Presentazione
La guerra (una guerra terribile,
della quale non sapremo mai il numero dei morti perché, per
usare le parole di un capitano dei marines, «sarebbe
un’inutile perdita di tempo tornare indietro a contarli»)
è finita. L’Iraq «liberato» è
un’insieme di rovine; un lungo catalogo di morti, di feriti, di
affamati, di donne e uomini in fuga (non si sa verso dove); un paese
militarmente occupato percorso da bande lasciate libere di
dedicarsi a razzie e saccheggi (quasi a immagine mediatica della loro
inferiorità e barbarie). C’è chi
sostiene che era un prezzo da pagare per abbattere il tiranno (un
tiranno – è bene ricordarlo – tanto crudele quanto
un tempo favorito, vezzeggiato e armato dagli attuali «liberatori»)
e che la riduzione di una terra, già culla di civiltà,
a giacimento petrolifero a disposizione di nuovi padroni è
solo un effetto collaterale.
Noi non lo crediamo. E crescono
in noi – a guerra finita - l’indignazione, la
rabbia, la preoccupazione per le migliaia di morti innocenti (non
meno innocenti di quelle altre vittime la cui unica colpa fu di
trovarsi nelle due torri l’11 settembre del 2001), per il
diffondersi di una cultura razzista e xenofoba (che individua
nell’Islam e negli immigrati tout court un pericolo per
la «civiltà occidentale»), per il totale e
ostentato disprezzo dei governi anglo americani (e dei loro alleati)
verso ogni regola di diritto, per l’espansione drammatica del
terrorismo internazionale che l’attuale scenario prefigura.
Questa guerra ha segnato un salto di qualità inedito rispetto
a quelle più recenti, combattute nel Golfo, nella ex
Yugoslavia, in Afghanistan (pur, come questa, ingiuste e
ingiustificabili). In quelle precedenti occasioni l’ipocrisia
del linguaggio - ma, con essa, anche una cultura ancora memore delle
tragedie del «secolo dell’orrore» - aveva
escogitato parole destinate, nelle intenzioni, a esorcizzare la
guerra, volta a volta definita «operazione di polizia
internazionale», «intervento militare umanitario»,
«azione di contrasto del terrorismo internazionale».
Questa volta la guerra – per di più preventiva (cioè
studiata e decisa freddamente a tavolino) - è stata (è)
rivendicata e legittimata come metodo ordinario di
rapporto tra gli stati e i popoli: siamo di fronte a una guerra
«protesa alla creazione di un nuovo ordine internazionale, di
una nuova cultura giuridica, di una nuova idea del mondo» (C.
De Fiores); al ribaltamento della cultura e del sistema politico e
giuridico nato all’indomani del secondo conflitto mondiale.
Saddam poteva – e doveva -
essere disarmato altrimenti. Senza inesistenti bacchette magiche,
ma con un impegno paziente di isolamento politico, di rafforzamento
degli strumenti (anche coattivi) dell’ONU, di potenziamento
degli organismi di giustizia internazionale.
La guerra – sempre, e
soprattutto nell’attuale contesto – non risolve i
problemi, ma li moltiplica (e, infatti, annientato l’Iraq, già
è cominciata la ricerca del nuovo nemico da abbattere).
La debolezza dell’ONU non è un destino ma una
scelta strategica di chi, in questi anni, lo ha
deliberatamente emarginato e delegittimato insieme agli organi di
giustizia internazionale (come non ricordare l’aperto ed
esplicito boicottaggio del governo degli Stati Uniti nei confronti
della Corte penale internazionale?). Lo ha detto, del resto, con
ruvida chiarezza, nei mesi precedenti la guerra, C. Weinberger,
esponente di spicco dell’attuale establishment americano
e già ministro della difesa del presidente Reagan: «l’Alleanza
atlantica è destinata a sostituire le Nazioni Unite: è
più ristretta, più flessibile e sostanzialmente fedele
agli Stati Uniti e ai loro interessi». Gli interessi della
potenza egemone (anziché il diritto internazionale, i principi
di eguaglianza e i diritti fondamentali dei popoli) diventano, così,
regola di convivenza, suscettibile di essere imposta con la
forza.
L’ipocrisia (o l’astuzia
delle parole) definisce questa impostazione «difesa della
democrazia». Si tratta in realtà, assai più
brutalmente, della riproposizione di logiche coloniali, che
sembravano sepolte da decenni. E non c’è soltanto
questo. La democrazia non si esporta con le bombe e i cannoni. Al
contrario, la guerra e la sua logica stanno rimodellando, nei singoli
stati, i connotati del sistema democratico rappresentativo, ritenuto
ormai obsoleto (A. Asor Rosa).
Trovano così
legittimazione la diseguaglianza (soprattutto per i migranti),
la caduta delle garanzie minime per chi dissente e persino la
tortura; e, contemporaneamente, la spaccatura profonda tra l’opinione
pubblica, contraria alla guerra con percentuali elevatissime, e
l’ossessione bellica di buona parte dei governanti
dell’occidente accentua il processo in atto di trasformazione
della democrazia da «governo dei più» a «governo
dei meno», minandone in maniera irreversibile il fondamento e
la legittimazione.
Livio Pepino