LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA I princìpi, le libertà, le buone ragioni
1. Le costituzioni, come le democrazie, non sono un destino, ma hanno bisogno di vivere attraverso le buone ragioni dei princìpi da esse affermati e delle libertà che sono chiamate a proteggere. È questo il motivo per il quale i 60 anni della Costituzione repubblicana non possono – oggi soprattutto – risolversi in un anniversario, ma devono aiutare a riscoprire il nucleo fondamentale dell'ispirazione dei Costituenti, non certo incline a «tentazioni banalmente compromissorie», ma tesa al raggiungimento di un «accordo di validità universale, oltre il nostro ambito nazionale, e quindi ancorato a principi generali di umanità e civiltà più vastamente ammessi, capaci in qualche modo di interpretare il comune sentire umano dopo la grande catastrofe della guerra». In virtù di quell'accordo, il costituzionalismo del secondo dopoguerra ha riproposto la definizione offerta dall’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: «Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una Costituzione». A questa idea di costituzione hanno guardato i nostri Costituenti, attribuendo ad essa la forza che l'esperienza delle tragedie della prima metà del Novecento indicava come necessaria alla costruzione dello Stato costituzionale: «Poiché l'unità dell'ordinamento non è più un dato di cui si possa prendere semplicemente atto, ma è divenuto un difficile problema, l’antica esigenza di sottoporre l’attività dell’esecutivo e dei giudici a regole generali e stabili si allarga fino a investire la stessa attività del legislatore. Ecco allora l’opportunità di ancorarla a un insieme di valori e princìpi costituzionali superiori sui quali, malgrado tutto, si realizza un sufficientemente ampio consenso sociale». I fondamenti individuati dalla Dichiarazione del 1789, dunque, si collocano oggi nel quadro dei valori e dei princìpi della costituzione rigida.Se il costituzionalismo nasce come «rifiuto della personalizzazione assoluta del potere», la Costituzione repubblicana orienta l'inveramento di quel rifiuto, da un lato, verso una serie di «congegni di suddivisione e articolazione dei poteri» e, dall’altro, verso la valorizzazione del ruolo dei soggetti del pluralismo e della effettiva partecipazione del lavoratore all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese, secondo la formula utilizzata dall’art. 3: il volto del regime disegnato dalla Costituzione è dunque quello di una democrazia strutturata, organizzata, una democrazia fondata sulla promessa che mai più potrà tornare l’incubo di un duce solo al comando.E anche la garanzia dei diritti assume un nuovo, rivoluzionario significato. Non più assorbite nell’indistinta nozione di «libertà individuale» di cui all’art. 26 dello Statuto albertino, le libertà fondamentali trovano nella Costituzione una disciplina orientata, attraverso la definizione dell’assetto dei poteri destinati ad interferire con esse, all'effettività. A fianco delle libertà individuali, i Costituenti del ‘48 hanno poi costruito una nuova idea di cittadinanza: all'individuazione del lavoro, sintesi del principio personalista e di quello solidarista, quale fondamento della Repubblica democratica, si ricollega la concezione di una cittadinanza con qualità, ossia riempita di contenuti sostanziali, della promessa di inclusione politica e di integrazione sociale degli uomini connessa al riconoscimento e alla tutela dei diritti sociali. 2. Nell’una e nell’altra direzione, nella protezione delle libertà individuali e nella promozione della cittadinanza con qualità, la garanzia dei diritti esige una giurisdizione soggetta soltanto alla legge: «Che i giudici siano non semplicemente soggetti alla legge, ma soltanto ad essa soggetti, significa che la fedeltà alla legge è anzitutto “cultura della disobbedienza”. Disobbedienza a tutto ciò che legge non è: e dunque, in primo luogo, ai poteri dominanti, politici o economici, pubblici o privati che essi siano; alle improprie gerarchie interne allo stesso apparato giurisdizionale; e infine alla giurisdizione di vertice, se essa sia meditatamente non condivisa. In questa luce, la fedeltà alla legge diventa un elemento non di passività, ma di responsabile scelta ispirata ai valori della Costituzione e al principio pluralistico, fuori del quale non sarebbe concepibile la stessa indipendenza della magistratura». Le parole di Borrè descrivono meglio di ogni altra sintesi il ruolo al quale la Costituzione ha chiamato la giurisdizione e la tensione con la quale, anche attraverso rotture politico-culturali consumatesi al suo interno, la magistratura ha contribuito al disgelo costituzionale. In questo quadro, la rivoluzione prodotta dall’avvento della Costituzione rigida e dal meccanismo diffuso di rimessione al giudice delle leggi delle questioni di legittimità costituzionale è stata decisiva per consentire «lo sviluppo di una giurisprudenza che allora si chiamò “alternativa”, ma che semplicemente intendeva far valere il primato della Costituzione troppo a lungo dimenticata sulla legalità viziata su cui si basavano gli orientamenti giurisprudenziali dominanti in materia di diritto del lavoro, di reati d’opinione e sindacali, di libertà personale, di garanzia degli interessi diffusi, di tutela della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro