Il diritto violato
La guerra in Afghanistan è finita e i bollettini ufficiali celebrano la vittoria della civiltà occidentale, incuranti della strage di un popolo e del mancato raggiungimento, ad oggi, dell'obiettivo dichiarato (la cattura di Bin Laden). Sul campo restano, insieme a decine di migliaia di morti e feriti, rovine e macerie che avveleneranno gli anni a venire.
Nessuna guerra ha edificato società pacifiche ed è facile prevedere che la storia si ripeterà: il cambio di regime (passaggio di consegne eterodiretto tra signori della guerra) non pacificherà l'Afghanistan e la sconfitta della brigata internazionale dei talebani non sradicherà il terrorismo.
Odio e disuguaglianze escono dalla guerra rafforzati e radicalizzati; insicurezza e instabilità sono, a loro volta, alimentate dall'abbandono della via politica per la soluzione dei conflitti.
C'è di più.
Questa guerra non ha solo violato regole fondamentali del diritto: essa ha spazzato via, nel sentire comune, l'idea stessa di un diritto internazionale come alternativa all'esercizio del potere del più forte.
La guerra, ripudiata dalla comunità internazionale dopo la tragedia del secondo conflitto mondiale (e per questo vietata dalla carta delle Nazioni Unite e da molte Costituzioni, tra cui quella italiana), ha riassunto un ruolo di protagonista e c'è chi si affanna ad affiancarle aggettivi (ìgiusta, umanitaria) tesi a consegnarle una patente di legittimità.
Né sono da meno le ricadute sul diritto interno di molti paesi, accompagnate da proclamazioni di liceità di ´un esercizio proporzionato della tortura' (sic!) e dalla realizzazione nella base americana di Guantanamo di vere e proprie gabbie, indegne degli animali più feroci, per custodire a monito per tutti i talebani arrestati.
Ciò pone ai giuristi democratici un obiettivo ineludibile: edificare un diritto internazionale nuovo, spostandone il baricentro dalla garanzia dell'equilibrio tra i governi alla tutela dei diritti fondamentali dei cittadini del mondo (con individuazione di appropriati strumenti anche giudiziari per renderla effettiva).
* * * * *
Il diritto violato non è solo quello internazionale.
» in atto in Italia uno scontro durissimo sulla questione delle regole e della legalità.
Il rifiuto del presidente del Consiglio e di alcuni potenti politici del suo entourage di accettare, anche per sé, le regole poste per tutti i cittadini (prima tra tutte la sottoposizione al controllo giudiziario di comportamenti potenzialmente illeciti) sta scardinando le basi stesse dello Stato di diritto. La prima fase di questa operazione è risalente: delegittimare i magistrati pubblici ministeri e giudici, ormai senza distinzione per paralizzare le ricadute di eventuali sentenze sgradite (additate sin d'ora, con un'ossessiva campagna mediatica, come atti di ostilità politica anziché come accertamenti imparziali).
La seconda fase, sempre più evidente in questi mesi, è la realizzazione di una giustizia a due velocità, debole con i forti e forte con i deboli: le vicende del falso in bilancio e delle rogatorie svizzere sono state solo le prime di un elenco che si arricchisce quotidianamente di nuovi capitoli (dall'attacco allo statuto dei lavoratori alle proposte di modifica della legge sull'immigrazione, dalle prime proposte di modifica del codice penale al rilancio di una strategia di zero tolerance nel settore degli stupefacenti).
E si è, infine, arrivati, all'intervento diretto sulla giurisdizione e sui processi: la pretesa della maggioranza parlamentare (con la mozione approvata al Senato il 5 dicembre 2001) di dettare la giusta interpretazione della legge, la minaccia
di perseguire disciplinarmente l'interpretazione sgradita, la contestazione di decisioni non condivise con interpellanze parlamentari anziché con mezzi di impugnazione (approfittando della doppia veste di difensori e parlamentari), la rimozione del giudice da parte del guardasigilli al fine di impedire la prosecuzione del processo. Torna alla mente l'ingenua ammirazione del modello americano ostentata da A. de Tocqueville di ritorno dall'ottocentesco viaggio in America: ´Non so se ci sia bisogno di dire che presso un popolo libero come l'americano, ogni cittadino ha il diritto di accusare i funzionari pubblici davanti ai giudici ordinari, e che tutti i giudici hanno il diritto di condannare i funzionari pubblici; tanto la cosa mi sembra naturale'. (A. de Tocqueville La democrazia in America, ed. it., Rizzoli, Milano, 1992, p. 105).
* * * * *
Di ciò trattano, principalmente, questo e il prossimo fascicolo di Questione giustizia: per contribuire ad evitare che la storia riproponga, in sede nazionale e sovranazionale, declinazioni della giustizia analoghe a quelle descritte, con riferimento all'età dell'imperatore Comodo (180 190 d.C.), da E. Gibbon (Declino e caduta dell'impero romano, ed. it., Mondadori, Milano, 2000, p.92): ´L'attuazione delle leggi era venale e arbitraria. Un criminale benestante non solo poteva ottenere l'annullamento di una giusta sentenza di condanna, ma anche infliggere all'accusatore, ai testimoni e al giudice la punizione che più gli piacesse'.
14 gennaio 2002
(l.p.)