D’Antona ed anche la stessa Carta di Nizza inteso come diritto individuale alla scelta dei tempi e dei modi del proprio contributo alla produttività sociale) con un adattamento, dove necessario, alla specifiche modalità contrattuali. (v. il telelavoro o il lavoro interinale).
Questa svolta (si è parlato di uno “ statuto del lavoro post-fordista”) implica l’individuazione nella cittadinanza del fulcro dei diritti sociali e la conservazione di una tutela “ lavoristica” pi stringente ed esigente per chi opera in condizioni di particolare eterodirezione. N è lecito affermare che l’europa avrebbe scelto di passare ad un modello di welfare competitivo (W. Steeck), ad un “ workfare”: la visione inglese in questa materia è tutt’altro che egemonica. Alcune norme della Carta pongono degli argini molto netti: la formazione permanente e continua è formulata come un diritto del singolo, non del lavoratore, il basic income (art. 34) come prerogativa non condizionata da obblighi lavorativi.

Rimane il buco nero del sindacato e del dialogo sociale.
Qualche passo avanti è stato compiuto, ma nel complesso questa dimensione a livello sopranazionale rimane piuttosto evanescente. Permane l’incertezza sui criteri di rappresentanza (aziendale, categoriale, confederale) e la mancanza di competenza sui presupposti della contrattazione: il diritto di associazione e la regolazione del conflitto sociale ( in realtà l’Unione se procederà nell’esperienza federale si troverà a dover sciogliere questioni ben pi spinose come lo statuto e le guarentigie del futuro PM europeo).
I poteri attribuiti ai partner sociali, come disse M. D’Antona, sono addirittura eccessivi se confrontati con la realtà di cui dovrebbero essere espressione (i sindacati funzionano da equivalenti rappresentativi dei Parlamenti).
Vi è il pericolo che meccanismi come quello del coordinamento aperto e o del vertice trilaterale peggiorino la situazione con l’ ingabbiamento e l’istituzionalizzazione del sindacato, che finirebbe per perdere quell’autonomia senza la quale non può apparire come genuina espressione di una mediazione pi ampia e allargata rispetto a quelle delle rappresentanza politica. . Non vale ancora per la dimensione europea l’idea di G. Teubner (o di M. D’Antona) della “regolazione dell’autoregolazione”, perch, a ben guardare, sopra la dimensione statale non c’è nessuna autoregolazione, in particolare nel settore emergente degli atipici.
Quanto un nuovo federalismo post-nazionale riuscirà a riaggregare poteri intermedi e di controllo sociale diffuso rimane, comunque, una scommessa tutta da giocare (la vera alternativa pragmatica e teorica su cui si incentra la no-demos thesis) che difficilmente può essere vinta a colpi di decreto, anche se di rango costituzionale. Il giuslavorismo è, ad esempio, da sempre aperto e disponibile alle teorie di governo “ multilevel” (v. i lavori pionieristici di G. Vardaro e G. Giugni sulla contrattazione collettiva interpretata come sub-sistema sulla scia della teoria di N. Luhmann), al rapporto tra norme internazionali, comunitarie, nazionali e infranazionali e autonome. Occorre, però, anche elaborare fori e procedure inedite, rispetto a quelle tradizionali nelle quali si è espressa l’autonomia sindacale. Ha sostenuto A. Supiot “ i diritti sociali presuppongono la partecipazione delle persone coinvolte e la loro determinazione. che non può pi limitarsi alla rappresentazione politica, ma implica la moltiplicazione di istanze partecipative e di concertazione sociale appropriate”.
In effetti qui si confrontono due linee, non sempre coincidenti.
Da un lato l’europa sindacale ha puntato decisamente su di un modello federale, in sintonia con molti autori della scuola del “ multilevel constitutionalism “(v. in primis I.Pernice) che –alla fine- confidano su passaggi istituzionali e categorie che mantengono una somiglianza con quelle tradizionali, anche se rinnovate e di maggiore complessità: un parlamento federale, l’introduzione di diritti soggettivi esigibili e giustiziabili. La contrattazione collettiva si appoggerebbe per una parte alle garanzie “ minime” e per l’altra al riconoscimento legislativo del suo ruolo. Dall’altro lato invece un certa espansione di poteri dei sindacati si è giustificata con la teoria, non coincidente con la prima, della new governance ( penso soprattutto ai contributi di G. Guarino o S.Cassese) nella quale la “ sovranazionalità “ è sempre meno leggibile con i paradigmi giuridici consolidati:si esprime in dinamiche funzionali, “ a rete”, tecnocratiche, nelle quali il sindacato è uno dei tanti soggetti che aspirano alla concertazione “ comunicativa” con gli organi “ di governance”: Il sindacato si muove in questo contesto con maggiore difficoltà rispetto alle ONG (che esprimono una visibilità non su base rappresentativa pi evidente) o dei gruppi informali introdotti nella comitologia comunitaria.
Nel prima schema si intravede bene una contrattazione collettiva europea valida erga omnes e ratificata dalla Commissione, nella seconda emergono le esperienze dei coordinamenti aperti o dei Vertici sociali dalla decisionalità incerta e sfumata. La prima prospettiva, anche se incompiuta-soprattutto sul lato sociale- salva l’idea della partecipazione democratica, la seconda tende a stemperarla come dice F. Sharp ( con la tesi della democrazia di ouput non di imput) in una sorta di dialogo ex post degli effetti delle politiche sociali( anche se talvolta con alcune suggestioni incontra legittime aspirazioni a che la quaestio del deficit democratico dell’Unione non sia ridotto alla parlamentarizzione della sua forma di governo).
Su questo snodo, che mi appare assai problematico, la nuova Costituzione, se ci sarà, può lasciare solo una traccia e, al pi, qualche pista aperta. Spetterà alla sfera pubblica europea, di cui necessariamente i sindacati sono parte essenziale, identificare e valorizzare gli spazi pi appropriati per radicare un controllo sociale diffuso sull’insieme delle politiche dell’Unione.

19 01 2003
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