e di salvaguardia dell’ambiente». Ancora attuale è il catalogo delle questioni sulle quali si sviluppò, in quella stagione, l’elaborazione giurisprudenziale (in una feconda sintonia con gli orientamenti più innovativi della dottrina), così come attuale è l’abito mentale del magistrato che da allora si è venuto delineando intorno alle idee-guida dei diritti e del garantismo presi sul serio e del magistrato-cittadino, non più arroccato in una visione castale del suo status, ma attore partecipe e consapevole della discussione pubblica. Naturalmente, poiché esistono, e non vanno confusi, «compiti della politica» e «doveri della giurisdizione», il contributo di quest'ultima al disgelo dei valori e dei princìpi della Carta del ’48 si inserì, nei trent’anni gloriosi dello Stato costituzionale, in un quadro più ampio di orientamento delle politiche del diritto verso l’attuazione della Costituzione. Un quadro che oggi è decisamente alle spalle. 3. La fine dei trent’anni gloriosi non ha investito, in prima battuta, «le quattro grandi libertà dei moderni» di cui parlava Bobbio, ma la prospettiva della cittadinanza con qualità. L’attacco allo Stato sociale e lo smantellamento del Welfare State veicolati dal verbo neo-liberista si sono saldati con il ridimensionamento dei soggetti del pluralismo e con la demolizione del loro ruolo di mediazione politico-sociale: la spinta verso la personalizzazione della politica, che ha investito tutte le democrazie occidentali, ha rappresentato nel nostro Paese la risposta più facile al collasso politico-istituzionale dei primi anni Novanta, «una scorciatoia di fronte alla difficoltà di interpretare sul lungo termine le trasformazioni sociali per inquadrarle in un'ipotesi compiuta».Il delinearsi di una «democrazia del tinello» si è accompagnato alla straordinaria permeabilità dell’agire politico alle ondate di panico morale generate dalla «solitudine del cittadino globale» e dal «trasferimento dell’ansia dall’insicurezza e dall’incertezza globali, le sue vere cause, nel campo della sicurezza personale»: nell’orizzonte disegnato dal ritorno della guerra – umanitaria e/o permanente – e con l’irruzione nelle nostre democrazie della logica del nemico, viene a tracciarsi un continuum tra l’inaridimento dei luoghi della partecipazione politica e della mediazione dei conflitti, il rafforzamento dei poteri degli esecutivi (nazionali e locali), l’ascesa di imprenditori politici della sicurezza (e della paura) e la progressiva erosione dell’universalità e dell’inviolabilità delle libertà individuali.È in questo contesto che si è sviluppata la lunga stagione della delegittimazione della Costituzione, una stagione il cui esordio può forse essere individuato nella svalutazione di quelle norme che «non si realizzano immediatamente, nel momento stesso dell’instaurazione dell'ordinamento statale, ma che richiedono, da parte di questo, ulteriori adempimenti ed attuazioni». Su approcci politico-culturali che, in vario modo, rimettevano in discussione la normatività della Costituzione (e di tutte le sue parti), si è poi innestata la serie di progetti di riforma – peraltro dai contenuti e anche dagli esiti diversi – che arriva fino alle ultime legislature: dalla grande riforma craxiana, caratterizzata da una forte impronta leaderistica, al progetto della Commissione bicamerale del 1997, che rivelava la «propensione ad un uso “congiunturale” delle istituzioni»; dalla riforma del titolo quinto approvata dal centro-sinistra nel 2001 all’aggressione della Costituzione sventata dal referendum del 25-26 giugno 2006. L’esito del referendum ha rappresentato indubbiamente una vittoria per le ragioni della Carta del ’48, ma sarebbe illusorio – e il quotidiano della vita politico-culturale del nostro Paese continua a ricordarcelo – pensare che questa vittoria abbia risolto o avviato a risoluzione la questione dei «rapporti tra la Costituzione e il suo oggetto, e cioè l’insieme di quelle che sinteticamente possono essere chiamate le “strutture fondamentali” della società». Tanto più che sulle “strutture fondamentali” della società si riflettono non solo le questioni irrisolte della cosiddetta transizione italiana, ma anche e soprattutto gli effetti della crisi profonda che attraversa il nostro tempo, una crisi globale non solo per le dimensioni geografiche dei diversi problemi che la costituiscono e per le connessioni che li legano, ma anche per la sua potenziale attitudine a ridefinire in radice i modelli di convivenza delle diverse società. L’«accordo di validità universale» da cui è nata la Costituzione repubblicana è ancora in grado di dare risposte ai gravi interrogativi dei nostri giorni. Fare appello alle ragioni del pluralismo contro la concentrazione assolutistica del potere, alle ragioni delle garanzie contro le violazioni delle libertà fondamentali delle persone, alle ragioni della promessa di emancipazione dei singoli e dei gruppi contro la profezia che si autoavvera di chi nega l’esistenza della società è ancora la strada migliore per costruire un futuro alla democrazia costituzionale nata sessant’anni fa. Un futuro che, in nessuna direzione, è un destino, ma l’approdo verso il quale gli uomini sapranno indirizzare la loro storia.
M. Dogliani, Costituzione e antipolitica, in Dem. Dir., n. 4/2001, p. 33.
Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 56.